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Non sappiamo che farcene di preti come questi

La puntata di Cartabianca del 13 giugno scorso, su Raitre, a cura di Bianca Berlinguer, aveva come tema l’eventuale legge sullo ius soli e la concessione della cittadinanza italiana agli stranieri che nascono in Italia; le due tesi contrapposte, contraria e favorevole, sono state rappresentate dal direttore del quotidiano Il Giornale, Alessandro Sallusti, e da un sacerdote, Fabio Corazzini, esponente del movimento cattolico Pax Christi, la cui storia comincia in Francia nel 1945, ma che viene introdotto in Italia nel 1954 ad opera dell’allora arcivescovo di Milano, Giovanni Battista Montini, il futuro papa Paolo VI.

Non abbiamo mai visto prima quel programma, così come, in generale, non guardiamo quasi mai un tal genere di programmi, dai quali non c’è praticamente nulla da imparare, se non misurare fino a che punto arrivi la sfacciataggine del sistema politico e mediatico nel voler imporre la cultura del politically correct, e la stupidità del pubblico nel subirla, perfino ringraziando per il servizio ricevuto (e pagato profumatamente, attraverso il canone televisivo). Eravamo davanti alla televisione per puro caso e abbiamo sentito, un po’ distrattamente, le argomentazioni del direttore Sallusti, le quali erano basate sul semplice buon senso e peccavano, semmai, di eccessiva timidezza, dato che la più grande paura, per un giornalista italiano, è quella d’incorrere nella taccia di razzismo e di subire, di conseguenza, il bando perpetuo dai circuiti della telecomunicazione pubblica e privata. Stavamo per alzarci, quando la parola è toccata a un personaggio che non sapevamo ancora chi fosse, non avendo seguito il programma fin dall’inizio, con le debite presentazioni degli ospiti. Si trattava di un giovanotto, vestito in borghese, anzi, in tenuta balneare, con la maglietta con le maniche corte, e portava un casco di capelli lunghi e ricci, più la barba e i baffi, il che lo rendeva simile, in tutto e per tutto, a tanti altri giovanotti già visti, nella nostra infanzia, ai tempi del ’68: gli studenti di Scienze politiche o di qualche altra facoltà universitaria "rossa", tutti debitamente marxisti e rivoluzionari, tutti debitamente barbuti e rancorosi, tutti debitamente ironici e pieni di disprezzo per il miserabile uditorio borghese, e col ditino alzato a mo’ di profezia, per declamare le massime fatali dei rivoluzionari d’ogni tempo e latitudine: State attenti, stiamo per arrivare: verrete spazzati via e così noi potremo instaurare finalmente il paradiso in terra, un ordine mondiale più giusto e più bello, dove non ci saranno più le sanguisughe come voi e dove lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo sarà solo un triste ricordo del passato.

Questo signore, peraltro, aveva — se possibile – un’aria ancor più arrogante, ancor più tonta, ancor più allucinata dei leader marxisti e maoisti e leninisti e castristi e guevaristi di sessantottesca memoria: nello sguardo gli brillava una luce stranissima, quasi da folle; e dalla mimica facciale, nonché dai gesti, traspariva un senso di sicurezza, di superiorità morale, un disdegno verso i filistei che non capiscono, né vogliono capire le sue ottime ragioni, che ne faceva la versione rivista e corretta di un predicatore millenarista, ma con qualche sfumatura giocherellona, come di chi non sa se abbia voglia di parlar sul serio oppure di buttarla in vacca, di farsi beffe dell’interlocutore e di aver solo l’intenzione di metterlo in ridicolo, non certo di discutere seriamente, tanto meno di soppesare con un minimo di onestà e di obiettività le sue tesi, le sue possibili obiezioni. Insomma, aveva l’aria del felice depositario della Verità, che ascolta divertito e vagamente annoiato lo squittio insignificante e irrilevante di chi non è d’accordo con lui, ma che si consola pensando — e a ragione, in effetti – che la ruota della storia va nella direzione che piace a lui, non in quella dei suoi eventuali contraddittori: insomma, la quintessenza dell’arroganza del politicamente corretto. Dopo cinque o sei secondi che stava parlando, su invito della giornalista Berlinguer, per replicare agli argomenti di Sallusti, ne avevamo già più a sufficienza per non avere alcun motivo di restare ad ascoltarlo, e infatti ci siamo alzati e siamo andato in un’altra stanza; a richiamarci davanti a televisore è stata l’esclamazione stupita di un’altra persona, che diceva: Ma guarda! Questo è un prete! E così abbiamo potuto appurare che era vero, si trattava proprio di un prete, peraltro mai sentito né visto prima: don Fabio Corazzini, appunto, di Pax Christi. Che fosse un prete, comunque, non lo si poteva capire da nulla: non solo non portava l’abito, ma neppure un crocifisso; noi, almeno, non l’abbiamo visto. Supponiamo che non lo porti perché, come dice sempre il papa Francesco, bisogna evitare come la peste l’orribile vizio del "clericalismo"; non bisogna offendere i membri delle altre religioni, o i non credenti, mostrando i simboli del cristianesimo; e poi, alla fin fine, sempre come dice il santo padre, Dio non è cattolico, e allora che bisogno c’è di qualificarsi come un sacerdote della Chiesa fondata da Gesù Cristo? Portava solo quel gran casco di capelli rossi e arruffati e quella maglietta a righe, come un personaggio comico di un film balneare di Carlo Vanzina; e, soprattutto, non parlava come un prete, non ragionava come dovrebbe fare un prete, non rispecchiava minimamente la spiritualità e la religiosità che dovrebbero sprigionarsi dalla persona di un uomo di Dio. No: parlava, ragionava e gesticolava proprio come un sindacalista, o come un sociologo, o meglio, come uno dei tanti fricchettoni delle marce per la pace, o per l’ambiente, o per gli animali: e vogliamo precisare subito che siamo sempre stati sensibili ai temi dell’ambiente, della pace e degli animali, per non parlare di una più equa ripartizione delle risorse terrestri fra tutti i sette miliardi di abitanti del pianeta. Ciò che ha reso, ultimamente, fastidiosi, per non dire insopportabili, tutti quei signori, è lo sfruttamento esasperato, banale, demagogico, assolutamente idiota e a senso unico, che essi hanno fatto, e stanno tuttora facendo, di quei temi così seri e importanti, in nome della loro cultura del politically correct: la cultura di sinistra, oggi rappresentata, politicamente, dal Partito Democratico e da altre piccole formazioni ancora più a sinistra: la cultura impersonata da personaggi come Laura Boldrini o Nichi Vendola, o come Monica Cirinnà e Ivan Scalfarotto, nei quali è ben rappresentata la triste parabola discendente di quella che fu una sinistra impegnata, bene o male (piuttosto male, secondo noi; ma, comunque, impegnata, forse anche in buona fede) per i diritti dei più deboli, e cioè dei lavoratori, dei pensionati, dei nullatenenti, e adesso è diventata la sinistra al caviale, la sinistra radical chic, femminista, omosessualista, immigrazionista, massonica e radicaleggiante, che continua a predicare dei diritti, sì, ma che ha perso di vista chi siano i più deboli, oggi: e che difende, in realtà, non i più deboli, ma i più prepotenti; non i più bisognosi, ma i più sfacciati; non i più dimenticati, ma i più cialtroni.

Alla signora Berlinguer, che aveva impostato la discussione chiedendo perché non si dovrebbe riconoscere la cittadinanza italiana a chi è nato in Italia, ha studiato in Italia, eccetera, tipico esempio di falsa imparzialità e di reale tendenziosità giornalistica, Sallusti aveva appena ricordato che tutti i terroristi islamici, protagonisti delle ultime azioni compiute in Francia, Gran Bretagna e Germania, erano giovani immigrati delle ultime generazioni, che erano nati in Europa, avevano studiato in Europa e frequentavamo perfino le discoteche europee, ma che ciò non dimostra affatto che fossero integrati o che riconoscessero i valori europei; e, inoltre, che esistono molti modi per aggirare la legge e risultare residenti in Italia, anche se si è clandestini e non si ha alcuna stima e alcun rispetto per la cultura del Paese ospitante. Don Corazzini ha incominciato contestando questo modo di ragionare e ha detto che non si può discutere di cittadinanza a partire dai terroristi e da coloro che inganno le leggi per ottenere la cittadinanza senza averne un reale diritto. Tipica maniera di ragionare, o meglio, di sragionare, dei buonisti catto-comunisti: non voler vedere il male, negare che il male esista. In base a questo modo di pensare, siccome non si deve partire dal presupporre la cattiveria o la malafede di nessuno, si dovrebbe andare al mercato col portafogli nella tasca dei calzoni, in bella vista, e passeggiare per i quartieri malfamati, ostentando il telefonino e il Rolex: tanto, non può capitare nulla di male, non è vero che ci sono i ladri, i delinquenti, gli uomini sono tutti buoni e specialmente i poveri profughi, anche se profughi non lo sono affatto, anche se fra essi ci sono fior di delinquenti, in fuga dalle patrie galere. E si noti che Sallusti non aveva detto: Siccome ci sono i terroristi islamici che sono immigrati di terza generazione, non bisogna concedere a nessuno la cittadinanza; aveva semplicemente osservato che i terroristi degli ultimi attentati sono immigrai islamici di terza generazione, e che ciò sta a dimostrare come non basti affatto essere nati in Europa per esser degni di ricevere la cittadinanza europea. Noi, però, non vogliamo essere timidi e vorremmo dire sino in fondo il nostro pensiero a proposito d’immigrati e di cittadinanza. Tanto per cominciare, non è un destino scritto nelle stelle, né altrove, che noi, cittadini europei, ci si debba rassegnare a questa incessante invasione di africani di religione islamica, e che non si possa dire "basta" e chiudere ermeticamente le frontiere, se e quando lo riterremo giusto (personalmente, riteniamo che quel momento sia già arrivato, e da un pezzo).

In secondo luogo, il punto non è se si debba dare la cittadinanza a chiunque sia nato n Italia o a chiunque la richieda, anche se non si è integrato affatto, perché non lo vuole, e impone ai suoi familiari uno stile d vita che è in totale disaccordo con i valori sui quali poggia la nostra società, a cominciare dalla pari dignità fra uomo e donna. A queste domande, è ovvio, per noi, che la risposta non può essere che negativa: sarebbe come pretendere che, se un bambino nasce in una camera d’albergo, egli deve essere ospitato per sempre in quell’albergo, e il direttore si deve impegnare a trovargli, quando sarà cresciuto, un posto di lavoro. La patria non è un albergo, non è una stazione ferroviaria o un aeroporto, non è un centro commerciale in grande stile, dove entra chi vuole e chi desidera avere certe cose, e ritiene suo diritto che gli vengano date. La patria è un’idea, una civiltà, un modo di essere: ne fa parte chi vi si riconosce, non è degno di farne parte chi non vi si riconosce. Inoltre, riguardo a chi viene da fuori, è più che naturale che gli si domandi una dimostrazione concreta di tale rispetto e di tale affezione, e, inoltre, che la sincerità delle sue intenzioni sia messa alla prova mediante una lunga attesa. Deve essere ben chiaro che ottenere la cittadinanza è un privilegio, e che tale privilegio comporta dei doveri, non solo dei diritti.

In terzo luogo, la patria è l’insieme di un territorio e di una popolazione che hanno delle radici, una storia, una identità precisa: se si ammette a farne parte un numero sproporzionato di stranieri, quella identità verrebbe meno. Anche nel caso fortunato, e puramente ipoetico, in cui tutti i nuovi arrivati nutrissero realmente sentimenti di lealtà, di affetto e di rispetto per la loro nuova patria adottiva. In altre parole: la patria rispetta tutti gli abitanti del pianeta, tutte le società e le culture, ma non riconosce a chiunque il diritto di farne parte, pena il proprio snaturamento. Una patria aperta a tutti, ventiquattro ore su ventiquattro, senza confini, senza controlli, senza un limite agli stranieri che essa può ospitare, non è più una patria, ma un bordello, una terra di tutti e di nessuno, un pese da occupare, un popolo da sostituire. Il che è precisamente quello che sta accadendo alla nostra Italia e, in varia misura, anche agli altri Paesi europei e agli stessi Stati Uniti d’America (ma quella è un’alta storia, oltre che un altro continente, e, per il momento, non siamo interessati a discuterne). L’Italia, se vuole restare l’Italia, non può accettare che diventino italiani milioni di stranieri, di negri, di islamici, con tutto il dovuto rispetto per gli stranieri, per i negri e per gli islamici. L’Italia è l’Italia: la sua identità è un’altra, la sua storia è un’altra: essa non è una parte dell’Africa, è una parte dell’Europa. E l’Europa è e deve rimanere l’Europa, non è giusto che diventi l’Eurabia, senza che i suoi cittadini siano mai stati chiamati ad esprimere la loro volontà su di un simile, radicale stravolgimento. Si parla tanto di democrazia, da parte dei signori del politicamente corretto, ma qui manca la base stessa della democrazia: la discussione e il diritto di scelta riguardo al proprio futuro collettivo.

Quanto ai preti come don Fabio Corazzini, vogliamo dire con tutta franchezza che non sappiamo che farcene. Non sono di giovamento alle anime; non portano con sé il profumo di Dio; non elevano chi li ascolta verso le altezze: dividono, polemizzano, irritano, infastidiscono con la loro petulanza, con la loro saccenteria, e soprattutto con il loro piglio mondano. Già il fatto che non vogliano indossare l’abito sacerdotale è oltraggioso per la fede e per i fedeli; diremo di più: è un inganno. È giusto che un uomo si presenti per quello che è: non ci piacciono i travestimenti, e meno ancora quelli che si vergognano di far vedere ciò in cui credono. Meno di tutto ci piace se costoro si mimetizzano, con la motivazione di voler rispettare "l’altro". L’altro si rispetta essendo se stessi, senza complessi, non giocando a travestirsi. Del resto, sono dei falliti e dei parassiti. Dei falliti, perché, grazie a loro, le chiese si sono svuotate; dei parassiti, perché crescono sul tronco di una fede che altri hanno coltivato: sfruttano la fatica altrui, ma loro non ci mettono nulla di proprio, o ci mettono quel che è sbagliato. Un buon prete si vede dalle vocazioni che riesce a suscitare: quante vocazioni sanno suscitare, nelle loro parrocchie e nelle loro diocesi, i preti di strada come don Corazzini? Ma per piacere: costoro farebbero scappare a gambe levate anche san Giovanni Bosco…

Fonte dell'immagine in evidenza: RAI

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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