Lui, lei e il cane
3 Aprile 2017
Il cattolicesimo è perduto se rinuncia al mito in cambio della modernità
3 Aprile 2017
Lui, lei e il cane
3 Aprile 2017
Il cattolicesimo è perduto se rinuncia al mito in cambio della modernità
3 Aprile 2017
Mostra tutto

Perché muore una religione?

Perché e come muore una religione? Le religioni possono morire? Certamente sì: sono morte tutte le religioni antiche, tutte le religioni dell’America precolombiana, tutte quelle dei popoli primitivi. Non è detto che muoiano interamente, però; qualche cosa di essere trapassa nella nuova religione. È noto che elementi del paganesimo si sono intrufolati nel cristianesimo dei primi secoli; ma anche elementi cristiani sono sopravvissuti nel deismo giacobino e perfino nell’ateismo di stato sovietico: se non altro, nella pretesa di quei sistemi politici di essere onorati come altrettante divinità. Perfino la scomparsa dei popoli e delle civiltà non rappresenta necessariamente la fine di una religione, a meno che essa non sia mai andata oltre la dimensione di una religione strettamente nazionale. Se essa, viceversa, contiene degli elementi universalistici, allora può sopravvivere e tramandarsi vittoriosamente nel mutamento anche radicale dello scenario storico. Il cristianesimo è nato nell’alveo del giudaismo e ha cominciato a diffondersi, fuori della Palestina, nell’alveo della civiltà romana, fortemente ellenizzata; ma ha superato il collo di bottiglia del crollo della romanità e della dissoluzione della civiltà classica, per fornire i materiali da costruzione a una nuova civiltà, quella medievale, e all’organizzazione sociale e civile di nuovi popoli, quelli germanici immigrati nei territori dell’ex Impero romano d’Occidente.

Ma allora, come muore una religione? In primo luogo, l’abbiamo detto, quando si identifica totalmente ed esclusivamente con la sfera spirituale di un solo popolo, e vengono meno le condizioni speciali che ne avevano accompagnato la nascita e la diffusione, cioè mutano i bisogni materiali e spirituali di quel popolo o di quella civiltà. Il caso del giudaismo, però, che è sopravvissuto senza universalizzarsi e perfino dopo che il popolo ebreo si era disperso ai quattro angoli del mondo (popolo che, secondo la tesi del professor Shlomo Sand, della quale abbiamo altrove parlato, aveva cessato d’esistere come tale), sta a indicare che vi sono le eccezioni alla regola, e che non sempre, non necessariamente, una religione nazionale muore insieme al popolo e alle condizioni storiche che l’avevano originata. Il secondo fattore di morte di una religione è la violenza fisica, la persecuzione da parte dello stato, in nome di una nuova religione, che vuole sostituire l’antica. Tale è stato il caso della religione degli antichi celti, dei germani, dei lituani e degli slavi, e tale è stato anche il caso della religione degli aztechi e di quella degli incas. In terzo luogo, una religione può essere minata alle radici da un nuovo orientamento intellettuale e culturale della società in cui è sorta, tendente non a sostituirla con una nuova religione, ma con l’irreligione, cioè con una concezione totalmente secolarizzata e laicizzata della vita, e con una organizzazione sociale in cui non vi sia posto per essa. Quest’ultimo è un fenomeno assolutamente moderno ed esclusivamente occidentale, anche se, grazie alla globalizzazione, sta diventando un fenomeno mondiale. Si vede, però, che non fa presa, o almeno che non sembra fare presa in tempi brevi (vedremo cosa diranno i posteri) su religioni diverse alla propria: l’Occidente ha abbandonato la concezione e, sovente, anche la pratica del cristianesimo in favore di un edonismo ateo, però non riesce a trasmetterlo agli immigrati islamici.

Dunque, alla precisa domanda: che cosa provoca la morte di una religione?, dobbiamo onestamente rispondere che di non saperlo con precisione: pare trattarsi di una mescolanza di fattori diversi, nessuno dei quali, tuttavia, deve essere considerato, necessariamente, mortale. Riconoscere e distinguere una crisi di crescita di una religione da una crisi di anemia non è sempre facile; non vi sono criteri di giudizio completamente oggettivi. Meno che meno lo è il fattore quantitativo: una religione può anche riempire le piazze, ma non saper riempire le chiese (ed essere, quindi, a corto di vocazioni sacerdotali, e, nello stesso tempo, incapace di far presa saldamente sulle coscienze); oppure può riempire le chiese, ma ridursi ad esteriorità ed apparenza, a un fatto puramente sociale, senza più un vero legame con il divino. Crediamo sia ciò che sta accadendo al cristianesimo, e specialmente alla Chiesa cattolica al tempo presente, quello di papa Francesco: molto rumore di folle, molta attenzione mediatica, molto sfoggio di ottimismo e di vitalità, ma, in effetti, uno svuotamento pressoché totale della dimensione interiore e un radicale allontanamento dalla sorgente della vita divina, la vita soprannaturale. L’albero del cattolicesimo sembra vivo e fiorente, ma le radici sono marce, completamente corrose dai vermi: il crollo è solo questione di tempo, se il buon giardiniere non si accorge della malattia e non interviene con un’azione tempestiva ed estremamente energica. 

Ci sembra di un ceto interesse, ai fini del nostro ragionamento, andare a rileggersi una pagina di Jakob Burckhardt, il grande storico svizzero del XIX secolo, maestro di Nietzsche (Basilea, 25 maggio 1818-ivi, 8 agosto 1897), tratta dalle sue Riflessioni sulla storia universale (titolo originale: Weltgeschichtliche Betrachtungen, 1905, postuma; traduzione dal tedesco di Maria Teresa Mandalari, Milano, Rizzoli, 1966, pp. 78-80):

E ora, la FINE DELLE RELIGIONI: Non basta assolutamente a provocarla quel che si chiama intima dissoluzione: ossia l’allontanamento spirituale di singole categorie del popolo (sia in forma di setta nell’ambito stesso del popolo, oppure come società colta e riflessiva). Anzi, non basta nemmeno la presenza di una religione nuova, assai meglio rispondente all’esigenza metafisica del momento.

Le sette possono essere perseguite ed estirpate, oppure abbandonate alla loro propria mutevolezza e metamorfosi. Le classi colte, che sono state sottratte da influssi culturali alla religione in vigore, tornano certo di nuovo ad essa  (com’è stata la sorte di quasi tutti quanti i popoli romanici), ovvero trovano con essa un nuovo accomodamento per misure di prudenza (mentre per il popolo la religione da tempo rappresenta il NUCLEO essenziale della cultura). Una religione nuova può porsi accanto a quella antica, può spartirsi il mondo con essa, ma è impossibile che la scacci per parte sua, nemmeno qualora abbia per sé le masse, a meno che non intervenga il potere statale. Ogni religione colta nel rango più elevato è forse relativamente eterna (vale a dire, eterna quanto la vita dei popoli che la professano), qualora i suoi avversari non riescano a sollevare tal potere contro di essa. Dinanzi ala violenza soccombono tutte, se questa viene usata in modo conseguente, e tanto più se si tratta di un unico, inevitabile impero mondiale come quello romano. Senza la violenza o senza una violenza proporzionatamente usata, continuano a vivere e traggono sempre di nuovo il proprio potere dallo spirito delle masse, anzi alla fine riacquistano dalla loro parte il braccio secolare. Così le religioni d’Oriente.

Con l’aiuto del potere statale, il buddismo poté essere estirpato in India dalla religione bramina. Senza la legislazione imperiale da Costantino fino a Teodosio, la religione greco-romana vivrebbe ancora oggi. Senza un assoluto, almeno temporaneo divieto, operato dal braccio secolare (unito in caso di necessità ai mezzi estremi) la Riforma non si sarebbe affermata in nessun luogo. Essa ha perduto tutti quei territori ove non possedeva tale vantaggio del braccio secolare, ed era costretta a far continuare a sussistere una qualsiasi considerevole quota di cattolici. Così, perfino una religione apparentemente giovane e forte può soccombere parzialmente, territorio per territorio, forse per sempre, in tali contrade. Poiché è dubbio se, più tardi, un nuovo slancio coinciderà con "un momento favorevole ala stabilizzazione".

Non ci troviamo d’accordo col Burckhardt – che era un genio, sì, ma pur sempre un figlio della cultura illuminista e della filosofia kantiana; basti dire che ricalcò pedestremente il vecchio schema antinomico: Medioevo=oscurantismo e ignoranza, Rinascimento=libertà e ragione –  sul fatto che la violenza fisica sia l’elemento determinante nella fine di una religione; e, del resto, affermare che, senza il sostegno del braccio secolare, la religione greco-romana sarebbe ancor viva e vegeta ai nostri giorni, ci sembra estremamente azzardato. In realtà, quando il cristianesimo ha incominciato ad affermarsi (in concorrenza, del resto, con altre religioni orientali, come il mitraismo o il culto della Grande Madre), la religione greco-romana era già ridotta a un guscio vuoto: i secoli che vanno dal secondo avanti Cristo al secondo dopo Cristo sono stati, di fatto, un periodo di vuoto religioso, sempre più a stento mascherato dalle classi sacerdotali e sempre più lucidamente riconosciuto dalle élites dirigenti e dagli intellettuali. A ciò si aggiunga il non piccolo dettaglio che i cristiani avevano saputo dimostrare di non aver paura della morte per rendere testimonianza al Vangelo di Gesù Cristo davanti al braccio secolare; se la religione greco-romana fosse stata ancor salda e vitale, cosa avrebbe impedito ai suoi seguaci di mostrare un’analoga fermezza davanti all’editto di Teodosio?

Del resto, l’impostazione razionalistica e kantiana impedisce a Burckhardt, che pure ha altri meriti, e notevoli – l’essersi opposto alla montante marea idealista e storicista, per esempio – di andare, nello studio delle religioni, oltre il dato meramente antropologico-culturale. Per lui le religioni sono l’espressione di un bisogno reale e vitale dell’animo umano, il bisogno di assoluto; però, allo stesso tempo (o forse proprio per questo), egli le pone tutte su uno stesso piano, le "classifica" entro un medesimo schema tipologico. Non lo sfiora l’idea – né lo può sfiorare, date le premesse – che, se il bisogno di assoluto è autentico, allora deve esistere una religione vera, rivelata agli uomini dal vero Dio, e rispetto alla quale le altre religioni sono come dei tentativi di avvicinamento a quella Verità che, con dei mezzi puramente umani, resta e resterà sempre elusiva e irraggiungibile. In altre parole, non lo sfiora il pensiero che, se quel bisogno di assoluto esiste anteriormente al sorgere delle religioni storiche, ciò dipende dal fatto che l’Assoluto c’è, e che una religione, fra tutte, è qualche cosa di più che una veste provvisoria di quel sentimento e di quella aspirazione; così come sono infinite le rette che si dipartono da un punto, ma ce n’è una, ed una sola, che interseca un’altra retta nel punto dato x. Ma è logico. Se un tale pensiero lo avesse sfiorato, sarebbe stato più cauto, meno apodittico nel parlare del destino e della fine delle religioni.

Questo è il limite della concezione organicistica della religione: il fatto che essa, così come ha avuto un inizio, dovrà avete, per forza, anche una fine. Nel mondo della natura, le cose stanno proprio così. Ma la religione non si limita al mondo della natura: dilata i suoi orizzonti verso l’infinito, verso il soprannaturale. Il sentimento religioso dischiude una finestra sull’Assoluto. Lo storico delle religioni, pertanto, dovrebbe almeno lasciare aperto uno spiraglio di quella finestra; vale a dire che, per lui, anche solo come ipotesi di lavoro, fra le tante religioni storicamente date, dovrebbe essercene una che non è soltanto espressione di una realtà storica contingente, immanente e limitata: la quale non per forza dovrà finire, anzi, è certo che non avrà una fine, se per fine si intende sparire nel buio dei secoli, lasciando l’umanità allo stesso punto in cui era prima. Ecco, allora, che il destino della religione cristiana non deve essere quello di finire, come sono finite tutte le altre, parte per il proprio indebolimento interno, parte per una azione di forza operata a suo danno da un’altra religione, più giovane e aggressiva, magari sostenuta dallo stato. Il fatto è che noi non abbiamo alcun diritto di paragonare una religione a un organismo: se lo facciamo, ci precludiamo la possibilità di capire che essa, nata per essere un ponte, una scala per far salire gli uomini verso Dio, potrebbe anche espletare la sua finzione, dopotutto, non solo a livello soggettivo, come una dolce illusione dei singoli, ma anche oggettivamente e positivamente, agendo su tutta una civiltà e, da ultimo, sull’umanità intera.

La miseria della storia chiusa in se stessa, studiata e spiegata in base a fattori puramente ed esclusivamente umani, conduce per forza di cose allo scetticismo e al pessimismo. Finora, tutte le civiltà e tutte le religioni hanno vissuto la loro parabola: sono sorte, sono culminate e infine sono tramontate, per poi scivolare nel buio e nel silenzio dei secoli morti. Ma se la storia fosse qualche cosa di più dell’equivalente di un semplice organismo umano? Se vi avesse parte anche Dio, quel Dio al quale la religione si rivolge, quel Dio che essa cerca e al quale aspira a ritornare? In tal caso, noi dovremmo tener conto di un finale diverso da quello, già scritto in anticipo, delle civiltà e delle religioni che lo hanno preceduto. Forse il destino del cristianesimo non sarà affatto simile a quello di tutte le religioni del passato: anzi, per il credente questa non è una possibilità, ma una certezza. E lo è, in modo speciale, da quando un fatto soprannaturale ha fatto irruzione all’interno della storia: l’Incarnazione del Verbo, del Figlio di Dio. Da quel momento l’uomo non è più da solo alle prese col mistero e col dramma della storia. Si è aperto un spiraglio, e da esso filtra una luce nel buio della notte. Ma fatevi coraggio — ha detto Gesù ai discepoli nell’Ultima Cena: Io ho vinto il mondo!

Fonte dell'immagine in evidenza: Immagine di pubblico dominio (Raffaello)

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
Hai notato degli errori in questo articolo?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.