
Demistificare il linguaggio del Pensiero Unico
13 Maggio 2017
Chi o che cosa è maestro di vita?
13 Maggio 2017Leopardi si considerava il solo, o quasi, che avesse capito come stanno le cose, sia sul piano filosofico, sia sul piano storico; si riteneva un isolato, un emarginato dalla cultura dominante, e ne andava fiero; disprezzava di tutto cuore il suo secolo e tutte le concezioni ottimistiche del reale, a cominciare dalla religione.
Ne La ginestra, dice chiaramente che se ne frega dell’oblio cui sa d’essere destinato: non è questo che lo preoccupa, perché anche il secolo sciocco e superbo subirà lo stesso destino: venire dimenticato. Naturalmente, la critica contemporanea ha prodigato sforzi immensi per fare di questo cattivo maestro, che insulta e calunnia la vita in maniera cieca e sistematica, un grande saggio che aveva visto e capito tutto; e, siccome la cultura moderna è progressista, bisognava fare di Leopardi non un nemico del progresso, ma un fautore del "vero" progresso, quello basato sulla presa di coscienza dell’arido vero, cioè su una conoscenza obiettiva e virile del mal che ci fu dato in sorte, vale a dire sul disincanto radicale del mondo. E qui il serpente si morde la coda: perché, se la verità è che la vita è male, che l’esistere è male, che l’essere è il male, allora non ha senso parlare di progresso, e sia pure "alternativo" a quello indicato dall’ingenuo ottimismo ottocentesco; anzi, a dirla tuta, non ha senso parlare di niente, e nemmeno continuare a vivere. Che è la strada che avrebbero preso, dopo Leopardi, i vari Schopenhauer, Eduard von Hartmann, Svevo, Pirandello, Montale, Pavese, Sartre, Cioran, Onfray e così via.
Leopardi, però, in un certo senso, è stato davvero un progressista: la sua impostazione speculativa è illuminista, cioè razionalista, materialista e sensista: l’illuminismo credeva nel progresso, anzi, ne ha fatto il suo mito fondante; e anche Leopardi ci crede, già per il solo fatto di voler insegnare agli uomini la verità, e, così, far progredire, se non altro, le relazioni umane, sulla base di una solidarietà tutta laica e tutta in negativo: gli uomini devono aiutarsi contro il comune nemico, la Natura matrigna. Ha perfino la sfrontatezza di premettere a La ginestra quel versetto del Vangelo di Giovanni in cui si dice che gli uomini preferirono le tenebre alla luce, naturalmente capovolgendone totalmente il significato, visto che la sua bestia nera, il suo nemico numero uno, è proprio la religione: da buon illuminista. Peraltro, nel cristianesimo, gli uomini sono fratelli perché figli di Dio e amati tutti, in eguale misura, da Dio Padre; nel pensiero di Leopardi, gli uomini devono diventare fratelli perché nemici e odiatori della Natura, il vero nemico ch’essi hanno in comune e che, nella sua visione immanentista, fa le veci del vecchio Dio trascendente.
C’è quasi un presentimento della rivolta contro il Padre della cultura psicanalitica freudiana, con tutta la sua brava coda, politcally correct, nel movimento studentesco del ’68: abbasso il padre, il padre è il nemico; con la sola differenza che, per Leopardi, bisogna gridare: abbasso la madre, la madre è la nemica. Psicanalisti, sbizzarritevi: tutti sanno quali fossero i rapporti fra Leopardi e sua mamma (cfr. il nostro articolo: Adelaide Antici fu davvero quella cattiva madre che la tradizione leopardiana ha descritto?, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 26/09/2012 e ripubblicato su Il Corriere delle Regioni l’1/05/2016): per cui, nella sua prospettiva, il Nemico per antonomasia non può che essere una matriarca, non un patriarca. A parte questo, Freud, Reich e Marcuse sono i legittimi continuatori della ribellione leopardiana: che ci si ribelli contro il Padre oppure contro la Madre, il punto è che si vorrebbe distruggere il proprio genitore, colui che ci ha dato la vita. E questo è il tratto distintivo della cultura moderna, caratterizzata dall’odio di sé e dal ribrezzo della propria identità, delle proprie radici, della propria storia. L’Europa corre verso il suicidio perché si odia; e si odia perché, a un certo punto, gli europei, guidati dai loro valorosi intellettuali, hanno deciso che il padre e la madre sono i loro più perfidi nemici: non per altra colpa specifica, che quella d’averli messi al mondo. Perché mettere al mondo qualcuno, in questa cosa schifosa che è la vita, è un atto che deve nascere proprio da una mente satanica, da un cuor di pietra.
Gli illuministi vogliono cambiare il mondo, liberando la ragione dalle scorie della "superstizione"; anche Leopardi vuol cambiare il mondo, benché lo disprezzi, liberandolo dalle cialtronerie e dalle menzogne dello spiritualismo. Per farlo, parte da una falsificazione del reale: invece di constatare che, nella’esistenza c’è anche la sofferenza, dice che l’esistenza fa schifo, perché non porta altro che male: conclusione enormemente maggiore della premessa. Né si è mai domandato, mai, neppure una volta sola, se la sofferenza sia davvero il male per definizione, o se non possa divenire, per caso, origine del bene; se non possa essere santificata, trasformata, oltrepassata. Leopardi non contesta la religione e non discute con il cristianesimo: si imita ad ignorarlo. Per lui, chi crede in Dio sta troppo in basso sul gradino dell’umanità pensante, per meritare una confutazione: sarebbe tempo sprecato. Gli illuministi del XVIII secolo polemizzavano con il cristianesimo; Voltaire esortava: écrasez l’infâme!; Leopardi non si abbassa neppure a guardare in faccia quegli illusi, quei residui del passato; i suoi strali sono solo per i "nuovi credenti", cioè per i transfughi dall’ateismo e dall’illuminismo, tornati al cattolicesimo — nella versione neoguelfa di Vincenzo Gioberti – per mero opportunismo (o, almeno, così credeva lui).
Sta di fatto che, oggi, Leopardi sarebbe contento: i suoi insegnamento sono diventati patrimonio comune di gran parte della società moderna. Nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia (scritto fra il 1829 e il 1830 e pubblicato nel 1831; versi 39-56), si chiedeva perché gli uomini siano così pazzi da continuare a riprodursi, visto che la vita è palesemente un male in se stessa; oggi, con la crescita demografica zero, dovuta sia al crollo della nascite, sia alla pratica dell’aborto legalizzato, sia al dilagare del modello omosessuale, nozze comprese, l’Europa, e l’Italia specialmente, stanno attuando il suicidio biologico così ardentemente auspicato dal poeta di Recanati.
Nasce l’uomo a fatica,
ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
per prima cosa; e in sul principio stesso
la madre e il genitore
il prende a consolar dell’esser nato.
Poi che crescendo viene,
l’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre
con atti e con parole
studiasi fargli core,
e consolarlo dell’umano stato:
altro ufficio più grato
non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perché dare al sole,
perché reggere in vita
chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura,
perché da noi si dura?
Si potrebbe osservare che il bambino appena nato non piange per la disperazione d’essere venuto al mondo, ma semplicemente perché ha fame, o qualche dolorino di pancia; e che i suoi genitori, pertanto, non devono consolarlo dell’esser nato, né dovrebbero sentirsi in colpa d’averlo concepito e fatto nascere, ma, semplicemente, dargli da mangiare e curarlo, in modo da aiutarlo a crescere sano e metterlo in grado di fare qualcosa della vita che gli è stata data in dono. Sorge spontanea la domanda: Leopardi ha mai visto il sorriso di un bambino? Il sorriso di un bambino piccolo, non il sorriso dell’adolescente, che pregusta — illusoriamente, secondo lui – le gioie che lo attendono fra qualche mese o qualche anno? Il bambino piccolo, a differenza dell’adolescente, non sorride per una ragione precisa: sorride e basta. Sorride perché è felice di essere in braccio alla sua mamma, di aver bevuto il latte, di poter riposare quando è stanco. Sorride, spesso, anche mentre dorme: che cosa sta sognando? Qualche cosa di bello, evidentemente: altrimenti non sorriderebbe. Si direbbe che Leopardi non abbia mai visto quel sorriso, come lo ha visto, ad esempio, Virgilio, che pure non conobbe neppure lui le gioie della paternità (quel risu congoscere matrem delle Bucoliche, IV, 90, un verso che vale da solo un poema): del bambino piccolo, egli vede solo il volto paonazzo e gli strilli acuti, che egli interpreta come sofferenza esistenziale, come disgusto e rifiuto della vita. Insomma Leopardi vede solo quel che vuole vedere, quello che ha deciso di vedere, e nient’altro. Ciò che non rientra nel suo pessimismo cosmico, semplicemente lo ignora. Questa è cattiva filosofia; così come è cattiva filosofia identificare il piacere con la felicità, e strillare che la condizione umana è sommamente infelice, perché in essa non si trova quel piacere infinito che gli uomini bramano incessantemente. Premesse dubbie, conclusione arbitraria: chi lo dice che l’impossibilità di trovare un piacere infinito equivale all’infelicità? E, prima ancora: come è possibile che l’uomo, se è davvero un ente puramente biologico e materiale, come lo ritiene Leopardi, possa albergare in sé un desiderio infinito di piacere? L’esistenza di questo desiderio infinito non è forse, di per sé, la spia che l’uomo non è solo e unicamente un ente biologico e materiale, ma qualcosa di più?
Pure, questa cattiva filosofia – la vita è male – e questa cattiva pedagogia – bisogna cessare di alimentare la vita, e, nel frattempo, bisogna distruggere ogni fede nella bontà di essa – è divenuta parte integrante del nostro bagaglio intellettuale ed esistenziale di cittadini del terzo millennio. A riprova, ancora una volta, che noi siamo figli diretti dell’illuminismo: anche nei suoi aspetti più discutibili, più incerti, più kitsch. Quel pastore nomade dell’Asia centrale, per esempio, che filosofeggia a tutto spiano, come un disco rotto, lagnoso, piagnucolante, guardando la volta stellata: tutto questo ha un sapore di cosa già vista, e niente affatto persuasiva. Ricorda quegli ambasciatori persiani un po’ tropo civilizzati, un po’ troppo sentenziosi, che si aggirano per le vie di Parigi, nelle Lettres persanes di Montesquieu; per non parlare dei cento e cento volti, delle cento e cento maschere del "buon selvaggio" di Rousseau, fino ai nostri giorni. Ma non importa. Per quanto fossero goffe e ormai datate, nel 1830, queste trovate poetiche e narrative, per Leopardi, che ne aveva fatta un’indigestione, mescolandole con dosi colossali di filologia classica (aveva letto in Erodoto che, in una certa regione della Tracia, i genitori piangevano a calde lacrime e portavano il lutto per la nascita d’un figlio), tutto fa brodo per portare acqua al mulino del pessimismo cosmico. Come scrive nello Zibaldone:
Tutto è male. Cioè, tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista, è un male; l’esistenza è un male e ordinata al male; il fine dell’universo è il male; l’ordine e lo stato, le leggi, l’andamento naturale dell’universo non sono altro che male, né diretti ad altro che al male. Non v’è altro bene che il non essere; non v’ha altro di buono di quel che non è, le cose che non son cose: tutte le cose sono cattive.
Ebbene: questa dottrina disperata e nichilista è diventata la dottrina ufficiale, implicita o esplicita, della cultura oggi dominante, fra materialismo, edonismo, nichilismo. È la vittoria del "no", della negazione radicale, del rifiuto di tutto — perché rifiutare la vita implica il rifiuto d’ogni altra cosa — e la sconfitta, anzi, la disfatta del "sì", della fiducia nella saggezza della vita, nella bontà del vivere. Una volta adottata una tale filosofia, non si può che sentirsi in colpa per il fatto di vivere ancora, di esistere; non si può non pensare, almeno qualche volta, che si sarebbe più dignitosi e più coerenti se, almeno, si restituisse, col suicidio, l’odioso biglietto d’ingresso a questa cosa assurda e incomprensibile, atroce e beffarda, che chiamiamo vita. Chi ancora non s’è ammazzato, deve un po’ vergognarsi. Oh, ma si può sempre rimediare, se non si ha il coraggio di farlo tutto in una volta: ci si può sempre suicidare lentamente. Sul piano fisico, con l’alcol, la droga, le infezioni sessuali dovute alla promiscuità, specie nelle relazioni fra omosessuali maschi (ma questa è un’altra cosa che non si può dire, anche se verissima; si preferisce imbastire romanzi e processi infinti sul dovere di far vaccinare tutti i bambini del mondo, per prevenire le malattie). Leopardi, hai vinto. E adesso?
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