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Che fare?

Che fare? è il titolo di due importanti opere, letteraria l’una, politica l’altra, entrambe apparse nella Russia zarista, tra la seconda metà del XIX e i primi anni del XX secolo.

La prima è un romanzo dello scrittore russo Nikolaj Gavrilovic Černysevskij, nel 1863, e fu composta mentre l’autore si trovava detenuto dal regime zarista, per motivi politici, nella famigerata fortezza di Pietro e Paolo, a Pietroburgo. Esso circolò sotto forma di pubblicazione clandestina fino al 1905, ma, pur così, ebbe una influenza enorme nel contribuire alla formazione di un clima pre-rivoluzionario nella Russia di Alessandro II, mediante la diffusione delle idee socialiste e radicali che prospettavano, oltre a un radicale mutamento politico, una sorta di vera e propria svolta antropologica, cioè indicavano alla gioventù russa un nuovo modo di porsi, del tutto libero e sciolto dalla tradizione e dai valori della religione, della patria e della famiglia, interamente orientato verso l’utopia di una società socialista futura, che avrebbe permesso anche alle singole persone di esplicare in maniera più spontanea e autentica la loro personalità.

La seconda, che nel titolo si ispira direttamente alla prima, è un saggio di Vladimir Ilic Ulianov, detto Lenin, e fu pubblicata in Germania, a Stoccarda, nel 1902: è considerata una delle più importanti opere del grande rivoluzionario russo, e in essa si prospetta la necessità di creare un partito rivoluzionario che sia l’avanguardia della classe operaia, formato da rivoluzionari di professione. Secondo Lenin, infatti, la classe operaia, da sola, non sarebbe mai arrivata a formarsi una vera coscienza di sé; per tale obiettivo era necessario che venissero create le condizioni adatte per mezzo dell’azione di un gruppo di rivoluzionari professionisti, dotati di una formazione socialista "scientifica", ossia rigidamente marxista. Se il romanzo di Černysevskij ha favorito la diffusione di una mentalità rivoluzionaria fra la gioventù, il trattato politico di Lenin ha esposto, anticipandola di tre lustri, la tecnica della presa del potere da parte dei bolscevichi, con una lucidità, una freddezza e un’assoluta mancanza di scrupoli degne di Machiavelli.

Ebbene, la domanda del che fare? si pone anche a noi, cittadini di questo principio del terzo millennio; anzi, si pone con più urgenza che mai, colorendosi di sfumature drammatiche, perché sarebbe difficile minimizzare il fatto che siamo giunti a una svolta pericolosissima; che il disastro, il crollo e la dissoluzione della nostra stessa civiltà, di tutto il mondo in cui siamo cresciuti e cui siamo affezionati, sono, per così dire, dietro l’angolo; che essa non avrà alcun futuro, ma cesserà di esistere nel giro di pochissimi decenni, se non vi sarà una chiara e responsabile presa di coscienza da parte nostra, se non ci scuoteremo di dosso l’inerzia e il fatalismo che ci hanno come paralizzati, e se non torneremo ad essere i soggetti, e non più degli oggetti rassegnati e passivi, della sorte che ci si sta preparando.

Ultimamente, guardandoci intorno, parlando con le persone e ascoltando i loro discorsi, i loro comportamenti, i loro silenzi, ci siamo andati convincendo che qualcosa si è rotto, nell’equilibrio complessivo della nostra società; che antiche certezze si sono inabissate, forse per sempre; e che il domani ci porterà qualcosa di assolutamente inedito, quale noi, dopo averlo sperato o temuto per molto tempo, avevamo finito per ritenere che non sarebbe mai accaduto. In particolare, siamo rimasti colpiti dalla rabbia, dall’esasperazione, dallo spirito di ribellione che si è impadronito perfino delle persone più miti, più bonarie, più inclini alla pazienza, alla comprensione, ad assumere un atteggiamento pacato verso i problemi. Proprio costoro appaiono ora come convinti che si sia sopportato anche troppo a lungo; che ogni ulteriore atteggiamento d’inerzia e di passività sarebbe equivalente a un suicidio morale, oltre che materiale; e che la situazione si sia talmente deteriorata, e il nostro futuri, la nostra sopravvivenza, siano diventati talmente incerti, da esigere una reazione immediata, estremamente energica, che richiede, a sua volta, la liberazione da antichi complessi di colpa, da indulgenze eccessive, da una tolleranze divenuta paralizzante debolezza.

La sensazione più diffusa può esser descritta come quella di un esercito che non si senta inferiore ad alcuno, e che, tuttavia, abbia subito una serie di disfatte rovinose, e sia dunque portato a sospettare fortemente della lealtà dei comandanti; anzi, peggio ancora: di un esercito che non sia mai sceso in campo, e che, nondimeno, venga trattato sia dagli altri, sia dai propri comandanti, come un esercito vinto. La gente si sente infuriata, e, nello stesso tempo, indignata: C’è del marcio in Danimarca!, vien da dire, con Shakespeare. C’è del marcio in Italia, dunque, ai nostri giorni; non è normale quel che ci sta accadendo: siamo trattati come un popolo vinto, come una nazione che abbia subito una disfatta irreparabile, eppure nessuno ha combattuto, non si è sparato nemmeno un colpo di cannone. E una sensazione molto simile è ormai largamente diffusa in tutta l’Europa, anzi, in tutto l’Occidente, visto che, da un po’ di tempo in qua, perfino gli orgogliosi statunitensi stanno provando dei sentimenti di frustrazione molto simili ai nostri.

E il marcio non si limita alla netta percezione che qualcuno si è arreso, che qualcuno ha firmato una capitolazione ignominiosa, alle spalle e all’insaputa della nazione, ma si estende al fatto che alla gente non viene raccontata la verità, che vengono somministrate al pubblico una serie di sfrontatissime menzogne, ma in maniera talmente uniforme, talmente sistematica, che, ormai, sentire una voce fuori dal coro, sulla stampa o alla televisione, è diventata cosa rarissima e quasi incredibile; non solo: si vede sempre più frequentemente che tali voci dissenzienti e indomabili vengono fatte oggetto d’insulti, di minacce, di proposte di leggi repressive da parte di un parlamento che, diviso su tutto, su questo è perfettamente concorde, da destra a sinistra, passando per il centro. Insomma, tutti vedono, o almeno intuiscono, che siamo vittime d’una rappresentazione deformata della realtà, e che ciò non può essere un caso, non può essere semplicemente il risultato di una "normale", per quanto in se stessa aberrante, logica della competizione nel mondo dell’informazione, e di un interesse puramente "tecnico" dei proprietari dei media a ridurre al silenzio le voci indipendenti. Ci deve essere qualcos’altro, qualcosa di molto più grosso.

Il piano Kalergi, per trasformare l’Europa in un continente meticciato e senza identità?

Il gruppo Bilderberg, che, nell’ombra, decide i destini dell’intera umanità?

Le manovre di George Soros, che, con la scusa del filantropismo, pianifica e finanzia l’invasione dell’Europa da parte di masse strabocchevoli di africani e di altri stranieri?

Sì, c’è realmente del marcio in Danimarca: perfino l’uomo ella strada, perfino il macellaio, perfino il postino, perfino il bidello — gente che lavora e che non legge libri difficili, che non ha grandi titoli di studio, ma che non è stupida – se ne sono accorti. Ecco, il grande peccato dei poteri occulti è sempre lo stesso: l’arroganza. Pensano che la gente sia completamene cieca, che nessuno sia capace di vedere quanto grandi sono le menzogne che ci vengono propinate, e come il gioco dell’inganno stia arrivando ormai alla fine.

La gente comune non capisce perché il nostro destino debba essere quello di sparire, come popolo, come società e come civiltà. Si chiede perché, se degli stranieri che vogliono sgozzare la capra nella vasca da bagno, debbano farlo in casa nostra. Se vogliono infibulare le loro figlie, o proibire alle loro mogli di lavorare, di guidare la macchina, di vestirsi liberamente, debbano venire a farlo in casa nostra. E perché, se disprezzano così tanto la nostra cultura, il nostro modo di vivere, le cose in cui crediamo, debbano venire da noi e stabilirsi in casa nostra come se fosse un loro pieno e indiscutibile diritto. Ora vogliono anche avere il diritto di creare un loro partito: fondato sulle loro convinzioni, sulla loro dichiarata volontà di non integrarsi, di non accettare le nostre regole e le nostre usanze, di non condividere i nostri valori, ma di restare se stessi al cento per cento, vale a dire di trapiantare le loro società ed i loro Stati in casa nostra. La gente, in genere, non ha particolari obiezioni alle usanze e alle credenze altrui: se c’è qualcuno che vuole sgozzare un capra per festeggiare una sua ricorrenza religiosa, o se c’è qualcuno che vieta alle proprie donne di guidare l’automobile, o di aprire bocca in pubblico, ebbene, ogni popolo ha le sue usanze, e noi non possiamo capirle o giudicarle. Ciò su cui la gente si è formata una precisa opinione, invece, è un’altra cosa: essa contesta le legittimità che tali cose debbano essere fatte in casa nostra. Contesta il fatto che un intero paese venga svegliato dai belati della pecora destinata al sacrificio rituale, e che i propri bambini debbano assistere alla sua macellazione. Non vuole convertire gli altri alle proprie usanze e ai propri valori, ma pretende che gli altri non si comportino come se fossero in diritto di convertire lei. Per il semplice fatto che questa è casa nostra.

Oh, ma questo non lo si può dire. Ce lo vietano non solo gli stranieri, che ormai si muovono e parlano come se questa fosse casa loro, ma anche i nostri stessi intellettuali, i nostri capi politici e religiosi. Il papa, addirittura, ci ordina di accogliere chiunque in casa nostra, e tanto meglio se si tratta di persone che, della nostra civiltà, non condividono, né vogliono condividere, assolutamente nulla. Vogliono essere accolte, ma conservando tutte le loro abitudini e tutte le loro credenze: pretendono sia il diritto di entrare che quello di non adattarsi, di non integrarsi. Basta che rispettino le leggi, dicono i soliti intelligentoni, buonisti e politicamente corretti. Ma come si può rispettare le leggi, se non si condividono i valori fondamentali? Nel migliore dei casi, si farà finta di rispettarle: in attesa di essere abbastanza forti e numerosi da potersi risparmiare la commedia. Il capo dello Stato, il capo del governo, ci spiegano che così bisogna fare, ce lo impongono sia l’etica, sia le leggi internazionali. Davvero? E allora andiamo a vederle, queste leggi internazionali. E scopriremo che esse prevedono, sì, il diritto di essere accolte per quelle persone, e persino per quelle popolazioni, che sono in fuga da situazioni di estremo e immediato pericolo (il che, fra parentesi, vale per il 5% dei sedicenti profughi), ma non nel Paese che vogliono loro, bensì nel Paese più vicino: subito oltre la frontiera del prioprio. I profughi della Somalia hanno il diritto di essere accolte in Etiopia; quelli dell’Eritrea, nel Sudan; quelli del Sudan, in Egitto; quelli del Ciad, in Libia; e così via. Nessuna legge, nessun trattato internazionale obbligano l’Italia o gli altri Paesi d’Europa ad accogliere indiscriminatamente le vittime di una emergenza umanitaria verificatasi in Congo, o in Nigeria, o nel Ghana (ammesso che in quei Paesi vi siano delle emergenze umanitarie).

Ce lo impone la morale, allora, e specialmente la morale cristiana, come non smette di ricordarci, e di ordinarci, papa Francesco, insieme ai vari Galantino, Paglia e compagnia bella? Niente affatto. Se esiste un dovere morale di aiutare i bisognosi, esiste anche un dovere civile di non farsi prendere per i fondelli. Come è possibile che delle persone che non possiedono nulla, ma solo gli occhi per piangere, paghino migliaia di dollari per farsi catapultate nei nostri Paesi, dopo un viaggio di migliaia di chilometri? Viaggio che potrebbero fare comodamente, e in tutta sicurezza, a bordo di un qualsiasi aero, oltretutto pagando una cifra trenta o quaranta volte inferiore? C’è del marcio in Danimarca: altro che! Come si fa a non vedere, a non capire, che non si tratta di migrazioni spontanee, ma studiate e pianificate sin nei dettagli, e che qualcuno sta manovrando milioni di persone per invadere l’Occidente e sradicare la sua identità storica, culturale, religiosa, spirituale? E come si fa a non vedere, a non capire, che il compito della Marina militare dovrebbe essere quello di difendere i confini marittimi del proprio Paese, e non quello di favorire una sorta di auto-invasione, andando a prendere i pretesi profughi fin sulle coste dell’Africa? Altro che spietati "mercanti di carne umana": i cosiddetti scafisti sono solo i caporali, tacitamente tollerati, di codesta invasione; e le nostre navi, i nostri marinai sono gli agenti volontari della auto-invasione: ricevono una chiamata satellitare dagli scafisti, e si affrettano a "salvare" l’imbarcazione in difficoltà, magari a poche miglia dai porti della Libia. Ci stanno prendendo per deficienti?

Ma la gente comincia a stancarsi. Perfino le persone più miti si stanno stancando: non se ne può più di vedere stranieri in giro per la strada, mantenuti a spese nostre, che non fanno assolutamente nulla, dalla mattina alla sera, se non ascoltare musica, fumare e infastidire la gente del luogo, mentre milioni — abbiamo detto milioni – di italiani, vivono nella più squallida povertà, abbandonati da tutti. Quando si limitano a infastidire: perché sempre più spesso si prostituiscono, spacciano droga, rubano, rapinano fin dentro le case, stuprano, uccidono. In attesa del documento che riconosca loro lo status di profughi. L’iter per rispondere a tali richieste, senza contare l’immancabile ricorso in caso di rifiuto, dura almeno un paio d’anni. Possibile che il parlamento, oltre a legiferare in materia di matrimoni omosessuali ed eutanasia (mascherata), non abbia mai trovato il tempo di fare delle leggi che abbattano questi tempi assurdi? Evidentemente, a qualcuno va bene così. A molti alberghi fuori mercato, a molte cooperative che non saprebbero fare altro, se non prendere incarico questi stranieri nei "centri di accoglienza". Dunque, il marcio parte da qui, da casa nostra. Bisognerebbe fare una bella pulizia: ora, subito. Non c’è un minuto da perdere. Altrimenti, sarà troppo tardi…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Christian Lue su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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