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Ma l’Italia è ancora la patria degli italiani?

Ma l’Italia è ancora la patria degli italiani? E l’Europa è ancora la casa degli europei? Oppure l’una e l’altra sono diventate la terra di occupazione di milioni di stranieri, con i cittadini chiusi in casa nei quartieri degradati, e i nuovi arrivati liberi di sbarcare a migliaia ogni giorno, di pretendere accoglienza e lavoro, anche se non ce n’è, di spadroneggiare ovunque e di delinquere, rubando, stuprando, spacciando e assassinando? Certo, non tutti si comportano così; però molti: troppi. E, in ogni caso, anche se si comportano da cittadini esemplari, sono pur sempre milioni di stranieri, che fanno molti più figli di quanti ne facciamo noi, e molti dei quali sono ben decisi a non integrarsi, a conservare tutte le loro usanze, a imporre, semmai, i loro modi di vita, a cominciare dalla religione, rigorosamente e intransigentemente islamica. Si aggiunga che questo fenomeno è pilotato dall’alto, dalle grandi banche, dalle multinazionali: che essi non fuggono alla spicciolata "da guerra e fame", come ci viene detto, secondo la formula canonica, dai nostri mass media completamente asserviti a quelle banche e a quelle multinazionali, ma si stanno spostando in massa, per occuparlo, verso un continente ricco, appetibile, abitato da una popolazione vecchia e decadente, che non fa più figli, che pratica milioni di aborti, che celebra, come fossero un trionfo della civiltà, le nozze fra due uomini o fra due donne; e che non ama la vita, né vuol bene a se stesso, né ha rispetto e gratitudine per le proprie radici, la propria identità e per quanto hanno fatto i suoi progenitori in anni, decenni e secoli di duro lavoro e di creazioni dell’arte, della poesia, della scienza, del pensiero.

Aveva ragione Oriana Fallaci, la quale diceva di non sentirsi più a casa sua n questa Eurabia ove si costruiscono sempre nuove moschee e ove le massime autorità statali si rivolgono agli africani e agli asiatici dicendo: Venite, venite, che abbiamo tanto bisogno di voi? Ove i cittadini italiani ed europei sono discriminati in casa propria; ove i poveri di razza bianca e nati sul posto valgono meno dei poveri di razza nera venuti da chi sa dove, chi sa per fare cosa, e che intanto, nell’attesa di sapere se otterranno il permesso di restare, non si trattengono dal commettere reati d’ogni genere, anche sanguinosi. E comunque, reati a parte, resta un fatto: che l’Europa è l’Europa, l’Italia è l’Italia, perché sono il frutto dell’identità fisica e del lavoro, dell’intelligenza, della sensibilità europea e italiana. Se anche gli stranieri non fossero in maggioranza africani, ma eschimesi, il problema resterebbe: che ci fanno, in Europa e in Italia, milioni di eschimesi? Dire che questa non è la loro terra, che questa civiltà non è la loro, che non l’hanno costruita loro, equivale a una forma di razzismo? Qualcuno certo direbbe: Ma poverini, lassù nell’Artico c’è stato un grande cambiamento climatico; i ghiacci si stanno sciogliendo, la selvaggina non si trova più, dunque dobbiamo accoglierli, che altro potrebbero fare? Dove altro potrebbero andare? Una logica astratta, illuminista, da veri philosophes del XVIII secolo. Non ci si chiede se costoro siano compatibili con la nostra civiltà e con i nostri valori; non ci si chiede nemmeno se la loro presenza massiccia muterebbe per sempre il volto della nostra civiltà, se le imprimerebbe una identità completamente nuova, nella quale noi stessi ci troveremmo spaesati ed estraniati: no, si dice solo che, in nome dei sacri diritti dell’uomo e del cittadino, chi fugge da una situazione di difficoltà ha il diritto di essere accolto, ospitato, alloggiato, sistemato, e, perfino integrato (anche se magari non lo vuole affatto): che si stia parlano di dieci persone o che si stia parlando di dieci, di venti milioni, di cento milioni, è lo stesso. In nome dei diritti astratti, della ragione illuminista e dei sacri principi della laicità, del filantropismo, del cosmopolitismo: che bello, una società multietnica e multirazziale! Che bello, una società senza più barriere, senza più muri, senza più pregiudizi!

Sembra di assistere a una processo di rimbambimento, d’incretinimento collettivo. La popolazione di un intero continente, che un tempo fu attiva, dinamica, industriosa, intelligente, intraprendente, si è completamente liquefatta il cervello e si è del tutto rincretinita. Milioni di giovani rincretiniti marciano per un’Europa, per una Italia senza più "muri". Nessuno ha spiegato a quei figli di papà dei centri sociali che, senza muri, una casa non esiste; che, senza muri, d’inverno si morirebbe di freddo, d’estate di caldo; e, soprattutto, che, senza muri, chiunque potrebbe entrare, anche i male intenzionati, anche gli stupratori e gli assassini: cosa che, di fatto, accade. Chi non chiude a chiave la porta di casa sua, la sera, prima di andare a dormire? E, se può, mette anche il paletto alla spranga, o attiva l’impianto d’allarme elettrico. Sì o no? E dunque: come la mettiamo con questa colossale stupidaggine, con questa macabra pagliacciata di un’Italia senza muri, di un’Europa senza muri, che accoglie tutti, che vuol bene a tutti, anche ai peggiori delinquenti evasi dalle carceri dei Paesi più lontani, venuti qui apposta per delinquere e con maggiori margini di profitto e molto minori rischi per la loro nobile attività?

Nel ’68 i giovani incretiniti dai loro professorini di sinistra, stalinisti, maoisti, trotzkisti o castristi, si ribellavano contro la società dei padri, proclamavano che essa fa schifo, che la famiglia fa schifo, che la scuola fa schifo, che il lavoro "borghese" fa schifo (ma, in realtà, era proprio il lavoro in se stesso che faceva loro schifo), che solo la rivoluzione è bella, la rivoluzione, e, naturalmente, anche la droga e il sesso facile, con tutti, scambiandosi partner sessuali, spinelli e, poi, anche siringhe. I duri e puri, poco più tardi, hanno cominciato a scambiarsi anche le pistole e l’esplosivo, per distruggere materialmente tutto quel mondo che fa schifo, e per togliere di mezzo i suoi infami, luridi rappresentanti: magistrati, poliziotti, politici, intellettuali scomodi. Non sono riusciti a distruggere tutto, ma sono arrivati abbastanza vicini al risultato, almeno sul piano morale: hanno definitivamente imposto la dittatura culturale del caos, dell’ideologia cialtrona, del relativismo etico, del disordine eretto a valore supremo. Hanno definitivamente imposto, anche come modello educativo nelle famiglie, il loro Proibito proibire, il loro Vogliamo tutto, e lo vogliamo subito. I loro figli, infatti, son cresciuti così, mentre loro, o almeno una buona parte di loro, si sono meravigliosamente sistemati in quella società "borghese" e decadente, in quella società schifosa e rivoltante, che avrebbero voluto vedere distrutta su due piedi. Son diventati politici, giornalisti, avvocati, magistrati di grido. E hanno insegnato ai loro figli il nulla: l’ambizione senza sacrificio, la carriera senza merito, la promozione assicurata, il regaluccio a prescindere, il mantenimento gratuito assicurato, la logica del vitalizio e della rendita permanente. Hanno tirato su una generazione d’imbecilli arroganti e sfaticati, peggiori di loro.

I giovani dei centri sociali che hanno sfilato a Milano sabato 20 giugno 2017, portando centomila persone in piazza per la manifestazione "contro i muri", cioè a favore dell’accoglienza e dell’integrazione (dicono loro) di qualunque straniero, al suon dello slogan: Nessuno è illegale, ricordano molto da vicino, aggravate, l’imbecillità e la presunzione dei loro padri. Era stato chiesto agli organizzatori di rinunciare, o, almeno, di spostare la manifestazione, visto che il giorno prima un giovane sbandato italo-tunisino, islamico forse radicalizzato, comunque pieno di droga fino agli occhi, aveva tentato di uccidere, ferendoli seriamente, tre ragazzi delle Forze dell’ordine, due militari e un agente della Polizia ferroviaria (uno si è salvato per puro caso; due centimetri più in là, e avrebbe avuto recisa la vena giugulare). Niente da fare: hanno risposto che, se si fosse domandato a quei soldati e a quel poliziotto, loro di certo sarebbero stati d’accordo. Sta di fatto che nessuno l’ha chiesto loro. Puntualmente, nella stessa giornata di sabato, a Napoli si è verificato un altro episodio molto simile a quello della Stazione centrale milanese: un immigrato del Gambia ha aggredito, e ferito, due giovani italiani, a colpi di bottiglia. Era clandestino, se ancora è consentito di pronunciare questa parola: perché, in base alla logica geniale del Qui nessuno è illegale, a rigore non si dovrebbe neanche fare cenno a un dettaglio così trascurabile (come, su un altro versante della follia ideologica odierna, non si dovrebbe neanche azzardarsi a chiedere a un bambino chi siano suo padre e sua madre; è lecito solo domandargli chi sia il suo genitore uno e chi il genitore due; altrimenti si tratta di bieca omofobia). E fatti così, ormai, accadono tutti i santi giorni che Dio manda: trecentosessantacinque l’anno, trecentosessantasei se l’anno è bisestile. Se qualcuno dice di non saperlo, è perché vuol girare la testa dall’altra parte; se qualcuno dice che non è vero, non è solamente un imbecille, è un mascalzone che mente sapendo di mentire. Questa è la realtà, questa è l’Italia di oggi: un Paese allo sbando, dove i cittadini sono a rischio perfino dentro le loro case, ma dove ci si preoccupa sempre di tutelare chi crea i problemi, non chi li subisce.

Centomila persone a Milano, in queste condizioni, con la Stazione centrale ridotta a un bivacco, a una kasbah, a un luogo altamente pericoloso, dove perfino gli uomini delle forze dell’ordine rischiano quotidianamente la vita per un semplice controllo a una persona sospetta (figuriamoci cosa rischiano i cittadini pacifici e disarmati, i vecchi, i bambini); centomila persone a dire che va bene così, che bisogna continuare ad aprire le porte, a spalancare le coste e le frontiere, a far entrare chiunque, in qualsiasi quantità, con qualunque motivazione, o assenza di motivazione — sarebbe da indelicati chiedere a un individuo che non ha documenti e non vuol dare le sue generalità, per quale ragione sia venuto in casa nostra! — sono tante o poche? Tante, gridano gli organizzatori della "marcia contro i muri", esultanti: e agiungono: Vedete? Vedete che avevamo ragione noi? Che la gente è dalla nostra parte? No, non ne siano convinti. Se fosse così, sarebbe da prendere sul serio l’esempio di Oriana Fallaci: raccogliere le proprie cose e andarsene via da un’Italia che non è più l’Italia, e che non vuole essere più l’Italia; da un’Europa che ha deciso di farsi invadere e colonizzare da gente che non la ama, che non la stima, che non la rispetta, che anzi la disprezza e che considera debolezza tutta questa incomprensibile generosità all’ingrosso. Come mai il re dell’Arabia Saudita, Paese musulmano e ricchissimo, molto più vicino rispetto all’Europa, non si prendere in casa sua almeno i profughi provenienti dalla Siria o quelli dell’Afghanistan? Come mai non si prende in casa i migranti del Pakistan o del Bangla Desh? E come mai George Soros, il miliardario "filantropo" che si preoccupa per i migranti che muoiono in mare, non spende un dollaro per finanziare progetti di sviluppo che inducano gli africani a restare nei loro rispettivi Paesi, invece di finanziare le organizzazioni non governative che li traghettano in Italia, e che lo fanno — lo si è visto, ormai è provato, la magistratura ha aperto delle inchieste — non sempre e non solo per nobili ragioni di umanità e idealismo, ma per un calciolo economico ben preciso, in spregio alla sovranità del nostro Paese, anzi, col preciso obiettivo di destabilizzarlo mediante questa immigrazione selvaggia? Questi concetti non sono stati avanzati da qualche pericoloso leader populista e fascista, ma dal Procuratore della Repubblica di Catania, un onesto servitore dello Stato. In cambio, sappiamo che tipo di accoglienza hanno trovato le sue parole.

Dunque, centomila son tanti o pochi? Se fossero tanti, se esprimessero davvero il sentire del’uomo della strada, se interpretassero realmente i sentimenti dell’italiano medio, sarebbero anche troppi: abbastanza per vendere la casa, preparare le valigie e comprare un biglietto per un altro continente, il più lontano possibile. Questa Italia matrigna, che non fa nulla per i suoi poveri, per i suoi vecchi, per i suoi giovani, per i suoi laureati, per i suoi disoccupati; questa Italia matrigna che ha lacrime solo per i clandestini che annegano, che ha soldi solo per i falsi profughi che pretendono, che è indulgente solo per spacciatori e rapinatori ai quali il solito magistrato di sinistra diagnostica (neanche fosse un medico o uno psichiatra) un "grave stato di disagio sociale", e li rimanda liberi e arzilli dopo che hanno tentato di accoltellare un uomo delle Forze dell’ordine (come è successo a Padova a suo tempo, e come succede in continuazione, dappertutto), non merita che si resti qui a bere l’amaro calice sino alla feccia. Ma abbiamo motivo di credere che la vera Italia sia un’altra; e che, a fronte di quei centomila, ci fossero milioni e milioni di milanesi e di italiani che non erano e non sono d’accordo, che la pensano in tutt’altro modo, che sono stufi di essere invasi e dire ancora "grazie", che non sono più disposti a sopportare tutto questo. Forse un’Italia ancora sana c’è: un’Italia che non è stanca di vivere, che non ha voglia di suicidarsi, che ha rispetto di se stesa, delle sue tradizioni, della sua identità, dei suoi valori. Valori veri, non ciarpame ideologico o idiozie consumiste; e dunque, innanzitutto, la morale cristiana, frutto di duemila anni di storia, di pensiero, di lavoro, di sacrifici, di buoni esempi, di conquiste, di dedizione, di amore. Amore, guarda un po’, non sempre e solo per "l’altro", per lo sconosciuto, che magari è un delinquente, uno zingaro che non ha alcuna voglia di lavorare, un africano che non ha alcuna intenzione di rispettare la legge, ma un fratello bisognoso che ci è vicino, un figlio, un vecchio genitore.

Resta la domanda su chi siano, per questa generazione, i cattivi maestri dell’incretinimento. E qui viene il boccone più amaro da mandar giù: non i professorini marxisti, ma i preti progressisti e modernisti, la neochiesa gnostico-massonica, e un papa che, invece di fare il capo della Chiesa cattolica, ha deciso di fare il gran regista dell’auto-invasione e dell’auto-rottamazione sistematica…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Mike Chai from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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