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Un delitto segreto è moralmente meno grave?

Molti pensano che la gravità di un delitto, in particolare dell’omicidio, dipenda essenzialmente, o, comunque dipenda in larga misura, dagli effetti morali che esso produce sulla società, cioè sul dolore, sulla paura e sul senso di angoscia che provoca negli altri esseri umani, oltre che nello smarrimento e nella frustrazione che derivano dal vedere che il delitto rimane impunito, o che non viene sanzionato in maniera adeguata.

A questa posizione, che è tipica dell’edonismo e dell’utilitarismo, due tendenze oggi prevalenti nella temperie culturale della nostra società, si può facilmente obiettare che, se il male provocato da un delitto consiste essenzialmente nell’effetto negativo che esso provoca a livello sociale, un delitto che rimanga segreto, cioè che non solo non venga "scoperto", ma che non giunga nemmeno a conoscenza degli altri esseri umani, tranne, beninteso, colui che lo ha commesso, non provoca alcun danno e, di conseguenza, in base al loro ragionamento, non dovrebbe neanche essere considerato un vero male in senso morale. Se fosse così, allora, per valutare la liceità o meno dell’azione delittuosa, sarebbe sufficiente mettere sul piatto della bilancia il diritto della vittima di continuare a vivere, e quello dell’assassino di toglierle la vita, imparzialmente e spassionatamente, e lasciare che la bilancia penda là dove il piatto risulta più pesante. Per esempio, nel caso della legittima difesa, crediamo non vi siano obiezioni sul fatto che essa è moralmente giustificata e, quindi, nell’assolvere colui che uccide un altro essere umano per proteggere la propria esistenza, o quella di altri, da un pericolo grave e immediato. È pur vero che non sempre si può stabilire un confine preciso fra un pericolo grave e immediato, e una percezione di pericolo che, soggettivamente, appare tale, mentre non lo è se guardata con l’occhio freddo di un osservatore esterno e oggettivo. Problema non da poco, a ben considerarlo, perché suscettibile di mettere in crisi quasi tutta la nostra certezza riguardo alla liceità o alla illiceità di una uccisione, che, nel secondo caso, diverrebbe automaticamente un assassinio. Tuttavia, è una questione che, in questa sede, lasceremo da parte, poiché ci limiteremo a una riflessione sul delitto volontario e intenzionale, che è, evidentemente, tutt’altra cosa da una uccisione compiuta per legittima difesa.

La domanda, dunque, è la seguente: se un delitto, come un omicidio, rimane segreto, lo si può considerare come meno grave rispetto ad un altro, che divenga noto e giunga a impressionare l’opinione pubblica? La nostra tesi è che non lo sia; ma, per argomentare tale affermazione, dobbiamo ripartire dalla definizione di cosa sia un’azione valutabile in senso etico. Oggi si tende a pensare che una certa azione sia buona o cattiva se essa riflette, o contraddice, i valori morali accettati in quella società: il che è una forma di relativismo pratico, perché riduce la questione del bene e del male a un semplice dato storico-culturale. Se fosse così, non si capisce perché mai siano stati processati i dirigenti nazisti che attuarono la politica di sterminio voluta da Hitler; e infatti, al processo di Norimberga, la tesi degli avocati difensori fu che essi avevano semplicemente eseguito degli ordini. Noi pensiamo, invece, che la nozione del bene e del male sia un dato originario e universale, presente alla coscienza di ogni essere umano, talvolta in maniera vaga e confusa, altra volta in maniera estremamente netta e precisa; e che gli usi e i costumi sociali, per non parlare degli ordini dell’autorità superiore, possono, sì, esercitare un influsso, come pure la pressione psicologica di un collega, un amico, un parente dalla volontà più forte: quasi mai, però, almeno in un soggetto psichicamente e moralmente sano, fino al punto di annullare del tutto tale nozione originaria, o addirittura di capovolgerla nel suo contrario. Naturalmente, dal momento che abbiamo escluso la prevalenza del fattore storico, a noi resta l’onere di dimostrare come una tale nozione originaria sia presente alla coscienza di ogni essere umano: ebbene, non esitiamo ad affermare che solo un intervento divino può esserne la causa, perché, se l’uomo fosse una creatura meramente biologica, quella nozione, posto che vi fosse, sarebbe sempre il frutto di un’azione sciale.

Può essere interessante vedere come il filosofo americano Tom Regan (1938-2007) ha trattato la questione del delitto segreto, all’interno di una problematica assai più ampia — o assai più ristretta, secondo i punti di vista — in quello che è considerato il testo fondamentale dell’animalismo, I diritti animali (titolo originale: The Case for Animal Rights, Berkeley, The Regents of the University of California, 1983; traduzione dall’inglese di Rodolfo Rini, Milano, Garzanti, 1990, pp. 280-282):

In che modo l’utilitarista edonista dovrà affrontare i problemi mirali relativi all’uccisione degli agenti morali? Vanno certamente considerati i piaceri e di dolori, nonché i piaceri e i dolori che prevedibilmente essa avrebbe avuto se se non fosse stata uccisa. Ma i suoi piaceri e i suoi dolori hanno un peso morale che non è superiore a quello dei piaceri e dei dolori di uguale intensità di chiunque altro. L’egalitarismo, che costituisce uno dei pregi dell’utilitarismo classico, esclude che piaceri e dolori della vittima possano contare di più. Poiché "ciascuno deve contare per uno e nessuno per più di uno", la vittima non può che avere, per così dire, un voto solo nella determinazione della illiceità morale di ucciderla. Se, uccidendo l’agente morale in questione, si consegue il saldo aggregativo ottimale di piaceri e dolori, l’utilitarista edonista riterrà non solo che non ci sia nulla da ridire sulla sua uccisione, ma che tale uccisione gli sia imposta dalla sua teoria.

Un risultato simile è in contrasto con le nostre intuizioni riflessive circa la negatività morale dell’omicidio. L’uccisione di un agente morale è un atto moralmente così negativo, pensiamo noi, che può essere giustificato solo in circostanze molto speciali (per esempio, per legittima difesa […] L’utilitarismo edonistico rende tropo facile giustificare l’omicidio: esso sarebbe consentito non solo in circostanze STRAORDINARIE, ma anche n situazioni del tutto COMUNI.

Gli utilitaristi edonisti non si nascondo che la loro teoria sembra approdare a conclusioni in netto contrasto con le più solide credenze morali, e le più ingegnose argomentazioni con cui cercano di salvare la propria teoria denotano se non altro la serietà con cui si fanno carico del problema. Il loro argomento principale è il seguente. Come agenti morali noi abbiamo coscienza della nostra mortalità: sappiamo di non essere destinati a vivere eternamente, almeno si questa terra, e a volte c en preoccupiamo fino ad esserne profondamente tubati. La consapevolezza del fatto che a volte gli agenti morali UCCIDONO i propri simili contribuisce all’angoscia che ci deriva dal pensiero della morte. Questa consapevolezza è causa di insicurezza nei nostri rapporti con gli altri e l’insicurezza nuoce al conseguimento dell’obiettivo dell’utilitarismo edonistico di produrre il saldo migliore di piaceri e dolori per tutti gli individui interessati. Per esprimerci sulla moralità dell’uccisone di un nostro simile, perciò, dobbiamo tener conto di qualcosa di più dei piaceri e dei dolori degli individui direttamente interessati, ossia dell’omicida e della vittima. Dobbiamo tener conto anche della preoccupazione, del’angoscia e dell’insicurezza che ne deriva ad altri individui cui tocca vivere conoscendo l’accaduto. Se teniamo conto di tutto questo, argomenta il sostenitore dell’utilitarismo edonistico, ci accorgiamo che uccidere un agente morale è negativo – quando lo è — soprattutto in virtù dei suoi EFFETTI COLLATERALI, cioè dell’angoscia e degli altri sentimenti spiacevoli che si ripercuotono su chi sopravvive. Paradossalmente, insomma, la ragione principale per cui è sbagliato uccidere un agente morale non consiste nel danno arrecato alla vittima, bensì, prioritariamente, nel danno arrecato ai superstiti.

Questa replica non è in grado di cogliere l’obiettivo che si propone. Per metterne in luce le manchevolezze basterà pensare agli omicidi che rimangono segreti. Un omicidio che rimane segreto non può determinare quegli effetti collaterali che hanno un peso così rilevante nell’interpretazione proposta da questa teoria della negatività morale dell’uccisione di un agente morale. Se un omicidio rimane segreto, gli altri non ne hanno notizia e quindi non possono esserne turbati. Qualora un omicidio rimasto segreto fosse valso a determinare il saldo ottimale di piaceri e dolori per gli individui che ne risentono, un sostenitore dell’utilitarismo edonistico non avrebbe ragioni morali per criticarlo; la sua teoria, anzi, lo GIUSTIFICHEREBBE. Anche questa conclusione è in contrasto con le nostre intuizioni riflessive circa la negatività morale dell’omicidio. Il fatto che un omicidio resti segreto non fa alcuna differenza morale, o, se la fa, lungi dal diminuirne la negatività, la aggrava. Poiché gli assassini che riescono a tener segreto il proprio delitto meritano di essere puniti e poiché, riuscendo a tenerlo segreto, essi non vengono scoperti e puniti, non è nemmeno possibile far giustizia, e questa circostanza rende moralmente ancora più odioso il loro atto. L’utilitarismo edonistico, pertanto, capitola su due fronti, in quanto non riesce a dar ragione NÉ della negatività morale di un omicidio rimasto segreto, NÉ della negatività aggiuntiva del fatto che, in questo caso, l’omicida si sottragga alla punizione. Poiché gli stessi utilitaristi edonisti cercano di mostrare come la loro teoria possa illuminare e nostre intuizioni circa la negatività dell’omicidio, l’appello a queste intuizioni per valutare l’adeguatezza della loro teoria sarebbe del tutto pertinente anche nel casi in cui non fosse suscettibile di una spiegazione indipendente.

Animalismo a parte, Tom Regan esprime il classico punto di vista di un filosofo che vuol reagire all’edonismo utilitarista, dilagante e imperante nella cultura occidentale contemporanea, perché vede a quali conclusioni brutali e inumane esso conduce inesorabilmente, una volta che ne sia stato accolto il principio fondamentale, la ricerca del massimo piacere per il maggior numero di soggetti; ma che, nello stesso tempo, non vuole allargare la prospettiva in senso metafisico, appunto perché anch’egli, senza rendersene conto, ragiona in maniera simile e "parallela" a quella dei filosofi che critica, cioè in un’ottica esclusivamente immanentistica, essendo il suo scopo quello di dimostrare che non si devono uccidere gli animali, neppure per mangiarli, perché anch’essi sono soggetti di diritti, pur non essendo agenti morali (cioè ignoranti del bene e del male), come lo sono, ad esempio, gli esseri umani mentalmente ritardati, esempio ch’egli fa esplicitamente. Tuttavia, la debolezza del suo ragionamento è che, se si vuol restare sul terreno di un immanentismo radicale, non si ha più il diritto di fare appello ad alcun principio: l’unica cosa che vale è il giudizio soggettivo di chi compie un’azione. Regan sostiene che nessun essere umano ha il diritto di cibarsi degli animali, così come nessuno ha il diritto di uccidere un altro essere umano, solo perché il delitto può restare segreto, oppure perché commesso ai danni di una vittima incapace di intendere e di volere, e quindi esclusa dal novero degli agenti morali. Noi possiamo anche essere d’accordo con lui sul piano pratico (e infatti, personalmente, abbiamo fatto la scelta, da molti anni, di non mangiare la carne di alcun animale), ma la filosofia è un’altra cosa: essa consiste nell’individuare, e possibilmente dimostrare, dei principi d’ordine generale, in base ai quali si devono ritenere lecite certe azioni morali, e illecite altre, con un ragionevole grado di chiarezza. Ora, se si considera l’uomo semplicemente come un mammifero più evoluto, e quindi più intelligente, o più sensibile, o più raffinato, degli altri, si resta, inesorabilmente, entro l’orizzonte della forza: perché, in ultima analisi, è la forza che domina nel regno animale, ed è la forza che dà il "diritto" al predatore di uccidere la sua preda. Pertanto, adottando una simile prospettiva, ci si mette allo stesso livello degli edonisti utilitaristi: sono essi a decidere ciò che è moralmente lecito, semplicemente perché "sanno" di poterlo fare: sia che si tratti di uccidere un animale per mangiarselo, sia che si tratti di uccidere un essere umano, per una ragione qualsiasi, a patto che l’azione resti segreta, oppure che lo si scelga fra quanti, come gli animali, non hanno piena coscienza di sé (aborto, eutanasia), e si pensa d’avere sufficienti ragioni per farlo. È strano che gli animalisti si affannino tanto a vedere riconosciuti i diritti degli animali, ma non spendono altrettanto impegno per vedere riconosciuto il diritto alla vita degli esseri umani. Se amano tanto la vita, in tutte le sue manifestazioni, come mai tacciono sui milioni di aborti volontari, che negano il diritto di nascere ad altrettanti bambini? Comunque, per tornare al nostro tema, diremo che è sbagliato porre la questione etica di un delitto come se il danno da esso prodotto riguardi solo le persone che ne sono toccate, direttamente o indirettamente; o come se riguardi solo la coscienza. Può non esservi la conoscenza del fatto, e può non esservi la coscienza delle persone coinvolte (perché mentalmente incapaci, come nel triste caso di Eluana Englaro, o, semplicemente, perché ancora non nate, ma già concepite), e tuttavia il delitto è moralmente rilevante, perché è un male in se stesso: è il male. Stevenson, nel racconto Markheim, fa dire al diavolo che ogni peccato è un omicidio, con un chiaro riferimento biblico (Gv., 8, 44): egli è stato omicida fin dal principio. E questo è il punto: il male è il peccato, cioè una ribellione contro l’amore di Dio; che ci siano dei testimoni o no, che ci sia la coscienza o no, il male è male, e il bene è bene…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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