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17 Maggio 2017Noi siamo qui: esistiamo, e occupiamo uno spazio e un tempo determinati.
Avremmo potuto non esserci? Non lo sappiamo. Dobbiamo partire dal dato del nostro esistere, del nostro esserci; la nostra domanda è possibile solo perché ci siamo: se non ci fossimo, non vi sarebbe alcuna domanda.
E il mondo, avrebbe potuto non esistere? Sembrerebbero due ordini di cose del tutto diversi: noi e il mondo. Noi, che ci sentiamo piccoli, siamo istintivamente portati a pensare che, sì, probabilmente avremmo anche potuto non esserci, se non come specie, almeno come singoli individui: riusciamo a immaginare il mondo che esiste senza di noi, ma la nostra mente si smarrisce del tutto se proviamo a immaginare la non esistenza del mondo. L’esistenza del mondo è il dato a partire dal quale il mondo, attraverso di noi, riflette su se stesso; non possiamo fare a meno di pensare, perché esistiamo; e quindi la nostra esistenza giustifica le domande, ma la sua eventuale non esistenza ci fa ammutolire. In realtà, pensare a un mondo che esiste senza di noi è tanto difficile quanto pensare a noi, come enti che avrebbero anche potuto non esistere. Si tratta di un pensiero ozioso: non c’è alcun modo per immaginare una possibilità diversa, e questo per la buona ragione che l’essere e il non essere non sono due modalità dell’esistente (e perciò anche del pensiero) che godano di un pari statuto ontologico: l’essere è l’essere, ma il non essere non è un essere alla rovescia, è l’assenza di essere; e ciò che si può definire solo in senso negativo, non è un oggetto, non è un ente, è solo una possibilità. Da una parte il mondo, che è una cosa; dall’altra il non essere, che è una possibilità, ma una possibilità inverificabile. Nessuno può dire se le cose avrebbero anche potuto non esistere; l’unica cosa che si può constatare è che esse esistono, ed è la loro esistenza che fa nascere la domanda.
Ora, noi siamo nel mondo, noi siamo parte del mondo: non potremmo esistere nel vuoto, non potremmo esistere senza un corpo, o, almeno, non lo potremmo così come siamo; lo potremmo, ma in altro modo, con altra forma. Lo potremmo come puri spiriti; ma noi non siamo puri spiriti, abbiamo anche un corpo. Questo è un fatto, e coi fatti non si litiga. Certo, questo corpo che abbiamo e che diciamo nostro, potrebbe anche essere un sogno, una illusione: è una ipotesi da non scartare. ma è una ipotesi, e nessuno è riuscito a dimostrarla. In senso ampio, cosmico, tutto il reale potrebbe essere solo spirito, e tutta la materia potrebbe essere solo apparenza illusoria; nondimeno, finché l’illusione perdura, i suoi effetti sono reali. Avere un corpo significa, per esempio, invecchiare e morire: questi sono fatti. Nemmeno i più grandi saggi di orientamento spiritualista hanno potuto evitare la vecchiaia e la morte; se nemmeno loro hanno potuto evitarle, ciò sembra indicare che il corpo non è una illusione, o che, se lo è, essa è un tutt’uno con la realtà, e non è possibile, almeno per noi umani, separarla dalla realtà "vera". Se il mio sogno di aver fame ed essere denutrito mi conducesse alla morte, ciò vorrebbe dire che quel sogno era tutt’uno con la realtà, e che non lo si poteva separare da essa.
Dunque: esiste il mondo; esistiamo noi, che siamo nel mondo; esiste il corpo, che ci lega alla catena delle realtà materiali; ed esiste una facoltà spirituale che ci spinge a osservare, riflettere, domandare. E la prima domanda, necessariamente, non può che essere questa: perché esistiamo? La domanda se avremmo potuto non esistere è una domanda insolubile, che non ammette risposta, se non arbitraria, laddove il "sì" o il "no" dipendono da stati emozionali, non dal ragionamento. Ma la domanda: perché esistiamo?, è una domanda perfettamente lecita e razionale: non c’è nulla di sbagliato, in essa. Cercare una risposta è possibile: se la nostra mente è atta a porre domande, ciò significa che esistono, da qualche parte, le risposte. È come per la sete: se il nostro organismo è capace di aver sete, allora ciò vuol dire che, da qualche parte, c’è il modo di spegnerla: da qualche parte deve esserci l’acqua. Non potremmo aver sete, se l’acqua non ci fosse: saremmo fatti in modo da non aver mai sete. Per la stessa ragione, non potremmo farci domande, se non vi fossero le risposte; saremmo fatti in modo da non avere curiosità. Ma un figlio, vuol sapere da dove è nato, chi sono i suoi genitori: se non se lo chiede da piccolo, se lo chiederà più tardi; ma prima o dopo, è certo che si farà la domanda.
Dunque: che ci stiamo a fare, qui? Se ce lo domandiamo, deve esistere la risposta; e la risposta è garantita dal fatto che esiste la verità. La verità è l’accordo della cosa con il giudizio: noi diciamo che è vera quella cosa che cogliamo essere così come ci appare, e che siamo capaci di rappresentarci nella sua verità, ossia come essa è realmente, e non in altro modo. Si dice che san Tommaso d’Aquino, quando entrava in aula per far lezione, per prima cosa ponesse una mela sul tavolo, dicendo agli studenti: Questa è una mela. Se qualcuno non è d’accordo, è pregato di uscire da questa stanza. San Tommaso credeva nell’esistenza di una verità oggettiva; inoltre, credeva che, se qualcuno non accetta questo principio, è impossibile che impari qualcosa, e dunque tanto vale che il professore se ne risparmi la fatica. In altre parole: non è il pensiero che crea l’essere (con buona pace di Hegel e di tutti gl’idealisti, ai quali, non a caso, Maritain negava la qualifica di filosofi), ma è l’essere che crea il pensiero O ci si mette d’accordo su questo punto, oppure non val la pena di discutere un minuto di più. La realtà oggettiva, e quindi la verità delle cose, non sono materia passibile di negoziato.
Alcuni filosofi, nondimeno, e specialmente di questi tempi, negano risolutamente che la verità esista; e, a dirla tutta, questa sembra essere oggi la posizione prevalente nella nostra cultura: una posizione di relativismo estremo, e, non di rado, aggressivo, perfino totalitario, che non vuol neanche sentir parlare dell’ipotesi opposta, ossia che la verità, in quanto tale, esista, anche se noi, sovente, ci muoviamo in mezzo a delle verità parziali, relative, incomplete e, perciò, ingannevoli. Ma il relativismo si elide da solo: se tutto è relativo, se non c’è alcuna verità "vera", allora neanche il relativismo può essere la verità vera: ma, a questo punto, non si dovrebbe più parlare ragionevolmente di nulla. Non ci sarebbe accordo neppure sulle cose essenziali, sul linguaggio, sul principio di non contraddizione: qualunque tentativo d’indagine filosofica sarebbe l’equivalente dello sbizzarrirsi di una legione di pazzi furiosi. Non si andrebbe lontano. Ciascuno potrebbe negare qualsiasi cosa, mentre nessuno potrebbe affermare nulla, se non in un senso ristretto e relativo: ma, a quel punto, anche soltanto capirsi diverrebbe un problema, perché ciascuno potrebbe attribuire alle parole il significato che preferisce; o anche mutarlo da un momento all’altro, come si cambia un vestito. Sarebbe come tuffarsi in un Buco Nero, dal quale nulla e nessuno possono più sfuggire. Meglio tornare indietro, dunque, ripercorrendo un pezzo della strada già fatta, e lasciandosi guidare, almeno un poco, dal vecchio, sano, istintivo buon senso, merce divenuta oggi rara e preziosa, appunto perché obliata, dopo secoli di discredito e di disprezzo.
Alla domanda perché siamo venuti al mondo?, il medico e scrittore Andrea Majocchi (Bascapé, 1876-Milano, 1965), del quale ci eravamo già occupati in un’altra occasione (cfr. l’articolo: Una pagina al giorno: Nostalgie fra le rovine, di Andrea Majocchi, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 20/10/2008 e ripubblicato su Il Corriere delle Regioni il 01/05/2016), fornisce questa risposta (cit. in: Annamaria Bechmann, Le mamme sono il cuore del mondo; titolo originale: Die Mutter Fin das Herz der Welt; tr. dal tedesco di E. Teresa Biavati, Roma, Paoline, 1962, p. 161):
Il mio posto preferito era uno sgabellino ai piedi della mia mamma che cucinava. E mi facevo raccontare delle belle storie e spiegare tante cose. La tormentavo con curiose domande chiacchierando su tutto quanto mi stava passando per la testa. "Mamma, perché siamo venti al mondo?". "Perché il buon Dio ci ha creati". "E perché ci ha creati?".
"Affinché noi lo conosciamo, lo amiamo, lo serviamo e un giorno lo possiamo godere in cielo!".
Dopo un po’ domandai ancora: "Perché non lo possiamo godere già in terra?". La mamma sorrise malinconicamente, mi accarezzò e disse: "Bambino mio, su questa terra non c’è gioia incontrastata!".
Riandando col pensiero ai vari momento della mia carriera, mi pongo la domanda: "Perché tante lotte, tante sofferenze?". "Ridivento il bambino […] che, appoggiato alle ginocchia della mamma, la guarda e chiede "Mamma, perché siamo venuti al mondo?" — e mi sembra di riudire le sue parole pie: "Per conoscere Dio, per amarlo, per servirlo e per goderlo in Paradiso". E mi sembra che quella sia la grande risposta, la soluzione del problema, l’oracolo che compendia tutta la sapienza del mondo. E quando un giorno sarò giunto alla fine, quando non mi rimarrà null’altro che la speranza nell’eterno godimento di Dio, le ultime parole che passeranno sulle mie labbra morenti dovranno essere quelle che sono incise sulla lapide di mia madre: "In Te, o Signore, ho sperato; non sarò confuso in eterno".
La mamma di Andrea Majocchi, donna di fede, ha dato al suo bambino la risposta che un tempo – non tanto lontano sul piano cronologico, ma che ci appare già lontanissimo per i cambiamenti sociali e culturali frattanto intervenuti – tutti i cristiani imparavano, sin dai banchi della scuola elementare, sul Catechismo di Pio X. Alla domanda sul senso della creazione, e quindi della vita umana, si giungeva per gradi, in una progressione di cui riportiamo solo i passaggi essenziali:
Chi ci ha creati? Ci ha creati Dio.
Chi è Dio? Dio è l’Essere perfettissimo, Creatore e Signore del cielo e della terra.
Che significa perfettissimo? Perfettissimo significa che in Dio è ogni perfezione, senza difetto e sena limiti, ossia che Egli è potenza, sapienza e bontà infinita.
Che significa Creatore? Creatore significa che ha fatto dal nulla tutte le cose.
Che significa Signore? Signore significa che Egli è padrone assoluto di tutte le cose. […]
Dio ha cura delle cose create? Dio ha cura e provvidenza delle cose create e le conserva e dirige tutte al proprio fine, con sapienza, bontà e giustizia infinita.
Per qual fine Dio ci ha creato? Dio ci ha creato per conoscerlo, amarlo e servirlo in questa vita, e per goderlo poi nell’altra in paradiso.
Che cos’è il paradiso? Il paradiso è il godimento eterno di Dio, nostra felicità, e in Lui di ogni altro bene senza alcun male.
Chi merita il paradiso? Merita il paradiso chi è buono, ossia chi ama e serve fedelmente Dio e muore nella sua grazia…
Questo linguaggio, ormai, a molti sembrerà ingenuo; e i soliti sapientoni, i progressisti e modernisti d’ogni specie, insorgeranno e grideranno allo scandalo, dicendo che, ai bambini, il Catechismo di Pio X insegnava solo delle formile da ripetere a memoria. Ma è chiaro che quelle formule erano come il lievito che si deposita nel forno, per fare il pane, ma solo in un secondo momento. Nessuno pensava che imparare a memoria quelle domande e quelle risposte fosse la soluzione di tutti i problemi; semplicemente, si trattava di preparare e predisporre il fanciullo a una comprensione successiva, che sarebbe venuta con l’età; infatti, senza basi e senza fondamenta, quella comprensione, anzi, quella sensibilità e quella capacità di stupirsi e farsi delle domande di senso, non sarebbero mai arrivate. Si pongono ancora domande di senso, i bambini di oggi, tra giochi elettronici e neochiesa progressista, fondata sulla "svolta antropologica"? Di più: sanno ancora stupirsi, sanno ancora pensare? Se le domande e risposte di quel catechismo erano una mera ripetizione formulare, con che cosa la si è sostituita? Con il nulla, o magari con la pseudo religione, sostanzialmente immanentista, relativista e sincretista, di papa Francesco? Il quale non parla mai del paradiso, forse perché ha deciso, in cuor suo, che l’inferno non esiste; non parla mai del fine inerente a tutte le cose, e dunque all’uomo, forse perché ha deciso che Aristotele e san Tommaso sono superati; non parla mai del peccato e della redenzione, ma solo della infinita misericordia di Dio, scordandosi, però, della sua giustizia. E come potrebbe Dio essere misericordioso, senza essere, al tempo stesso, anche giusto? Giustizia è dare a ciascuno secondo quel che gli è dovuto. Se si parla solo della misericordia di Dio – come fa, ossessivamente, papa Francesco – si lascia credere che tutti riceveranno il premio, tutti avranno il paradiso, cioè l’eterno godimento di Dio, anche se lo hanno rifiutato e disprezzato sino all’ultimo istante di vita. Ma se tutti avranno il paradiso, buoni e malvagi, perché il Verbo si è incarnato? Perché Gesù Cristo è venuto fra noi, a morire sulla croce?
Forse dovremmo ripartire dalle mamme di cinquant’anni fa, e insegnare ai nostri bambini: si viene al mondo per conoscere la Verità, che è Dio; per amarlo e servirlo quaggiù, indi goderlo in Cielo…
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