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Questo è uno strano, stranissimo Paese

Cronache di ordinaria follia nel Bel Paese del politicamente corretto; l’ultimo Paese al mondo in cui (a parte la Corea del Nord), sotto il velo del cattolicesimo progressista, resiste lo zoccolo duro del socialismo reale, la sua mentalità stalinista, la sua diffidenza, il suo rancore sociale eretto a sistema nei confronti delle persone che producono reddito.

Una banda di giostrai nomadi assaltava i bancomat con l’esplosivo; durante la fuga dopo l’ennesimo colpo, uno di essi viene gravemente ferito da una guardia giurata: risultato, la sua famiglia chiede giustizia. Si è rivolta a un avvocato e adesso sotto inchiesta è la guardia, la quale rischia grosso. La famiglia del delinquente vuole giustizia dalla società: da quella società che ha subito innumerevoli colpi da parte di quel delinquente e di tanti altri come lui. In altre parole: la legge è fatta per essere violata; ma, se qualcosa va storto, la legge serve a tutelare chi l’ha infranta. La legge non è fatta per tutelare le vittime della delinquenza, né, tanto meno, per le persone che si oppongono alla delinquenza; no: è fatta per farla pagar cara alle vittime che hanno osato difendersi, perché esse versino risarcimenti milionari a quegli stessi delinquenti che le hanno aggredite, rapinate, minacciate, stuprate.

Negli altri Paesi non funziona così. Nei Paesi seri, cioè quasi tutti, almeno in Occidente, la famiglia del delinquente sa chi deve ringraziare se il suo congiunto giace in un letto d’ospedale, in fin di vita: lui e soltanto lui. Non si sogna nemmeno di fare causa a colui che ha difeso la legge; e, comunque, non troverebbe mai un giudice disposto a darle ascolto. In Italia, ultimo Paese del mondo a socialismo reale, i giudici sono di estrema sinistra al 90% e stanno, per principio, dalla parte del più "debole": che, secondo loro, è il delinquente. Si sa: è vittima del disagio sociale, della società ingiusta, dell’egoismo dei ricchi: Rousseau insegna, Marx spiega "scientificamente", e Cohn-Bendit conferma. Del resto, non solo i magistrati ad avere ereditato dal ’68 questa mentalità esasperatamente classista: prima e più di loro, ci sono i preti di sinistra, e, adesso, con papa Francesco, c’è tutto l’establishment della Chiesa cattolica, quella che conta, quella dell’otto per mille. Il povero ha sempre ragione, qualsiasi cosa faccia; e il "ricco" ha sempre torto, anche se non è poi tanto ricco, è semplicemente un cittadino che ha lavorato sodo e che vorrebbe godersi un po’ di serenità con la sua famiglia. È per compiacere papa Francesco e per obbedire alle sue esortazioni che persone come la miliardaria Cristiana Catambrone, che piace tanto alla signora Boldrini, mette su una sedicente agenzia umanitaria per andare a far servizio taxi per i poveri migranti fino a ridosso dei porti della Libia. Eh sì, poverini: bisogna salvarli. Come? Portandoli in Italia. Poi ci penserà l’Italia. Ci penserà il popolo italiano ad accoglierli, sfamarli, curarli, assisterli, ospitarli, mentre molti di essi, senza neanche aspettare la conclusione dell’iter per il riconoscimento dello status di profughi, ammazzano la noia e arrotondano le entrate con lo spaccio di eroina, la prostituzione, i furti e le rapine nelle case dei pensionati. Senza dimenticare gli omicidi: 35 ad opera dei soli minorenni. Quei minorenni che il Parlamento italiano ha deciso che devono essere accolti, senza se e senza ma, se si presentano sui barconi "non accompagnati" dai loro genitori. Certo, bisogna salvare i bambini. E poco importa se ci mandano apposta i quindicenni e sedicenni che sono già dei criminali incalliti: noi siamo buoni siamo cattolici alla Bergoglio, non giudichiamo nessuno, spalanchiamo le braccia e accogliamo tutti: è nostro dovere. Ma perché è nostro dovere? perché noi siamo "ricchi". L’Italia è ricca, è un Paese ricco; dunque, ha dei doveri verso i popoli poveri. Dovere numero uno: accogliere i "profughi" in quantità illimitata; favorire in ogni modo il loro arrivo, e anche la loro partenza dai loro Paesi — senza domandare se fuggono davvero dalla guerra o dalle calamità; andarli a prendere con le navi fin davanti alle coste dell’Africa; spargere la voce che qui c’è posto, che questo è il Paese dell’abbondanza e dell’accoglienza, che qui comanda il papa e il papa vuole che ne arrivino sempre di più. Meglio se islamici.

Come si è creata questa situazione? E non parliamo solo dei delinquenti o dei cosiddetti migranti; parliamo di tutte le minoranze politicizzate e sindacalizzate che rivendicano sempre nuovi diritti, che devono cercare una rivalsa sempre più paranoica sulla società, rea di essere formata da persone sane e laboriose, oneste e rispettose della legge. Basta leggere la cronaca locale di un giorno qualsiasi: quella che non va mai, o quasi mai, sulle pagine dei quotidiani nazionali e dei telegiornali nazionali. Il farmacista che viene pugnalato da uno squilibrato; i bambini di una classe elementare che devono subire le prepotenze di un bullo che i servizi sociali trattano da disadattato bisognoso di "recupero"; il pubblico impiegato disonesto che è stato licenziato perché rubava, e che il tribunale del lavoro fa riassumere da quello stesso ufficio presso il quale commetteva i suoi furti; l’inquilino che non paga l’affitto da mesi e anni, e che il locatorio non riesce a sfrattare, perché la giustizia deve tutelare i deboli, si sa, e non importa se quell’inquilino sta meglio, economicamente, del proprietario dell’appartamento; oppure l’inquilino di una casa popolare che guadagna più che bene, ma continua a conservare l’appartamento nelle case popolari e a pagare un affitto di poche decine di euro, quando i prezzi correnti vanno dai cinquecento in su; il maestro che picchia i bambini ma che non può essere licenziato, al massimo trasferito in un altro plesso scolastico, a pochi chilometro dal precedente (perché, poverino, non può fare troppa strada per recarsi al lavoro, la legge deve tener conto delle sue giuste necessità!), e pazienza se quei bambini vivranno nel terrore dei suoi schiaffi e delle sue parolacce; e così via.

L’elenco sarebbe infinito: ripetiamo, basta leggere i giornali locali, Non quelli nazionali, che non si curano di simili quisquilie; come non si curano dei furti in casa, i quali, in provincia, fanno vivere nell’ansia milioni e milioni di cittadini. Ma nei salotti buoni della politica non si parla di queste banalità; no, ci mancherebbe altro: si parla dei matrimoni omosessuali, del diritto all’eutanasia, del diritto all’utero in affitto o delle adozioni di bambini per le coppie gay. Quelli, sì, sono problemi che richiedono la massima attenzione da parte dei nostri politici. Mica la ripresa economica o una giustizia che funzioni. La riprova: le vessazioni quotidiane, raffinate, ingegnosissime, con le quali la burocrazia statale soffoca ogni accenno d’iniziativa privata, con cui stronca ogni sforzo dei piccoli commercianti, dei piccoli artigiani, dei piccoli imprenditori; con cui mortifica e punisce ogni conato di ripresa, ogni barlume d’intraprendenza e di coraggio da parte loro. Sì: perché ci vuole veramente un gran coraggio a fare i piccoli commercianti, i piccoli artigiani o i piccoli imprenditori, in un Paese come l’Italia. Lasciando da pare la mafia e la camorra, che tengono in ostaggio un terzo del Paese, e si stanno attrezzando per avere in pugno anche il resto, ossia la parte più ricca e produttiva, l’Italia è il Paese dove le leggi sono fatte apposta per bloccare chi ha voglia di fare, per stroncarlo sotto una montagna di divieti e di regolamenti, per esasperarlo con multe e balzelli d’ogni genere. E questo non è populismo, questa non è demagogia, non è nemmeno qualunquismo. Basta andare in una gelateria, in una trattoria, in un bar, beninteso che siano ancora di proprietà di cittadini italiani, e non di albanesi, o kosovari, o cinesi; o che non siano stati acquisiti da una catena di locali di qualche multinazionale: e parlare con il gestore. Tutti, tutti diranno la stessa cosa: che non è più possibile andare avanti; che la burocrazia e le normative stanno strangolando ogni residua capacità di resistenza; che le tasse stanno ammazzando quel poco che resta dell’impresa e del commercio. E questo perché l’Italia, ultimo Paese al mondo a regime di socialismo reale, cova una secolare diffidenza verso chi fa, verso chi ha idee, verso chi ha merito; l’Italia è un paese che odia i meritevoli.

Infatti. I meritevoli italiani, specie se giovani, hanno cominciato ad emigrare. Fuggono all’estero, perché qui hanno visto, e hanno capito, che non c’è posto per loro, che non ci sarà mai. Nonostante il ricambio generazionale, le vecchie idee rimangono, i vecchi pregiudizi social marxisti imperano. Questo è un Paese fatto sula misura dei D’Alema e dei Bergoglio: non è fatto sulla misura dei giovani intelligenti e laboriosi, che hanno voglia di fare. È un Paese ingrato, che castiga i suoi cittadini migliori e che premia i peggiori; che importa, addirittura, delinquenza. Metà delle delinquenza romena (i romeni si arrabbiano a sentire questo discorso, e hanno ragione: in effetti si tratta di persone che hanno la cittadinanza romena, ma sono zingari, come quei tali giostrai nostrani dei quali parlavamo all’inizio) si è trasferita in massa in Italia. Questo è il paradiso dei furfanti: colpi facili, bottino assicurato, quasi nessun rischio; e se qualcosa, per caso, dovesse andare storto, detenzioni brevi, in attesa che qualche giudice di sinistra si accorga che i detenuti sono in via di perfetto reinserimento, e li rimetta in libertà. Come è stato per Igor, il criminale serbo che uccide per il gusto di uccidere e che era stato per poco in carcere, e adesso si nasconde chissà dove, forse è tornato al suo Paese, mentre qui lo cercano invano. Anche lui era stato giudicato perfettamente in gradi di reinserirsi nella società, e perciò meritevole di una ulteriore chance. Non importa se questa generosità all’ingrosso verrà poi pagata, con lacrime e sangue, dalle vittime dei delinquenti che, appena fuori, ricominciano a rubare e assassinare. L’Italia è un grande Paese, generoso coi deboli, comprensivo con chi sbaglia, caritatevole con tutti i bisognosi. Solo con i buoni e con gli onesti l’Italia è un po’ meno comprensiva, in particolar modo se sono italiani di razza bianca. Ma se sono immigrati, la comprensione è massima, Come ha fatto quel dirigente scolastico che ha premiato un ragazzino marocchino per aver rubato la bicicletta di un compagno, regalandogli, a spese della scuola, una bicicletta nuova di zecca. Poverino: se l’aveva rubata, vuol dire che la desiderava tanto. E allora, non è forse giusto regalare le cose a chi le desidera, se si tratta di qualcuno che ha pochi mezzi, quando noi italiani siamo così benestanti?

Allora, la domanda che ci eravamo fatta era questa: come è nata la presente situazione? Forse è sempre esistita, da quando esiste lo Stato italiano; ma, indubbiamente, negli ultimi anni si è assistito a un’accelerazione, a una corsa verso il peggio, a un inasprirsi delle dinamiche autodistruttive della nostra società. Ebbene: la causa numero uno, secondo noi, risiede nel senso di colpa, che è un portato deteriore di un certo cattolicesimo deteriore. Non del cattolicesimo sano, quello vero, quello fondato da Gesù Cristo e tramandato, per due millenni, dalla sua Chiesa; no, quello del post-concilio, quello dei nuovi teologi e dei "preti di strada", e specialmente quello di papa Francesco, grande estimatore di don Lorenzo Milani: il prete che ha fatto del rancore sociale la molla della sua "riforma" pedagogica. Basta leggere la Lettera a una professoressa per toccare con mano quel rancore, quella rabbia. La stessa rabbia dei giostrai, parenti del delinquente ferito da una guardia giurata, che ora pretendono giustizia. Forse la professoressa presa di mira dai ragazzi di don Milani è oggi una pensionata settantenne, che vive da sola in un quartiere degradato, pieno di prostitute nigeriane e di spacciatori ivoriani e senegalesi, la quale, tornando dal supermercato con le borse della spesa, viene scippata da un falso profugo africano e mandata a sfracellarsi la testa contro lo spigolo del marciapiede. Fatti così ne succedono ogni giorno, ormai; da anni. Anche se la grande stampa li ignora; anche se i telegiornali hanno altre cose, più importanti, da raccontare ai telespettatori politicamente coretti. Tanto, se quello scippatore viene preso dalle forze dell’ordine, ci pensa il giudice buonista e di sinistra a trovargli tutte le attentanti possibili, e il direttore del carcere a giudicare che ormai è maturo per rientrare in seno alla società, dopo aver scontato neanche un terzo della sua già mitissima pena. E poi ci pensa il papa Francesco a vistare i carcerati e a dir loro, o a suggerire, che in prigione si trovano per caso, o per sfortuna, non perché hanno commesso dei reati e devono espiare i loro delitti. Il senso di colpa funziona in una sola direzione: quella delle persone perbene; per i delinquenti, c’è l’indulto plenario.

Di che cosa ci si sente in colpa? Di essere più fortunati del vicino; di avere più soldi; di avere più salute; di avere una casa più bella; di avere un lavoro più gratificante e meglio remunerato; e così via. Chi ha, deve sentirsi in colpa nei confronti di chi non ha. Poco porta se chi non ha, spesso (non sempre), non ha perché non ha voglia di lavorare: l’importante è che la sua povertà "grida vendetta al cospetto di Dio", e quindi chi ha qualcosa, deve sentirsi in colpa nei suoi confronti. Sentendosi in colpa, deve subire ogni richiesta, ogni ricatto, ogni estorsione: deve lasciarsi tosare come una pecora, e dire anche grazie; deve lasciarsi spremere come un limone, e offrirsi di dare di più, perché forse non ha dato abbastanza. Al senso di colpa non c’è limite: dal momento che nasce da un istinto irrazionale (anche se coltivato con cura della cultura catto-comunista), non esiste un limite oltre il quale possa considerarsi estinto. Per quanto uno faccia, sarà sempre colpevole di qualcosa: finché ci sarà un solo povero sulla terra, i "fortunati" dovranno sempre ritenersi colpevoli della sua povertà. E risarcirlo. Ecco, questo è il socialismo reale. E noi ci siamo dentro in pieno: come se il Muro di Berlino fosse ancora in piedi. Siamo ostaggi di un assurdo buonismo, di una demagogia sfrenata…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Christian Lue su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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