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Cittadini delle tenebre, «gracia a deus»

L’ateo moderno si trova in una posizione assai più complessa e delicata, dal punto di vista intellettuale, dell’ateo di un secolo o due secoli fa. Rispetto ai tempi di d’Holbach e La Mettrie, o anche ai tempi di Marx e di Bakunin, negare Dio non è più sufficiente; bisogna anche giustificare questa negazione, prendendo atto di un fatto nuovo: che la ragione, la scienza, la tecnica, e le macchine da questa prodotte, si sono rivelate dei surrogati insufficienti; e, soprattutto, che l’immagine del mondo, particolarmente dopo la teoria della relatività di Einstein, è diventa immensamente più complessa di come la vedessero i materialisti nell’epoca classica dell’ateismo. Colui che vide subito, con lucidità e finezza, questo mutamento di scenari è stato Nietzsche: il suo annuncio della morte di Dio è infinitamente più problematico e carico di pathos, di quel che non fosse il piatto e banale motto di Bakunin: L’uomo è libero; ma, se Dio esiste, l’uomo è di nuovo schiavo: dunque, Dio non esiste. Egli, soprattutto, vide che, se si nega Dio, bisogna assumersi il compito di elaborare un nuovo sistema di valori, perché i vecchi sono divenuti inutilizzabili; e a ciò ha dedicato i suoi sforzi titanici per creare una nuova morale. Anche lui, però, è rimasto su un terreno ambiguo: i nuovi valori non erano altro che il risultato del rovesciamento puro e semplice dei vecchi, un po’ come la filosofia della praxis di Marx non è che il capovolgimento della filosofia idealistica di Hegel. Ma questa è una debolezza del pensiero ateo, perché è chiaro che, se i valori basati sulla credenza in Dio non sono più attuali, non basta rovesciarli come un guanto per restituire ad essi la loro efficacia; non si può versare vino nuovo in otri vecchi, direbbe qualcuno: bisogna elaborare ed annunciare dei valori che siano realmente nuovi, come esige l’epoca nuova ed il nuovo orizzonte esistenziale che si è venuto a delineare.

E qui, naturalmente, sorgono le difficoltà: dove reperire dei valori universali, se si nega un garante universale che ne fondi la legittimità? È inevitabile che si cada nel relativismo più spinto, o in quella variante del relativismo che è il nichilismo; o, ancora, in quella sotto-variante del nichilismo che è il surrealismo. Come dire: in un mondo privo di senso, sarebbe assurdo cercare ancora un punto fermo su cui posare il piede: bisogna rassegnarsi alla precarietà, all’indeterminatezza, alla costante apertura verso l’indifferenziato; e, siccome non ci si può adattare per davvero a vivere in un mondo siffatto, non resta che costruire dei non-sensi che prendano il posto lasciato dalla ormai scomparsa sensatezza, dalla ormai defunta razionalità delle cose. Ma che cosa separerà, che cosa permetterà di distinguere la sanità dalla follia, in un simile quadro esistenziale? Nulla, assolutamente nulla all’infuori del mio giudizio radicalmente soggettivo: al quale potrebbero contrapporsi, e, di fatto, si contrappongono, gl’innumerevoli giudizi soggettivi altrui. Se il mondo non ha senso, allora chiunque può proclamarsi Napoleone e aspettarsi che gli altri gli riconoscano tale identità; il guaio è, naturalmente, che gli altri non gliela riconoscono, a meno che non abbiano del tutto rinunciato a farlo ragionare (esemplare, a questo proposito, è la vicenda rappresentata nel dramma di Luigi Pirandello Enrico IV). Il solipsismo produce la pazzia e ne è, al tempo stesso, il logico e necessario presupposto.

L’uomo moderno è in rivolta contro il Mistero: la vera e ultima radice dell’ateismo è tutta qui. Non gli piace che il Mistero esista; la sua esistenza lo sminuisce, lo umilia, lo riempie di frustrazione. L’uomo moderno vorrebbe, se non proprio sapere tutto, almeno poter sapere tutto: è anche disposto all’idea di morire senza aver conosciuto e compreso ogni cosa, purché lo sostenga la fiducia che i suoi figli, o i suoi nipoti, conosceranno e capiranno ciò che a lui non è stato concesso. Non si sofferma ad analizzare le radici di questo atteggiamento: se lo facesse, non ci metterebbe molto ad accorgersi che è un ennesimo surrogato di quel dio che egli ha voluto cacciare dalla porta, e che sta ora tentando di rientrare dalla finestra. Dio è un inquilino molto più tenace di quanto gli atei militanti non siano disposti ad ammettere: benché gli abbiano dato lo sfratto innumerevoli volte, non si decide a sparire del tutto, come se avesse l’incredibile audacia di ritenersi indispensabile. Si rifletta alla battuta di un personaggio della Via lattea, il film di Buñuel girato nel 1968: Il mio odio per la scienza e il mio disprezzo per la tecnologia mi porteranno, alla fine, verso quell’assurda credenza in Dio. Anche se ci arrende all’idea che il mondo sia del tutto privo di senso, nondimeno si sente ancora il bisogno di spiegarlo, di capire le cose, cioè di trovare un dio che ci spieghi la realtà e che ci faccia capire quel che le cose hanno da dirci.

Così espone il punto di vista ateo militante il famoso regista spagnolo, naturalizzato messicano, Luis Buñuel (1900-1983), uno dei maggiori rappresentanti del cinema surrealista, nella sua autobiografia Dei miei sospiri estremi (titolo originale: Mon dernier soupir, Paris, Robert Laffont, 1982; traduzione dal francese di Daniella Selvatico Estense, Milano, Rizzoli, 1983, pp. 170-172):

Naturalmente, se la nostra nascita dipende soltanto dall’avventura, da un incontro fortuito fra un ovulo e uno spermatozoo (e allora perché questo e non quello, fra tanti milioni?), la funzione del caso svanisce quando si edificano le società umane, quando il feto, e poi il bambino, vengono sottoposti a quelle leggi. E succede lo stesso in tutte le specie. Le leggi, le consuetudini, le condizioni storiche e sociali di una data evoluzione, di un dato progresso, tutto quello che ha la pretesa di contribuire all’instaurazione, allo sviluppo, alla stabilità di una civiltà cui apparteniamo bene o male per nascita, tutto questo dico si presenta come una lotta quotidiana e tenace contro il caso. Straordinario e vivissimo, mai domo del tutto, cerca di adattarsi alla necessità sociale.

Credo però che in queste leggi necessarie, che ci permettono di vivere insieme, bisogna guardarsi dal vedere una necessitò fondamentale, primordiale. In realtà mi sembra che non fosse necessario che questo mondo esistesse, né che ci trovassimo qui a vivere e a morire. Dato che siamo solo figli del caso, la terra e l’universo avrebbero potuto continuare senza di noi, fino alla consumazione dei secoli. Immagine inimmaginabile, quella di un universo vuoto e infinito, teoricamente inutile, che nessuna intelligenza potrebbe contemplare, che esisterebbe da solo, caos durevole, abisso inspiegabilmente privo di vita. Forse, altri mondi chiusi alla nostra conoscenza continuano così la loro inconcepibile corsa. Amore per il caos, che a volte sentiamo profondo dentro di noi.

Alcuni sognano un universo infinito, altri ce lo presentano finito nello spaio e nel tempo. Mi trova fra due misteri entrambi impenetrabili. Da una parte, l’immagine di un universo infinito è inconcepibile. Dall’altra, l’idea di un universo finito, che un giorno non esisterà più, mi ripiomba in un nulla impensabile, che mi affascina e mi fa orrore. Per cui oscillo, e non so.

Immaginiamo che il caso non esista e che tutta la storia del modo, all’improvviso logica e prevedibile, possa risolversi in qualche formula matematica. Se così fosse, bisognerebbe credere in Dio e supporre inevitabilmente l’esistenza attiva di un grande orologiaio,di un supremo organizzatore.

Ma Dio, che tutto può, non avrebbe potuto creare a capriccio un mondo in balia del caso? No, ci rispondono i filosofi. Il caso non può essere una creazione di Dio, dato che è la negazione di Dio. I due termini sono antinomici. Si escludono l’un l’altro.

Non avendo la fede (e convinto che la fede come ogni altra cosa nasca spesso dal caso), non vedo vie di uscita. È un circolo chiuso, per questo non tento di entrarci. La conclusione che ne ricavo, a mio uso e consumo, è molto semplice: e credere e non credere, è proprio lo stesso. Se in questo preciso istante mi si dimostrasse la luminosa esistenza di Dio, il mio cambiamento non cambierebbe di certo, Non posso crede che Dio mi sorvegli continuamente, che si occupi della mia salute, dei miei desideri, dei miei errori. Non posso credere e comunque neanche accettare che possa punirmi per l’eternità.

Che cosa sono per lui? Niente, un’ombra di fango. Il mio passaggio è talmente rapido da non lasciare una traccia. Sono un povero mortale, e non conto, nello spazio come neanche nel tempo. Dio non si occupa di noi. Se esiste, è come se non esistesse.

Ragionamento che una volta ho riassunto in questa formula: "Sono ateo, per grazia di Dio". Una formula solo apparentemente contraddittoria.

Accanto al caso, suo fratello, il mistero. L’ateismo — il mio comunque — porta necessariamente ad accettare l’inesplicabile. Tutto il nostro universo è mistero.

Poiché mi rifiuto di far intervenire una divinità organizzatrice, la cui azione mi sembra ancora più misteriosa del mistero stesso, non mi rimane che vivere in una specie di tenebra. E l’accetto. Non esistono spiegazioni, anche le più semplici, valide per tutti. Fra i due misteri ho scelto il mio, che almeno mi garantisce una libertà morale.

Mi si dice: e la scienza? Non sta forse cercando, per altre vie, di ridurre il mistero che ci circonda?

Può darsi. Ma la scienza non m’interessa. Mi sembra pretenziosa, analitica e superficiale. Ignora il sogno, il caso, la risata, il sentimento e la contraddizione, tutte cose che mi sono preziose. Un personaggio della "Via lattea" diceva: "Il mio odio per la scienza e il mio disprezzo per la tecnologia mi porteranno, alla fine, verso quell’assurda credenza in Dio". Vero niente. Per quello che mi riguarda, assolutamente impossibile anzi. Ho scelto il mio posto, è nel mistero. Devo solo rispettarlo.

La smania di capire e di conseguenza sminuire, banalizzare – per tutta la vita mi hanno ossessionato con domande cretine: perché qua? perché là? — è una delle nostre sciagure naturali. Se fossimo capaci di rimettere al caso il nostro destino e accettar ere tranquillamente il mistero della nostra vita, potremmo godere di una certa felicità, parente prossima dell’innocenza.

Da qualche parte, tra il caso e il mistero, s’insinua l’immaginazione. Libertà totale dell’uomo, che, come le altre, hanno tentato di sminuire, di cancellare. Proprio per questo il cattolicesimo ha inventato il peccato d’intenzione. Un tempo, quella che ritenevo la mia coscienza mi proibiva certe immagini: assassinare mio fratello, andare a letto con mia madre. Mi dicevo: "Che orrore!" e respingevo di furia quei pensieri maledetti da sempre.

Solo verso i settanta-settantacinque anni sono riuscito a capire in pieno e ad accettare l’innocenza dell’immaginazione. Mi ci è voluto tutto quel tempo per ammettere che quello che mi passava per la testa riguardava soltanto me, che non si trattava in alcun modo di quelli che chiamano "cattivi pensieri", in alcun modo di peccato, e che dovevo lasciar andare la mia immaginazione dove voleva, anche se sanguinosa e degenerata.

Adesso, accetto qualsiasi cosa e mi dico: "Bene, vado a letto con mia madre, e allora?" e quasi subito le immagini delittuose e incestuose svaniscono, cacciate dall’indifferenza.

Il passaggio-chiave, nel ragionamento di Buñuel, è il seguente: Poiché mi rifiuto di far intervenire una divinità organizzatrice, la cui azione mi sembra ancora più misteriosa del mistero stesso, non mi rimane che vivere in una specie di tenebra. E l’accetto. Non esistono spiegazioni, anche le più semplici, valide per tutti. Fra i due misteri ho scelto il mio, che almeno mi garantisce una libertà morale. "Non mi rimane che vivere in una specie di tenebra": è questa l’unica possibilità che rimane a chi prenda atto che solo Dio può garantire la sensatezza del mondo, e che, fuori di Lui, c’è solo il caos. Buñuel, ateo intelligente, rifiuta Dio, ma accetta il mistero, e accetta che vita si svolga nell’ombra del mistero. Ma il suo mistero è un piccolo mistero, un mistero con l’iniziale minuscola, che coincide — lo dice lui stesso — con l’inesplicabile. Questo è molto fine, ma poco coerente. L’inesplicabile non è il mistero, è solo il mistero provvisorio: ma il mistero provvisorio non è il vero mistero, è solo un "problema", come direbbe Gabriel Marcel; e i problemi son fatti per essere risolti. Il vero mistero non è solo inesplicabile, è inaccessibile: se fosse solo inesplicabile, potrebbe trovare una qualche spiegazione, prima o dopo. E la scienza, che Buñuel dice non interessarlo — perché non tiene conto del caso, della risata, eccetera — rientrerebbe prepotentemente in campo: datemi un lasso di tempo sufficiente, ed io vi spiegherò moltissime cose che oggi sono inesplicabili; forse tutte. Ovvio che anche la scienza, così intesa — cioè come spiegazione assoluta e totalizzante del mondo — è una nuova, ennesima maschera di Dio, di quel Dio che si credeva di aver sfrattato per sempre dalla casa degli uomini.

Lungi da noi la banalità, un tantino gesuitica, di voler contestare l’ateismo dichiarato di Buñuel con l’evidente ricerca di Dio che emerge dai suoi film, e sia pure in forme disordinate, contraddittorie e blasfeme: se egli si dichiara convintamente ateo, prendiamo atto di ciò che egli vuole essere e di ciò che pensa di essere (anche se, per forza di cose, apriamo qui la porta ad ogni pazzo che si crede Napoleone e vuol essere trattato come tale). No: quel che ci preme sottolineare non è la contraddittorietà di un intellettuale che dice di aver scelto l’ateismo, ma che poi, nei suoi film, parla continuamente di Dio, e mette in scena tutta una stranissima galleria di monsignori, pellegrini, preti spretati e allucinati tipi di mistici e asceti tentati dal diavolo, dagli evidenti richiami evangelici; bensì il fatto che, se si accetta il mistero ma si rifiuta Dio, e, insieme a Lui, un superiore principio di organizzazione del mondo, le cose diventano doppiamente assurde: perché non c’è una entità suprema che ne garantisca la verità, la dignità, la necessità, e perché l’uomo, esaltando la propria facoltà d’immaginazione, proietta liberamente su di esse tutti i suoi fantasmi (anche d’incesto e di omicidio), sfigurandole e togliendo loro ogni residuo fattore d’ordine, e sia pure di un ordine tutto immanente e contingente, dunque di per sé precario.

L’uomo, così, si riduce ad essere un cittadino delle tenebre. Ed è costretto a vantarsene: gracia a deus, come dicono di se stessi gli anarchici brasiliani.

Questa, per l’ateismo, è la vera nemesi, ed è anche la beffa suprema. Da un lato l’uomo vuol negare Dio e accettare l’assurdità del reale; dall’altro, vuol sostituirsi a Dio nel dare un significato nuovo alle cose, ma un significato valido per lui solo, e poco chiaro perfino a sé stesso: un significato che è, in effetti, un non-significato. Inevitabile deriva del nichilismo: chi riduce a nulla il senso delle cose, è poi costretto a dare ad esse un senso tutto suo, incomprensibile agli altri, e, non di rado, anche a lui medesimo. Invece di aver reso il mondo più semplice e meno opprimente, l’ha reso più enigmatico e più angoscioso.

Valeva la pena, per porsi da se stessi in un mondo ancora più folle ed elusivo, rispetto al quale gli uomini sono sempre fuori posto, lontani da dove vorrebbero essere, aver sfrattato il vecchio Dio, che dava loro ombra con la sua pretesa di conoscerli, amarli e chiamarli a Sé?

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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