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Quando un vescovo sapeva dire all’imperatore: «Pentiti, e chiedi perdono a Dio»

Oggi, per quieto vivere e perché hanno introiettato in pieno la mentalità del mondo, i vescovi, i pastori delle diocesi, specialmente in Italia, si guardano bene dal dire ai politici di maggior peso ciò che, pur senza uscire dall’ambito delle loro competenze morali e religiose, li metterebbe in urto con essi. Semmai, li si vede sollecitare e bacchettare i politici perché non sono abbastanza accoglienti e generosi con i "migranti"; ma per l’abbandono in cui versano milioni di pensionati e di poveri italiani, nemmeno una parola. Se alzano la voce, insomma, lo fanno sempre e solo su un terreno in cui sono sicuri di trovare dei facili consensi, di essere spalleggiati dal papa quanto basta, anzi, d’interpretarne fedelmente la volontà, e di godere del sostegno anche di gran parte della classe dirigente e dei mezzi d’informazione, ad essa devoti (per usare un’espressione gentile), quanto meno di quella politicamente corretta. Non parlano più dell’aborto e tacciono sull’eutanasia; non fiatano sulle unioni di fatto e non fanno motto sui cosiddetti matrimoni omosessuali; fingono di non sapere quanto attiene alla manipolazione genetica e glissano sulla fecondazione eterologa e sulla pratica, ancora da noi illegale, ma forse non ancora per molto, dell’utero in affitto. E se un buon cattolico, ad esempio un professore, come è accaduto recentemente in Belgio, si permette di esprimere la sua opinione sull’aborto, che poi è la stessa che dovrebbero avere tutti i cattolici e specialmente i pastori del gregge, ossia che l’aborto è la soppressione di una vita, i bravi vescovi "cattolici" lo abbandonano a se stesso e restano indifferenti davanti alla campagna che si scatena contro di lui; peggio, l’università "cattolica" di Lovanio lo sospende dall’insegnamento. L’aborto, un omicidio? Suvvia, hanno detto costoro, in perfetto accordo con lo spirito del mondo e con tutti gli esponenti della cultura laicista e irreligiosa, non esageriamo

Eppure c’è stato un tempo in cui i vescovi non avevano alcun timore di parlare, e lo facevano in maniera energica e coraggiosa, non con dei politici di mezza tacca, ma con gli imperatori romani (e, più tardi, con quelli germanici): dicendo pane al pane e vino al vino, rimproverandoli per i loro pubblici delitti, minacciando loro la scomunica se non avessero fatto la debita penitenza, come qualunque altro peccatore di fronte a Dio. E a quel tempo la Chiesa era ancora giovane e incerta sulle sue basi, dilaniata da lotte ed eresie, minacciata all’esterno da nemici astuti e potenti, inerme di fronte al potere statale e anche alle ormai imminenti invasioni barbariche: forte solamente della coerenza, della trasparenza e della incrollabile fedeltà ai dettami del Vangelo del suo clero. Era questo che la rendeva autorevole e che le dava forza; anche se non aveva divisioni da gettare sul piatto della bilancia, per usare la rozza e stupida espressione di Stalin; anche se, per far valere i principi morali dei quali era custode, non possedeva altra forza che l’intrepidezza dei suoi membri e una viva fede nell’aiuto di Dio, Padre e Signore del cielo e della terra. Stiamo parlando, in particolare, della fine del IV secolo, e del vescovo di Milano, Ambrogio, che, per caso, era anche un santo, e di Teodosio il Grande, l’ultimo imperatore romano che, sia pure per pochi anni, riunì e governò come una sola entità le due partes di Oriente ed Occidente.

Mentre Teodosio era in Occidente, dopo aver riportato la vittoria decisiva sull’usurpatore Massimo, e dopo aver fatto venire presso di sé, da Costantinopoli, il figlio minore, Onorio (avuto, come il maggiore, Arcadio, dalla prima moglie poi defunta, Flaccilla, e non dalla seconda, Galla) si verificò un grave episodio nella pars Orientis, a Tessalonica. Nell’aprile del 390 la folla, durante una sommossa, uccise e trascinò per le vie il corpo del magister militum per l’Illirico, il goto Butheric, reo di aver fatto arrestare un celebre fantino dell’ippodromo, beniamino delle folle, per il reato di sodomia ai danni di un garzone: reato che, all’epoca, comportava la pena di morte. Venuto a conoscenza del fatto, Teodosio ordinò una spietata rappresaglia ai danni degli abitanti di quella città: senza distinzione fra colpevoli e innocenti, le truppe furono lasciate libere di massacrare la folla recatasi appunto ad assistere alle corse delle bighe. La strage durò almeno due ore e non si sa quante vittime abbia fatto: alcuni storici, sulla scorta del greco Teodoreto di Ciro, parlano di settemila persone, ma la cifra è sicuramente esagerata; forse furono alcune centinaia, forse ancora meno. Ad ogni modo, fu una pagina nera nella storia del diritto: un imperatore romano, per giunta cristiano, si macchiava d’un massacro deliberato che, per punire i colpevoli di un precedente episodio di violenza popolare, si abbatteva sopra una intera cittadinanza, in maniera indiscriminata. È vero che lo stesso Teodosio, che andava soggetto a violenti, incontenibili scatti di collera, ma che, a parte ciò, era un uomo ragionevole e di animo pio, dovette essersi subito pentito dell’ordine che, avventatamente, aveva impartito, poiché mandò un corriere a fermare la strage; ma era ormai troppo tardi, e il corriere giunse a cose fatte. Guarda caso, una legge del 18 agosto 390, promulgata dallo stesso Teodosio, stabilì che, per l’innanzi, ogni sentenza capitale dovesse aver luogo almeno un mese dopo la proclamazione della sentenza, proprio per non vanificare una sua eventuale modifica da parte dei giudici.

L’impressione che suscitò la notizia in tutto l’Impero fu enorme; e il clero cattolico, che, in altre occasioni, aveva preferito far finta di non vedere e non sentire, anche per non peggiorare le relazioni con i precedenti imperatori, prima Costanzo, poi Valente, entrambi favorevoli all’eresia ariana, questa volta non poté regolarsi allo stesso modo. A Milano, che allora svolgeva le funzioni di capitale dell’Occidente, era in corso un sinodo di vescovi; si parlò anche della strage di Tessalonica, e si decise che Ambrogio, il quale godeva di una grandissima autorità, pur essendosi di recente scontrato con Teodosio per la vicenda della sinagoga di Callinico (in Siria, sull’Eufrate), avrebbe dovuto far comprendere al sovrano la gravità e la profonda ingiustizia del suo atto che, sotto il profilo morale e religioso, lo escludeva inevitabilmente dalla comunione con la Chiesa cattolica. E Teodosio, si noti, era colui che, nel 380, con l’editto di Tessalonica – insieme agli imperatori Graziano e Valentiniano II, poi deceduti – aveva dichiarato il cristianesimo niceno la religione ufficiale dell’Impero romano, mettendo fuori legge sia l’arianesimo, sia i culti pagani. Si trattava, dunque, di un fedele e prezioso alleato della Chiesa cattolica; eppure quei vescovi, e Ambrogio, come vescovo della città che fungeva da capitale, non esitarono a mettere a rischio quel rapporto privilegiato per riaffermare un principio morale superiore alla politica: che nessuno è al di sopra della legge morale e che tutti gli uomini, dal più umile fra i sudditi, fino al sovrano, dotato di un potere immenso, devono piegare il ginocchio davanti ai dieci comandamenti, in questo caso al quinto: non uccidere.

Cediamo la parola a un insigne studioso, lo storico Angelo Paredi (Canzo, Como, 17 agosto 1908-Milano, 7 aprile 1997), autore di un rinomata biografia del vescovo ambrosiano, Sant’Ambrogio (Milano, Rizzoli Editore, 1985, pp. 249-252):

Verso la metà di settembre, quando si seppe che era imminente il ritorno di Teodosio a Milano, Ambrogio partì dalla città, dicendo di sentirsi malato e di dover andare a fare delle cure. Che fosse veramente ammalato o indisposto, può darsi, e lui stesso il vescovo lo afferma. Il motivo primo di quella partenza era però un altro: egli voleva evitare di doversi incontrare con l’imperatore, che non era ancora persuaso di aver commesso un delitto, facendo uccidere, o almeno non impedendo che insieme con i colpevoli venissero uccisi tanti innocenti. Ambrogio dalla località dove si era rifugiato mandò all’imperatore una lettera (ep. 51) confidenziale, non dettata come le solite, ma scritta di sua mano, che nessun altro quindi poteva conoscere. Teodosio era un cristiano convinto, battezzato. Il vescovo in quella lettera loda la pietà e la clemenza dell’imperatore, ma gli dice chiaro che il fatto accaduto a Tessalonica è una cosa atroce; gli fa capire con delicatezza che egli deve sentirsi responsabile della morte di persone innocenti, che a lui vescovo sarebbe impossibile celebrare l’Eucaristia alla sua presenza, alla presenza di un pubblico peccatore: "Nella notte precedente la mia partenza da Milano ho avuto un sogno: ho sognato di vederti venire nella chiesa e di non poter celebrare il sacrificio per la tua presenza". Teodosio leggendo queste righe doveva capire che Ambrogio e gli altri vescovi lo ritenevano responsabile di un delitto, lo consideravamo un pubblico peccatore, un cristiano "fuori dalla comunione" fino a quando, dopo aver comporta una congrua penitenza, non avesse chiesto perdono a Dio per il delitto compiuto, e fosse quindi riammesso alla comunione con gli altri fedeli.

Il vescovo riveste la sostanza piuttosto amara della sua missiva in forme di finezza gentile e quasi affettuosa: "Tu, o imperatore augusto, hai zelo per la fede, tu hai il timore di Dio, e il tuo temperamento focoso ti volge alla clemenza appena qualcuno si curi di calmarti; ma invece si esaspera e ti porta a eccedere se qualcuno ti irrita… Sei però capace anche da te solo di riprenderti, la tua pietà sa dominare e vincere il tuo carattere impetuoso…". Egli, il vescovo, può solo consigliare, suggerire, pregare. Ricorda Ambrogio i tanti motivi che egli ha di essere riconoscente verso Teodosio, ricorda Graziano (che era stato l’autore della elevazione di Teodosio all’impero), ricorda i figli dell’imperatore. "Io, o imperatore, ti amo, ti voglio bene, ti accompagno con le mie preghiere. Se mi credi, ascoltami. Se mi credi, perdona questo mio intervento, che io faccio solo perché metto Dio prima di ogni altra cosa".

In questa lettera i critici vedono un capolavoro di abilità diplomatica. Essa è pure una viva testimonianza della dedizione intera del vescovo alla causa, cui si era votato sedici anni prima, la causa di Dio e della religione.

Teodosio poteva rispondere che la punizione dei tessalonicesi era stata non un delitto, ma una necessità politica, una misura necessaria per garantire l’ordine pubblico, per far vedere ai soldati che il governo li difendeva; poteva dire che per un imperatore la vita del generale ucciso valeva assai più che non la sorte di una massa bruta di tifosi delle corse circensi. Anche oggi si può discutere a non finire sulla legittimità di una ritorsione militare: ma con le discussioni e i dubbi amletici non si governa né uno Stato né una Chiesa.

In un primo tempo sembra che Teodosio si sia dimostrato non disposto ad ammettere una colpa sua personale nella triste vicenda del massacro dei Tessalonicesi. Aveva accanto il primo ministro ("magister officiorum") Rufino, che non poteva che suggerirgli di non ascoltare il vescovo. Le poche discordi testimonianze costringono a supposizioni più o meno probabili. Forse Rufino ebbe incarico di avviare trattative con il vescovo per vedere se era possibile un compromesso. In quei giorni poi arrivò a Teodosio la notizia che erano sorti gravi dissidi alla corte di Costantinopoli tra Galla, la giovane seconda moglie dell’imperatore, e Arcadio il tredicenne figlio della prima moglie di Teodosio e augusto per l’Oriente. Non è improbabile che queste preoccupazioni familiari abbiano anch’esse contribuito a convincere il cristiano Teodosio che aveva ragione il vescovo, che facendo uccidere tutta quella gente di Tessalonica aveva commesso un delitto, che aveva offeso Iddio. Nel discorso funebre del 395 il vescovo dirà che Teodosio "fece penitenza, confessò il suo peccato, ne chiese il perdono".

Ambrogio era persuaso e ripeteva che uno arriva a trovare Dio, solo se Dio vuole lasciarsi trovare da lui, che una conversione religiosa, una "metanoia" non può essere che un dono di Dio. Penitenti, più o meno sinceri, tanti certo ne aveva già visti Ambrogio in quindici anni: ma che tra i penitenti ci fosse un imperatore non era mai capitato né a Milano né altrove. Era una novità sensazionale. Un imperatore, un faraone, un re nella immaginazione della gente era una persona superiore alle leggi, a qualunque legge. [..]

Era tempo che qualcuno dicesse chiaro che anche un imperatore, se cristiano, e se colpevole di un delitto, doveva far penitenza come gli altri. Il vescovo Ambrogio nel 390 a Milano ebbe per il primo il coraggio di invitare un imperatore cristiano a riconoscersi colpevole di un delitto. Teodosio on ebbe vergogna di chiedere pubblicamente a Dio il perdono della strage avvenuta per ordine suo. Lo afferma Ambrogio nel discorso funebre già citato. Lo attesta Rufino d’Aquileia, che scriveva la sua storia nell’Italia settentrionale una decina d’anni dopo il grande avvenimento. "Teodosio, biasimato dai vescovi d’Italia [s’intende per le uccisioni di Tessalonica], riconobbe di aver compiuto un delitto, ammise con lacrime la sua colpa, e compì la penitenza alla vista di tutti i fedeli, avendo deposto le insegne imperiali [come si usava fare nei lutti ufficiali] per il tempo fissatogli" (H.E., 11, 18).

Il vescovo Ambrogio diede a nome di Dio l’assoluzione all’imperatore Teodosio, che chiedeva perdono a Dio, gli disse cioè che Dio gli perdonava la sua colpa. Questo atto finale probabilmente avvenne nella festa di Natale dell’anno 390. […] La scena culminante fu certo la riconciliazione: una scena di gioia, tanto che i fedeli presenti piangono di commozione. Per la prima volta nella storia un monarca pubblicamente si riconosceva sottomesso lui pure alle leggi della giustizia, ammetteva che a far uccidere degli innocenti aveva commesso una colpa. Il vescovo con la sua franchezza nell’esigere la penitenza anche da un imperatore e l’imperatore con la sua sincera umiltà di fronte non al vescovo ma a Dio, affermavano il primato del diritto sulla forza. In quel mondo romano, che pure con i suoi sapienti istituiti giuridici aveva dovuto vedere e sopportare le pazze imprese di Nerone e di Caligola e d’altri ancora, il fatto per sé unicamente religioso della penitenza di Teodosio significava certamente un progresso anche umano e civile.

Gli storici di tendenza anticattolica, o, comunque, di estrazione illuminista, da Edward Gibbon fino al nostro Corrado Barbagallo, hanno sempre visto, in questo episodio, la data funesta in cui la Chiesa cattolica soverchia l’autorità statale, la piega a sé, la mortifica, la pone sotto la sua tutela; tutela che sarebbe durata più di mille anni. Naturalmente, questo è un modo di vedere le cose. A noi sembra più giusta e più veritiera la prospettiva di Angelo Paredi: la penitenza imposta da sant’Ambrogio a Teodosio – non la sua umiliazione; che il vescovo lo abbia scacciato dalla porta della chiesa, dove l’imperatore voleva entrare, è una leggenda malevola e posteriore — è un momento alto della storia civile, quello in cui un’autorità disarmata, puramente spirituale, riesce ad imporre il principio che, davanti a Dio, gli uomini sono tutti uguali e che, dal punto di vista morale, i potenti non hanno diritto a sconti o indulgenze particolari, quando è in gioco il valore della persona umana; devono rispondere dei loro atti, in prima persona, come chiunque altro; e nulla e nessuno, neppure la ragione di Stato, possono scioglierli dai doveri di umanità cui tutti devono sottostare, e che tanto più devono essere osservati dai regnanti e da coloro dal cui volere dipendono milioni d’individui. È un principio di civiltà, di umanità, di diritto, che s’impone sulla brutalità, sulla forza materiale, sull’arroganza del potere. Inoltre, s’impone il principio della responsabilità individuale: né la folla di Tessalonica poteva essere incolpata, collettivamente, per il linciaggio del generale Butheric, né Teodosio poteva giustificare se stesso affermando di aver agito in base a una necessità superiore, che lo esimeva dal dovere di accertare le singole responsabilità, autorizzandolo a colpire nel mucchio. Fu una lezione di stile, ma anche di sostanza giuridica e di civiltà: il diritto si regge sull’idea che ciascuno deve rispondere per sé stesso e che nessuno può essere trattato come un numero nella massa, privo di valore in se stesso. È stato un trionfo del valore della persona umana: una scoperta e una affermazione della cultura cristiana, resa possibile dal Vangelo di Gesù Cristo; prima, gli uomini non ragionavano così, ma pensavano che ciascuno vale non per se stesso, ma in base alla nascita, alla stirpe, alla classe, e che, per esempio, un individuo che nasce schiavo non è una persona, ma una cosa, o poco più di un animale. E sarà il figlio minore di Teodosio, Onorio, meno di quindici anni dopo, a vietare definitivamente i combattimenti dei gladiatori, ribadendo, così, il principio cristiano della unicità e preziosità di ogni singola vita umana, e la condanna della sua soppressione per il mero divertimento del pubblico. Prima, quel divertimento era considerato una cosa normale, normalissima; tanto è vero che gli spettacoli del circo erano frequentati da folle enormi, formate non solo da uomini adulti, ma anche da donne e da ragazzi. Se i signori illuministi avessero avuto, e avessero tutt’oggi, un minimo di onestà intellettuale, dovrebbero ammettere che le loro idee fondamentali sulla dignità della persona umana, quale soggetto di doveri, ma anche di diritti, vengono proprio dalla rivoluzione cristiana: una rivoluzione pacifica, incruenta, ma che fece fare all’umanità un immenso progresso morale e civile.

Ne avesse ancora, la Chiesa, vescovi come Ambrogio. Ma Ambrogio era un santo: il suo coraggio, la sua fermezza venivano da Dio, erano un dono del Signore. Oggi ci sono Paglia, Galantino, Lorefice, Coccopalmerio: uomini di un’altra pasta, di un’altra statura, forse anche di un’altra chiesa.

Fonte dell'immagine in evidenza: RAI

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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