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16 Maggio 2017Le vicende relative alla scoperta di Plutone offrono un caso abbastanza tipico di quella tendenza manipolatrice, se non proprio falsificatrice, che è caratteristica non solo dell’astronomia, ma di tutta la scienza moderna: la tendenza, cioè, a spacciare per moneta buona una visione della scienza stessa come progresso illimitato, poggiante sui dogmi della razionalità galileiana, negando o rimuovendo l’importanza del fattore causale nell’avanzare della conoscenza.
In altre parole: si volle credere, e far credere, per alcuni decenni, che la scoperta di Plutone fosse avvenuta in seguito a una serie di calcoli matematici delle orbite di Urano e soprattutto di Nettuno, quindi, grazie ad una previsione matematica della sua localizzazione, anche se si era capito quasi fin da subito che Plutone era troppo piccolo per spiegare le anomalie orbitali degli ultimi due pianeti noti del Sistema Solare; seccava, però, dover ammettere che restava aperta solo l’altra spiegazione possibile, e cioè che Plutone era stato scoperto letteralmente per caso. Sul piatto della bilancia, agli occhi degli scientisti più irriducibili, stavano la razionalità galileiana, la precisione dei calcoli e la capacità predittiva della scienza moderna, da una parte; il caso, il banalissimo e capricciosissimo caso, dall’altra: come ammettere che quest’ultimo, nel progresso delle conoscenze scientifiche, eserciti un peso assai maggiore di quanto non siano disposti ad ammettere, peraltro a denti stretti, gli astronomi di tendenza scientista? Nei manuali e nelle opere divulgative pubblicate fra gli anni Trenta e gli anni Settanta del Novecento, prevaleva decisamente una impostazione epistemologica d’intonazione rigorosamente scientista, secondo la quale riconoscere il peso del fattore casuale nel progresso della conoscenza equivarrebbe a dover sopportare un’insopportabile umiliazione della scienza stessa. Perciò, a dispetto dell’evidenza e del buon senso, si continuò a far finta di nulla e a ripetere che Plutone era stato scoperto in seguito a dei calcoli precisi, e che la sua esistenza e la sua posizione erano stati perfettamente previsti e calcolati in anticipo. Questo è quanto si poteva leggere, ad esempio, nei testi a carattere divulgativo di Margherita Hack: sì, è vero, Plutone appariva un po’ piccino, e con una massa tropo debole, rispetto a come lo si era immaginato; però non si giungeva a trarne l’inevitabile conseguenza: nessun calcolo, nessuna predizione, ma semplicemente il beneamato caso aveva condotto alla sua scoperta.
Eccome come l’astrofisico Paolo Maffei (Arezzo, 2 gennaio 1926-Foligno, Perugia, 1° marzo 2009) ha rievocato, in un’opera ormai classica della divulgazione scientifica, anche se un po’ datata sotto il profilo strettamente tecnico, le vicende che portarono al riconoscimento della casualità della scoperta di Plutone (da: P. Maffei, Al di là della Luna, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1973, pp. 83-85):
Nettuno fu scoperto da U. Le Verrier, dallo studio delle perturbazioni di Urano, senza che lo avesse mai visto; si dice anzi che non l’abbia mai visto in tutta la vita. Urano, infatti, non percorreva la sua orbita secondo le previsioni degli astronomi e si comportava come se un corpo invisibile lo attraesse in modo tale da modificare il suo cammino nello spazio, Dall’entità degli scarti tra i dati osservati e quelli calcolati, Le Verrier ricavò il peso del corpo perturbatore, ne calcolò l’orbita e additò il punto esatto del cielo nel quale bisognava guardare per trovarlo. E la sera del 23 settembre 1846, l’astronomo J. G. Galle di Berlino, osservando nella zona indicata da Le Verrier, i trovò il nuovo pianeta. […]
Al di là di Nettuno, alla distanza media dal Sole di 5.910.000.000di km, circola ancora un pianeta: Plutone. Fu scoperto da Clyde Tombaugh il 18 febbraio del 1930, in una posizione assai prossima a quella prevista, col calcolo delle perturbazioni residue di Urano, dall’astronomo Percival Lowell, che era moto quindici anni prima. Le circostanze sembrerebbero analoghe a quelle della scoperta dio Nettuno, ma recentemente si è trovato che la scoperta avvenne solo per una fortunata combinazione.
Infatti l’orbita calcolata da Lowell valeva per un pianeta con una massa uguale a 6,7 volte quella della Terra. Il pianeta apparve subito troppo piccolo e troppo debole per questa massa. Infatti misure del diametro, eseguite nel 1950 da G. P. Kuiper e M. Humason con il più rande telescopio del mondo, diedero un valore di 5.800 km. Adottando questo valore, anche assumendo una massa pari a quella terrestre, ne risultava una densità pari a 10 volte superiore a quella del nostro pianeta, vale a dire 2,5 volte quella dell’oro! Non essendo ragionevole accettare una densità così diversa da quella di tutta la materia in condizioni normali formante la nostra Terra e gli altri pianeti, si concluse che doveva essere errato il valore attribuito alla massa o quello ricavato per il diametro. Quest’ultimo, però, venne poi confermato da un’osservazione inconsueta. Nella notte dal 28 al 29 aprile 1965, Plutone avrebbe dovuto occultare una stella della costellazione del Leone. Il fenomeno fu seguito in molti osservatori ma l’occultazione non ebbe luogo.
Essendosi trovato che il centro del pianeta era passato 0”,125 a sud della stella, si dedusse che il diametro del pianeta non può essere superiore a 6.400 km, in buon accordo con le misure eseguite da Kuiper e Humason.
A questo punto tre astronomi dell’Osservatorio Navale degli Usa ripresero in esame tutte le osservazioni di Nettuno [sic; più che probabile refuso per Plutone] dall’epoca della scoperta, aggiungendovi 158 nuove osservazioni effettuate nel loro istituto dal 1960 al 1968. Dopo aver ridiscusso anche il valore delle masse di saturno, Urano e Nettuno, giunsero finalmente alla conclusione che Plutone ha una massa appena 0,11 volte quella terrestre. Assumendo un diametro di 6.400 km, si ha una massa uguale a 0,88 volte quella terrestre, ossia 4,86 volte quella dell’acqua, perfettamente ragionevole. In altre parole, come massa, diametro e densità, Plutone appare molto simile a Marte. E se il valore della massa è poco più di un decimo di quello della Terra, l’orbita di Lowell non può ritenersi valida.
Come mai allora C. Tombaugh nel febbraio 1930 lo trovò in una posizione poco distante a quella che doveva occupare in base a quest’orbita? Lo ripetiamo: fu un caso. Un caso fortunato come quello dell’invenzione del cannocchiale o della scoperta della penicillina.
Insomma: che Plutone sia stato "trovato" in una zona del cielo non lontana da quella calcolata da Percival Lowell e da William Henry Pickering (si badi: "non lontana", invece che esattamente, o quasi, nel punto previsto) fu una mera combinazione: di fatto, i calcoli di Lowell e di Pickering non c’entravano nulla, perché partivano da un errore nella stima delle dimensioni e della massa del pianeta sconosciuto, la cui presenza perturbava le orbite dei suoi vicini — vicini, si fa per dire; anche se è vero che l’orbita di Nettuno interseca, addirittura, quella di Plutone, il che significa che, a volte, è Nettuno, e non Plutone, ad essere più lontano da Sole). Se la stima preventiva delle dimensioni e della massa di Plutone fosse stata esatta, il pianeta avrebbe dovuto trovarsi in tutt’altra zona celeste da quella che, effettivamente, i due astronomi americani avevano indicato: sicché il "ritrovamento" da parte di Tombaugh fu dovuto a un puro e semplice colpo di fortuna. Ed ecco l’aspetto sgradevole, per i signori scientisti, di tutta la faccenda: dover ammettere che Plutone, benché fosse stato "previsto" con i calcoli più sofisticati, era stato trovato non già per merito di quei calcoli, ma solo e unicamente per un colpo di fortuna, ossia per una ragione che è quanto di più distante si possa immaginare dall’idea che gli scienziati di tendenza galileiana, sempre così tronfi e sicuri di sé, hanno della propria disciplina. Ma forse, ancora una volta, più che gli scienziati, furono i giornalisti e i divulgatori scientifici a non sopportare l’idea di un simile "scacco della ragione", questi monarchici più realisti del re. Si osservi lo stile di una Hack, di un Odifreddi, di un Angela (anzi, di due): con quanta sicumera parlano dei segreti della natura, delle enormi distanze temporali che ci separano dalle epoche della preistoria, o di quelle spaziali, che ci separano dalle altre galassie: pare che nulla li turbi, nulla li meravigli, nulla possa o potrà mai sfuggire alla loro sicumera scientista. E poi, ecco che salta fuori — e non certo per la prima e unica volta! — la fortuna, ovvero il caso: e tutto il loro bel castello scricchiola, e rischia di cadere in briciole.
Oggi, peraltro, noi sappiamo che Plutone non è nemmeno un "pianeta", nel senso tradizionale della parola, e che non è neppure il nono ed ultimo corpo del Sistema Solare. Il 24 agosto del 2006, infatti, i membri dell’Unione Astronomica Internazionale decisero di istituire una nuova categoria di corpi celesti, i "pianeti nani", la cui caratteristica saliente, che li differenzia dai pianeti veri e propri, è di non possedere una massa sufficiente a "ripulire" la propria fascia orbitale da altri oggetti di dimensioni paragonabili, benché sia stata sufficiente a conferir loro una forma quasi sferica. L’11 giugno del 2008, poi, l’Unione Astronomia Internazionale decise di attribuire il nome di "plutoidi" ai pianeti nani trans-nettuniani, cioè orbitanti al di là di Nettuno. Plutone è uno di questi ultimi; gli altri sono Haumea, scoperto nel 2005, Makemake, nel 2016, ed Eris, anch’esso nel 2005 (quest’ultimo è più piccolo di Plutone, ma ha una massa superiore del 27%). I "plutoidi" attualmente conosciuti, pertanto, sono quattro; un quinto pianeta nano, appartenente però all’interno del Sistema Solare, e precisamente alla Fascia principale degli asteroidi, situata fra l’orbita di Marte e quella di Giove, è Cerere, che fu scoperto fin dall’alba del XIX secolo (il 1° gennaio 1801, ad opera dell’astronomo italiano Giuseppe Piazzi). Ora come ora, quindi, si conoscono in totale cinque pianeti nani: uno interno e quattro esterni, o "plutoidi". Di questi, il più interessante è senza dubbio Eris, che, inizialmente, era stato identificato come il "decimo pianeta" del Sistema Solare e che con tale definizione era stato presentato alla stampa, prima che venisse riconosciuta la sua vera natura. Non solo questo corpo celeste, interamente ghiacciato, ha un’orbita estremamente eccentrica, che lo porta, a un certo punto, ad una distanza dal Sole che è addirittura doppia di quella di Plutone (in pratica, oscilla fra 5,6 miliardi e ben 14,6 miliardi di km. dal Sole), ma, al momento della sua scoperta, gli astronomi dell’Osservatorio di Mote Palomar lo misurarono e trovarono che esso era, senza possibilità di errore, più grande di Plutone; mentre osservazioni successive mostrarono che era, invece, più piccolo di qualche decina di km. (con un diametro di 2.326 km., contro i 2.370 km. circa dell’altro. Insomma, un bel mistero nel mistero.
Il mistero principale, infatti, è legato al "ruolo" che i famosi astronomi, o divulgatori scientisti, avevano cercato, per così dire, di cucirgli addosso ancor prima che venisse scoperto, quando ci si era resi conto, fin dagli anni ’70 del Novecento, che Plutone non poteva essere il responsabile delle perturbazioni nell’orbita di Nettuno, e che, pertanto, bisognava cercare ancora più all’esterno del Sistema solare, un altro pianeta che fosse veramente "l’ultimo". Per qualche anno, dunque, si andò a caccia del "decimo pianeta", e così si volle battezzare Eris, allorché, finalmente, lo si ebbe trovato. Ahimè, tropo tardi per fargli rappresentare la parte che gli era predestinata: fin dal 1989, infatti, i risultati della Sonda spaziale Voyager 2 rivelarono che i dati relativi alle masse di Urano e Nettuno erano lievissimamente sbagliati. Eppure, in matematica, anche un piccolissimo errore può produrre, se moltiplicato su grandi distanze, un risultato significativo: difatti, si era cercato invano un corpo di massa abbastanza elevata da spiegare le anomalie nelle orbite di Urano, e soprattutto Nettuno, semplicemente perché tali anomalie… non esistevano. Il calcolo della vera massa di Urano e Nettuno mostrava che i due pianeti possedevano delle orbite perfettamente regolari: dunque, niente perturbazioni e niente pianeti esterni. Anche per questo, alla fine, e pur tra mille polemiche, l’Unione Astronomica Internazionale decise, nel 2006, d’introdurre la nuova categoria dei "pianeti nani": dopo i quattro pianeti solidi (Mercurio, Venere, Terra e Marte) e i quattro giganti gassosi (Giove, Saturno, Urano e Nettuno) non ci si deve più aspettare di trovare altri pianeti, ma solo dei "plutoidi". Le polemiche furono dovute alla mancanza di rigore scientifico delle due caratteristiche indicate per la definizione di "pianeta nano", la sfericità e l’assenza di una fascia orbitale "pulita": infatti, molti fecero osservare che nessun corpo celeste (Terra compresa) possiede una forma sferica perfetta, né può "ripulire" perfettamente la propria fascia orbitale. Anche considerando le cose da quest’angolatura, bisogna riconoscere che la scienza non è poi così… scientifica come gli scientisti vorrebbero: i suoi criteri non sono così rigorosi, impeccabili e inattaccabili come piacerebbe a loro…
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