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8 Marzo 2017La tigre (Panthera tigris) vive, ed è sempre vissuta, esclusivamente nel continente asiatico; nemmeno ai tempi della sua massima espansione geografica, nel tardo Pleistocene, pare sia mai arrivata a lambire l’Europa. Di sicuro nessuno l’ha mai vista in Carnia, tranne, beninteso, in occasione dell’arrivo di qualche circo, quando i suoi ruggiti possono bene aver riempito di meraviglia e di un oscuro terrore la pacifica fauna dei boschi che fiancheggiano la valle superiore del Tagliamento, alle falde del Monte Amariana, del Col Gentile o del Bivera, o che ammantano le valli laterali del But, del Degano e del Lumiei. Eppure, è proprio lì che è avvenuto l’incontro di un bambino con il maestoso felino, il più grande che esista in natura, col suo mantello a strisce, in un chiaro mattino d’estate ormai lontano.
Sotto gli antichi portici della via centrale della cittadina — la quale, non avendo rivali fra i modesti paesi della zona, è considerata il "capoluogo" della regione -, che si snoda ondeggiando in direzione del duomo, c’era, e crediamo ci sia ancora, una cartolibreria le cui vetrine bene addobbate fornivano una qualche distrazione allo sguardo curioso e vivace di un bambino in vacanza con la sua famiglia. Essendo ristetti gli spazi del centro storico, e inclemente la stagione, stretta fra un caldo torrido e una piovosità incessante, capitava di passare più volte davanti a quelle vetrine, e, quindi, di poter ammirare a bell’agio le merci esposte, anche per ingannare la noia di una vacanza non troppo indovinata, decisa in fretta e furia nell’illusione di sfuggire, anche solo per un poco, alle temperature africane della pianura. Ora, fra cartelle di cuoio ed eleganti penne stilografiche, in una posizione comoda da osservare, faceva mostra di sé un mappamondo (non una carta della superficie terrestre, ma un globo vero e proprio), dalle caratteristiche piuttosto insolite, perché non era né un globo fisico, né politico: invece di raffigurare le terre e i mari, o i confini degli Stati variamente colorati, raffigurava le principali specie di animali della fauna terrestre e marina. Sulla superficie dei vari continenti e delle isole maggiori, nonché sull’azzurro dei mari, erano raffigurati i pesci, gli anfibi, i rettili, i mammiferi e gli uccelli più rappresentativi di ciascuna area. C’erano, sì, i fiumi e le catene montuose, ma solo dei più gradi era scritto il nome; quasi tutto lo spazio disponibile era riservato agli animali, così ben disegnati da parer vivi, striscianti, saltellanti e galoppanti, oppure librati in volo, o emergenti dalle acque, o sul punto di rituffarsi in un trionfo di bianchi spruzzi, come i capodogli. Ebbene, l’animale che catturò l’attenzione di quel bambino fu subito, manco a dirlo, proprio una tigre: e fu un amore a prima vista.
Di tigri, per la verità, ce n’erano diverse, con lievi differenze nella taglia e nel mantello: alcune si aggiravano per le foreste tropicali del Deccan — e fin qui ci siamo; il bambino aveva letto Il libro della giungla di Kipling e conosceva di fama la crudele Shere Khan; altre popolavano le isole del Sud-est asiatico, Sumatra, Giava e Bali — e anche questo era possibile, o, almeno, credibile, forse con l’aiuto di qualche romanzo di Salgari o di qualche film ispirato al ciclo dei Pirati della Malesia; c’era perfino una tigre che si muoveva, possente, nella taiga siberiana, presso le rive dell’Amur, lassù in alto, al confine tra la Cina e l’Unione Sovietica; e chi non aveva sentito nominare il fiume Amur, e il suo affluente Ussuri, allorché, nel gennaio 1967, alcuni reggimenti sovietici avevano sostenuto una vera battaglia contro le guardie di frontiera cinesi, evento che aveva riempito di meraviglia e di preoccupazione tutto il mondo? Quanto all’esistenza di una tigre siberiana, neanche questa era una cosa incredibile: anche se ancora non era uscito il film di Kurosawa Dersu Uzala, né era stato tradotto in italiano il libro dell’esploratore russo Vladimir K. Arsenev, nondimeno qualche informazione pregressa doveva esserci, nella mente del bambino, per rendere curiosa, sì, ma non inverosimile, l’esistenza di una tigre che s’era abituata a vivere in quei climi freddi, fra le nevi, così lontano dalla familiare ambientazione tropicale.
Ma quella che costituiva una sorpresa era un’altra specie ancora, una tigre collocata in piena Asia centrale, press’a poco tra i fiumi Amu Darya e Syr Darya, i due immissari orientali del Lago d’Aral, conosciuti dagli antichi greci come Oxos e Iassarte. Oggi quel lago salato è quasi estinto, ridotto sì e no a un decimo della sua superficie originaria, così vasta (quasi 70.000 kmq.) che talvolta era chiamato "mare" dalle popolazioni rivierasche. Il suo progressivo prosciugamento è iniziato proprio negli anni ’70 del Novecento, a causa dell’eccessivo sfruttamento delle acque dei suoi immissari, ma allora le carte geografiche non ne avevano preso atto, e l’opinione pubblica mondiale ne sapeva ancor meno, vista anche la penuria, per non dire l’avarizia, con cui le autorità sovietiche lasciavano filtrare all’estero la benché minima notizia che riguardasse la "Patria dei lavoratori", specialmente se si trattava di notizie non troppo entusiasmanti (cfr. il nostro articolo: Come si uccide un mare interno in nome dello sviluppismo, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 07/11/2007, e ripubblicato su Il Corriere delle Regioni il 14/02/2017). Ora, la domanda era: che cosa diavolo ci faceva un tigre, e anche bella grossa, a giudicare dal disegno (la sua taglia, infatti, è di poco inferiore a quella della tigre dell’Amur, la più grossa fra tutte quelle viventi, anche se più piccola della Panthera tigris soloensis, vissuta nel Pleistocene superiore: un mostro alto alla spalla quasi un metro e mezzo, e che poteva pesare fino a 400 kg.), che ci faceva dunque in una zona tanto insolita, fra il Mar Caspio e il Lao d’Aral?
La fantasia del bambino galoppava anch’essa, e tuttavia c’era qualcosa che non quadrava: perché va bene immaginarsi una tigre fra i canneti e le mangrovie dell’Asia meridionale, come in tanti romanzi di Sandokan; va bene anche, e sia pure con un certo sforzo, immaginarsela sulle distese gelate, in riva al Lago Bajkal (forse uno dei bellissimi e commoventi documentari della Walt Disney sulle meraviglie della natura?); ma ci voleva un po’ troppa immaginazione per "vederla" aggirarsi lungo i fiumi e nelle steppe semidesertiche dell’Asia centrale, dove foreste non ce ne sono, né di mangrovie, né di betulle, e dove il grosso felino, pertanto, non trova dei facili ripari per appostare le sue prede, e bisogna immaginare che, invece di attenderle fra i rami di un grosso albero, mentre passano sul sentiero sottostante, si debba impegnare in lunghi e faticosi inseguimenti su di un terreno scoperto, dove non è detto che un cervo in fuga non possa distanziare il suo terribile persecutore, dopo averlo ridotto a corto di fiato. Sta di fatto che proprio quella stranezza dovette agire da stimolo, perché, ogni volta che il bambino si trovava a ripassare davanti alla vetrina, non mancava mai di fermarsi e lasciar correre lo sguardo lungo la superficie dell’originale mappamondo (chissà come, non ne aveva mai visto uno del genere nella sua città, che era pur dieci volte più grande di quella), fino a localizzare la "strana" tigre del Caspio, così solitaria e un po’ spaesata, almeno secondo le sue ingenue congetture, per il fatto di dover vivere e trovar di che sfamarsi in un ambiente così poco idoneo alle sue caratteristiche di grosso predatore, agile sì, ma insomma non proprio specializzato nelle lunghe corse di resistenza. Come mai c’erano delle tigri, proprio lì, proprio in quella parte del mondo?
Insomma, la difficoltà era quella di far combaciare l’immagine della tigre con quella del territorio in cui era segnata l’esistenza di una delle specie del grande felino (Panthera tigris virgata): di mettere d’accordo la biologia con la geografia. Perché se si fosse trattato solo della regione immediatamente a sud del mar Caspio, la cosa non creava troppi problemi: la catena dei Monti Elbruz, con le sue vette superiori ai quattro e ai cinquemila metri (il Damavand supera i 5.600) e con le sue fitte foreste dal clima pluviale temperato, poteva benissimo offrire l’habitat adatto alla tigre. Forse il professore di latino aveva nominato le "tigri ircane", o forse quel professore (che insegnava anche l’italiano, e molto bene) aveva letto in classe quel verso dell’Aminta di Torquato Tasso, e così il bambino sapeva, più o meno, che in Ircania, satrapia dell’antica Persia, tra foreste e montagne, viveva una specie di tigre considerata particolarmente feroce; però non era cosa facile immaginarsela molto più a Nord e ad Est, in quella sorta di terra di nessuno, in quell’angolo degli "imperi morti" (Iran, India, Cina, Russia), vagare lungo fiumi dai nomi favolosi, ma poveri di vegetazione, sotto cieli inclementi, e senza un poeta o un romanziere che si fosse preso il disturbo di celebrarne la forza o l’astuzia, e nessun artista, magari antico, che ne avesse tramandato la caccia, come avevano fatto gli Assiri con la caccia al leone dei loro crudeli sovrani.
Il bambino non poteva saperlo, ma proprio in quegli anni, mentre stava incominciando l’agonia del "mare" d’Aral, si stava estinguendo per sempre il possente predatore che tanto lo aveva impressionato, più che per la caccia da parte degli umani, per la distruzione del suo ambiente e, quindi, per la crescente difficoltà di accoppiarsi e riprodursi: vittima, in ultima analisi, semplicemente del Progresso, questa nuova, spietata divinità che ha conquistato le menti e i cuori degli uomini moderni, e davanti alla quale tutti si prostrano, e nessun sacrificio, nessun crimine sembrano troppo grandi, ma sono considerati come il giusto scotto da pagare per poter immaginare un futuro radioso, nel quale la natura sarà totalmente soggiogata e sfruttata a volontà dalla nostra specie (con quanta intelligenza, alla fine, non è dato capire). E un’altra cosa quel bambino non poteva ancora sapere: che quel mattino di sole, e poi di nuovo, la sera, ritornando ad ammirare il favoloso mappamondo, era penetrata in lui la freccia silenziosa di una passione nuova, che sarebbe maturata poco a poco, ma non se ne sarebbe andata mai più: quella per una disciplina che a scuola non s’insegnava, e il cui nome avrebbe appreso solo in seguito: la biogeografia, suddivisa, a sua volta, nelle due branche fondamentali della zoogeografia, la geografia degli animali, e la fitogeografia, la geografia delle piante; e che esse si sarebbero alternate, nel corso degli anni, al centro dei suoi interessi, insieme ad altre, destinate a comparire in seguito, ultima delle quali, ma più importante di tutte, sarebbe stata infine la filosofia.
Così ha narrato l’estinzione della tigre del Caspio lo scrittore, viaggiatore e naturalista newyorkese Peter Matthiesen (1927-2014) nella sua monografia La tigre delle nevi (titolo originale: Tigers in the Snow, 2000; traduzione a cura di Roberto Agostini, casale Monferrato, Edizioni Piemme, 2001, pp. 67-71):
In quasi tutti i territori della tigre agiscono forze che congiurano per cancellarne la presenza, sebbene l’impatto possa variare da paese a paese. Il fattore preponderante rimane la distruzione del suo habitat, conseguenza della crescente presenza degli insediamenti umani e di attività come kl’agricoltura, il disboscamento, l’estrazione mineraria, gli incendi delle foreste e le guerre. Inoltre si può verificarla cosiddetta "depressione da incrocio", che consiste in una bassa variazione genetica causata dall’accoppiamento di tigri consanguinee: porta a un calo delle resistenze immunitarie e riduce la fertilità, e ne conseguono una mortalità più elevata e, alla fine l’estinzione della popolazione interessata. Si può anche constatare un "drift genetico", ovvero fluttuazioni genetiche casuali in piccole popolazioni.
Sebbene gli evento specifici che conducono all’estinzione siano poco conosciuti, era inevitabile che le prime razze di tigre a scomparire fossero la balinese (l’ultimo avvistamento attendibile si è avuto nel 1939), quella del mar Caspio (1968) e quella di Giava (1979), che si erano separate da troppo temo dal ceppo principale, ed erano ormai isolati avamposti, a Occidente e a Oriente, del territorio della tigre.
La tigre del mar Caspio fu sempre separata dal ceppo del subcontinente indiano dalle vaste distese desertiche dell’Afghanistan e del Pakistan settentrionale. Nei millenni più recenti, le foreste si ridussero, mentre le grandi steppe si trasformavano in deserto. E così la "Panthera tigris virgata" finì per trovarsi isolata, rispetto alle altre tigri dell’Asia orientale, dagli aridi altopiani nella Mongolia settentrionale, nel Sinkiang e nel Tibet settentrionale, dalle gelide distese montuose del Kunlun e dal deserto del Taklamakan. La tigre era in grado di tollerare il freddo, ma non poteva sopravvivere nelle lande aride dove le stesse sue prede avevano difficoltà a procurarsi cibo e acqua.
La "Panthera tigris virgata" era di taglia media con mantello chiaro. Abitava nelle aree paludose del Caucaso e attorno ai grandi mari interni dell’Asia occidentale. Noi la conosciamo come l’accigliata e indolente presenza raffigurata nell’antica arte persiana.
In origine, il suo habitat si estendeva dalla Turchia orientale e dai contrafforti settentrionali dell’Iran e dell’Afghanistan alle rive meridionali dei laghi Caspio, Aral, Balhas e al Kazakistan, nell’Asia centrale. Con ogni probabilità giungeva fino al confine occidentale della Mongolia. In questo territorio così vasto e perlopiù arido, la tigre si distribuiva lungi le rive dei laghi e nelle valli percorse da corsi d’acqua, che furono inevitabilmente a che i primi luoghi d’insediamento degli esseri umani. Dobbiamo dunque pensare che si mosse di più rispetto alle tigri meridionali, disperdendosi su maggiori distanze, attraversando lande desolate e aride, alla ricerca di territori non invasi dall’uomo. Ecco un commento interessante ripreso da un testo degli anni venti: "La specie piccola, della Siberia sudoccidentale, a pelo corto e con mantello piuttosto macchiato, ha il suo santuario nelle distese paludose attorno al lago Balhas a sud-ovest, sebbene sia diffusa in discreto numero verso est e a sud del sistema montuoso dell’Altaj, lungo tutta la direttrice della Cina".
In Iran la tigre godette della protezione ufficiale, ma, sebbene le leggi fossero state inasprite, si estinse. "La piccola tigre che si trova nella Siberia sudoccidentale" viene raramente uccisa dalle doppiette "ma esche avvelenate… vengono deposte nelle tane in inverno, quando la sua pelliccia è considerata più preziosa dagli intermediari cinesi che trafficano in pelle in Manciuria".
La razza del mar Caspio fu condannata dalla distruzione delle foreste locali e dei cervidi, che sono stati massicciamente cacciati. Lungo la riva meridionale del Caspio, il controllo della malaria comportò un improvviso incremento della popolazione umana, mentre nel Kazakistan gli incendi delle steppe bruciarono i folti canneti nelle valli dei fiumi, distruggendo in buona parte l’habitat acquitrinoso abitato dal cervo e dal cinghiale. Allo stesso modo nel Turkmenistan la caccia indiscriminata, insieme al disboscamento della fitta vegetazione per favorire le nuove colture di cotone della regione di Aral, causò probabilmente la fine dell’ultima popolazione in grado di procreare.
Nel 1964 due tigri furono uccise presso Lenkoran, sulla sponda sudoccidentale del Caspio, presso il confine iraniano. Si trattava forse degli stessi esemplari citati pochi anni dopo da uno scrittore inglese: "A Baku si è parlato di tigri, di altra fauna e flora esotica nei dintorni di Lenkoran… Non fu in questi luoghi o qui vicino… che Tamerlano uccise la sua tigre?". Da quel momento in poi Baku fu quasi sommersa da un gigantesco intrico di pozzi petroliferi, e raffinerie, e l’ultimo habitat della tigre scomparve per sempre.
Agli inizi degli anni Settanta, uno studioso americano che ispezionava la sponda iraniana del Caspio con una speciale macchina fotografica in grado di riprendere le impronte degli animali, trovò segni di leopardo, ma nessun indizio di tigre. Una ricerca fra le montagne dell’Iran fra il 1973 e il 1976 diede lo stesso risultato. Oggi possiamo affermare con amarezza che la tigre del mar Caspio è estinta.
Estinta la tigre del mar Caspio; estinta, già da tempo, anche la tigre di Bali, ed estinta, poco dopo, quella di Giava; gravemente minacciate d’estinzione la tigre di Sumatra, quella di Corbett (Indocina), la tigre di Jackson (Malacca) e quella di Amoy (o della Cina meridionale); prosciugato e praticamente avvelenato il Lago d’Aral; solo due specie del grande felino non sono in pericolo immediato di scomparsa: la tigre siberiana e la tigre del Bengala.
L’uomo può vantarsi di aver "messo in sicurezza" anche il continente asiatico dalle zanne della tigre, così come ha fatto, in Europa, con il lupo, e così come potrebbe fare, nel giro di pochi anni, per il leone nell’Africa occidentale, e per il giaguaro in America. In compenso, la moderna biogenetica è in grado di creare specie nuove e, volendo, di "ricreare" specie estinte: Francis Bacon, il massimo teorico e profeta di un tal genere di dominio dell’uomo sulla natura, avrebbe di che sentirsi fiero, a nome della nostra specie (cfr. il nostro articolo: Manipolazione spietata di cose, vegetali ed animali nella "Nuova Atlantide" di Francesco Bacone, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 31/10/2008).
Noi, tanto fieri, non ci sentiamo affatto. Crediamo, anzi, che vi siano ampie ragioni per rattristarsi profondamente. Possibile che in un giorno non lontano il ruggito dell’ultima tigre non risuonerà più nei vasti spazi della natura selvaggia, perdendosi fra i boschi e le valli montane, ma lo si potrà udire solo dietro le gabbie dei circhi, e, forse, lo sentirà ancora, nella sua fervida immaginazione, un bambino, perso a fantasticare davanti a un vecchio atlante, oppure a un mappamondo, con la distribuzione degli animali sulla superficie terrestre?
Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Vidar Nordli-Mathisen su Unsplash