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20 Febbraio 2017Se dovessimo indicare quali sono i tratti essenziali della modernità, ci sembra che uno dei primi dovrebbe essere la negazione della giustizia divina. Non la negazione dell’esistenza di Dio, ma la negazione della sua giustizia e della sua provvidenza — la provvidenza non essendo altro che un aspetto della giustizia divina.
L’uomo moderno si pone, rispetto a Dio, come se la cosa più importante da decidere non sia la sua esistenza (problema ritenuto dai più come superato, storia vecchia che interessa solo le vecchine), ma la sua giustizia: è come se l’uomo moderno volesse sapere se Dio, posto che esista, sia un dio giusto, perché, se non lo fosse, ciò meriterebbe, da parte dell’uomo, tutto il suo disprezzo, e chiuderebbe il discorso, perfino indipendentemente dalla sua esistenza. Ed è logico. L’uomo moderno ha creato un punto di vista totalmente antropocentrico e radicalmente immanentistico: non gli importa davvero sapere se Dio c’è, ma se c’è un dio che risponda alle sue esigenze, un dio della sua stessa misura, che lui possa giudicare così come si giudicano gli esseri umani. Un Dio trascendente e misterioso non rientra nel suo orizzonte, vorremmo dire nel suo campo percettivo; dunque non lo riguarda. In senso psicologico, questa evoluzione è molto comprensibile: l’uomo moderno ha voluto fare da solo, come se dio non ci fosse, come se lui fosse il dio di se stesso; però è andato sbattere contro il proprio limite ontologico, a cominciare dal limite della sua mortalità, esattamente come prima. Allora, in qualche modo, e pur non ammettendolo volentieri, è tornato a socchiudere la possibilità che un dio esista, dopotutto; si tratta però di sapere, per lui, se sia un dio che possa servirgli nella spiegazione del proprio limite, che possa fargli da stampella nel fronteggiarlo, che possa sostenerlo nell’accettarlo. Impresa impossibile, perché intrinsecamente contraddittoria, dato che l’uomo moderno, in quanto cittadino della modernità, non accetta, né accetterà mai, il proprio limite ontologico. Quel che cerca realmente, pertanto, non è un dio che gli confermi l’esistenza di tale limite, e sia pure per aiutarlo a confrontarsi con esso, tanto meno per accettarlo, ma un dio che lo rimuova, o, se questo non è possibile, un dio sul quale scaricare la sua frustrazione, la sua rabbia impotente, la sua amarezza. Certo che l’uomo moderno desidera un "dio tappabuchi", ma non nel senso criticato da Dietrich Bonhoeffer e dalla teologia negativa, cioè un dio che serva a risolvere le situazioni difficili, bensì nel senso del nichilismo più estremo, cioè un dio che serva a prendere su di sé le maledizioni dell’uomo, per non aver voluto abolire il limite ontologico di questi, o, almeno, per non avergli dato gli strumenti per farlo.
L’uomo moderno vorrebbe essere dio: da Adamo ed Eva in poi, passando per la torre di Babele, e per l’uomo nuovo comunista e nazista, questo è sempre stato il suo sogno; e ultimamente, con i successi spettacolari della tecnica, e specialmente della tecnica genetica, comincia a sentirsi – follemente, è chiaro — più vicino alla meta di quanto non lo sia mai stato. In attesa di insediarsi definitivamente sul trono dell’auto-deificazione, il che avverrà quando riuscirà ad avere il controllo totale del proprio Dna, per smontarlo e rimontarlo a piacere, secondo i suoi gusti, nonché per incrociarlo con quello di altre creature, in quell’attesa, dicevamo, l’uomo moderno è disposto a concedere un certo spazio all’ipotesi di dio, ma solo per rovesciare su tale dio "tappabuchi" il suo rancore per il fatto di non essere, lui, l’uomo, onnipotente, ma di dover ammalarsi, invecchiare e morire, come tutte le creature. Non ha il fegato di dirlo chiaro e tondo neanche a se stesso, perché vede bene l’assurdità e la contraddittorietà del suo desiderio: quello di non aver tutori sopra di sé, ma di averne bisogno per accusarli di crudeltà e insensibilità. Inoltre, come sempre, l’uomo preferisce cercare una vittima "ideale" di cui chiedere conto a questo dio ingiusto, e la trova, si capisce, fra gli "innocenti", meglio se bambini. Come può essere, dio, così crudele da permettere la sofferenza e la morte di tante persone innocenti, e specialmente dei piccoli? Ed ecco che i terremoti, le eruzioni vulcaniche, le grandi pestilenze gli vengono in buon punto per rovesciare sopra un siffatto dio tutto il loro malumore, con il secondo fine di auto-giustificare la propria fragilità e la propria impotenza. Essere fragile e impotente, in realtà, non è una colpa, è una condizione naturale dell’uomo; ma l’uomo moderno non la accetta, non ne vuole neanche sentir parlare: essendo aspirante al posto di dio, deve trovare il modo di giustificare la colpa di essere un dio così debole e impotente, dato che, per un dio, la debolezza e l’impotenza sono, in effetti, delle colpe. E questo voler incriminare dio è non solo blasfemo, ma demoniaco. Ha scritto Marco Ravera nel suo saggio Joseph De Maistre, pensatore dell’origine (Milano, Mursia, 1986, pp. 38-41):
… Questo il carattere veramente demoniaco della negazione, il non mostrarsi come tale in modo palese, l’assumere un volto di consolatrice; non il promettere: "sarete come Dio", ma il domandare, con sagace costanza: "che ve ne fate di Dio?".
Ora, la vera arma di Mefistofele, cioè di QUESTA forma del demoniaco, non è la rivolta violenta o il rifiuto ostinato e grandioso, ma il cinismo, il SARCASMO; e chi, nel "scolo dei lumi", lo ha incarnato meglio di Voltaire? Se la TEOMISIA è il "carattere distintivo del secolo XVIII" (EB, VI 262), CHI se n’è fatto portatore in modo più raffinato e compiuto di François-Marie Arouet? Ecco, e non è possibile sottrarsi a questa riflessione, il vero contrasto, l’opposizione assoluta e inconciliabile rispetto a Maistre; ma almeno un avversario ala sua altezza, un vero genio che salvo gli scopi, nulla ha in comune con la superficiale volgarità di tanti "philosophes" come Condillac, Helvétius, Lamettrie, d’Holbach "et consortes", e la cui multiforme grandezza è ripetutamente riconosciuta da Maistre stesso che un più luoghi deplora soltanto le finalità cui è stata asservita; in ogni caso, è chiaro che egli lo conosce a fondo, che ne rispetta e apprezza molte pagine (soprattutto sotto il profili estetico), che si sente di battersi ad armi pari contro un avversario la cui forza di pensiero è soltanto pari all’intensità del suo effetto devastatore.[…]
In quale senso, dunque, non incarna Voltaire la negazione assoluta e violenta o il rifiuto volgare e facilmente smascherabile proprio per la sua eccessiva virulenza, ma piuttosto si identifica con kl’inganno allo stato puro, libero da concrezioni di sorta e pertanto sottilmente e autenticamente demoniaco? La risposta di Maistre è costante ed univoca: perché ovunque, in tutti i suoi scritti e a proposito di qualsiasi questione, politica o filosofica, storica o scientifica, egli muove SEMPRE da giusti presupposti, SEMPRE conduce analisi penetranti ed acute, pensa insomma nel modo migliore e tuttavia SEMPRE conclude per l’errore (LI, III349; DP, II 251ss.); e poiché questo non può certo essergli imputato a debolezza, data la forza del suo ingegno di cui mai Maistre si sogna di dubitare (anche quando apertamente lo insulta: DP, II 252), non resta che attribuire questa costante deformità del "raisonnement" voltairiano a una lucida regia che fin dall’inizio coscientemente utilizza premesse corrette, piegandone poi impercettibilmente lo sviluppo verso conclusioni aberranti, per altro già sempre perseguite in nome di un odio "mortale e personale verso Dio" (SP, IV 210). […]
Il suo poema sul terremoto di Lisbona può certo essere frutto di una sincera commozione per quello spaventoso disastro, un pianto sulla morte di migliaia di bambini e di innocenti, su tutta la sofferenza umana nella sua impotenza contro i flagelli della natura; ma nei suoi intenti FILOSOFICI, nel suo sfruttare il dolore per la neppur troppo implicita confutazione di un pensiero, com’è quello di Leibniz, che può esser tacciato d’ingenuo ottimismo soltanto da chi non lo ha compreso che in modo del tutto superficiale, sbaglia completamente la mira e si rivela fatuo e tendenzioso, sì che in lui la meditazione sul dolore, ben al di là del rifiuto dell’"ottimismo" di marca leibniziana, , prende il volto di negazione della Provvidenza e in questa negazione si risolve. Si segua tale passaggio in quella stessa opera. Rifiuta Voltaire che il disastro sia dovuto, come alcuni vorrebbero e come anche Herder gli obietta, a leggi cieche e necessarie della natura, leggi contro cui il suo "cuore agitato" si rivolta e che non sono che "sogni dei sapienti, chimere profonde; e Maistre plaude a questo giudizio. Continua Voltaire affermando che, al contrario, tutto è determinato dalla scelta di Dio, di un Dio "libero, giusto, non implacabile"; e fin qui, aggiunge Maistre, "non sarebbe possibile dir meglio". Prosegue Voltaire, conducendo la questione all’estremo, con versi non privi di efficacia: "Purquoi donc souffrons-nous sosu un maître équitable? / Voilà le noeud fatal qu’il fallait d’élier". Ma sono proprio questi versi quelli che segnano per Maistre un completo stravolgimento della prospettiva, un "cattivo ragionamento", un "difetto d’attenzione e di analisi". Alla domanda: "perché dunque soffriamo sotto un padrone giusto?", una sola risposta è possibile: "perché lo meritiamo"; ed è questa appunto l’unica risposta che Voltaire non offre, preferendo implicitamente concludere con un rifiuto della giustizia e dell’equità di Dio, come se la bilancia che misura quell’equità e quella giustizia fosse stata posta nelle sue proprie mani (SP, IV 228). I veri e profondi, insondabili misteri del dolore, della sofferenza e della morte degli innocenti gli sfuggono completamente; tutto gli SERVE, piuttosto, per un’implicita, sottile e insinuante negazione della Provvidenza e della giustizia di Dio, e qui egli s’arresta. Dotato di un genio "creato per celebrare Dio e la virtù", ovunque Voltaire ne fa abuso e lo prostituisce intenzionalmente, sì che "nulla l’assolve"; e basta vederne l’espressione, osservando la sua statua al palazzo dell’Ermitage, per cogliere tutto il demoniaco dei suoi occhi, della sua smorfia ghignante e blasfema" (SP, IV 208-209).
Aveva ragione de Maistre. Del resto, si faccia la prova: si passino in rassegna i ritratti di Voltaire. E non solo di Voltaire, ma dei principali illuministi. La prima cosa in cui ci s’imbatte è il loro sorriso: un sorriso orribile, perché non appartiene che alla bocca; mentre gli occhi non ridono: sono fermi, immobili, gelidi, persi nella contemplazione di sé. Voltaire e gli altri sorridono, ma solo esteriormente; il vero sorriso è la manifestazione della bontà, mentre essi, imbevuti di narcisismo, non conoscono che la benevolenza, che è l’effusione dell’io incapace di relazionarsi veramente con il prossimo, perché si pone un gradino al di sopra di chiunque. Voltaire non sorride che a se stesso; non ha ammirazione che per se stesso. È talmente pieno di sé che non inorridisce a farsi ritrarre dal pittore-discepolo Jean Huber in ogni posa immaginabile, compresa la vestizione mattutina, mentre detta al suo segretario la corrispondenza, appena levato dal letto: in equilibrio su una gamba sola, mentre s’infila le brache, osceno, seminudo, con un ridicolo berretto da notte ancora in testa, il petto scoperto, le gambe secche e ossute di vecchio esposte per la gioia degli ammiratori, guardatemi, sono un così gran genio che posso mostrarmi anche in questa tenuta e in questa postura, potete solo adorarmi. Oppure si osservi il sorriso di Diderot: è quello di un imbecille; il sorriso di d’Alembert: quello di un fauno borioso, scintillante di malizia; il sorriso di La Mettrie: quello di un perfetto idiota; il sorriso di Rousseau: quello di un prete ipocrita; il sorriso di d’Holbach: quello di un vecchio debosciato; il sorriso di Condorcet: quello di un travestito; il sorriso di Hume: il più orribile di tutti, con qualcosa di animalesco, di suino, lo sguardo glaciale, da rettile, le pinne delle narici espanse, le labbra grosse e tumide, dalla sensualità bestiale. È un personaggio che non si vorrebbe incontrare per la strada; o che, incontrandolo, si cercherebbe di superare in fretta; chi mai vorrebbe rivolgergli la parola, anche solo per domandargli una indicazione? Si dirà che stiamo esagerando: ebbene, si vada a controllare.
Ma torniamo a Voltaire: perché dunque sorride, sorride sempre, e perché sorride a quel modo? Perché ha trovato la verità; o, almeno — il che, per lui, è lo stesso — ritiene d’averla trovata. Lui, e lui soltanto. Dall’alto della verità, egli guarda con ironica benevolenza ogni altro verme umano che striscia sulla terra, nelle tenebre dell’ignoranza e della superstizione. Uomini così sono pericolosi; è meglio starne alla larga. Portano disgrazia. Dicono di essere pronti a dare la vita perché chiunque possa esprimersi, ma la verità è che hanno già la torcia accesa in mano, per bruciare chiunque non la pensi come loro. Sono i bigotti della ragione, i bacchettoni dell’ateismo; invece di stare sempre in chiesa a baciar banchi, stanno allo specchio a bearsi di se stessi, e intanto inondano il mondo di proclami. I loro ragionamenti sono, alla fine, sempre sbagliati, notava de Maistre. Logico: un gran conoscitore d’anime, Fëdor Dostoevskij, diceva che l’uomo senza dio è qualcosa meno d’un insetto. Perché questo, in se stesso, è una creatura perfetta; mentre l’uomo senza Dio è un essere mancato…
Fonte dell'immagine in evidenza: RAI