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Capitalismo sano e capitalismo di rapina

Quando si dice "capitalismo", quando si parla dei pro e contro del capitalismo, quando lo si loda e quando lo si maledice, si fanno discorsi vuoti e inconcludenti, se non si precisa a quale tipo di capitalismo si allude. Non c’è un solo tipo di capitalismo, come non c’è una sola razza di cani. Ci sono i possenti e feroci rottweiler, che possono rivelarsi mortalmente pericolosi persino per la famiglia del padrone; e ci sono i minuscoli, dolcissimi chiuhauha, ai quali si può spezzare una zampetta solo afferrandoli un po’ bruscamente. Sarebbe assurdo paragonarli anche alla lontana: sono due specie talmente diverse, per dimensioni, carattere e abitudini, che solo lo zoologo riesce a vedervi una comune appartenenza; all’occhio del profano, sono due animali totalmente diversi, che suggeriscono sentimenti opposti. E così ci sono diverse specie di capitalismo, e solo i marxisti o i neomarxisti fanno ancora di tutta l’erba un fascio: come in fondo è giusto, perché gli esponenti di un pensiero politico morto e sepolto — e, oltretutto, morto con disonore e con danno — non possono capire nulla del presente, visto che già avevano capito poco del passato, quand’esso era ancor vivo e vegeto. Ad ogni modo, e per semplificare, dato che non intendiamo fare una analisi economica, ma solo delineare uno scenario economico, politico, sociale e culturale, diremo che ci sono almeno due specie di capitalismo: non già una buona e una cattiva, perché l’etica non c’entra con il capitalismo, ma piuttosto una a misura d’uomo, che favorisce il benessere dei singoli e delle comunità; e un’altra assolutamente disumana e distruttiva, perché porta all’arricchimento smisurato di un numero piccolissimo di persone o di famiglie, e ad un progressivo impoverimento di intere comunità, di interi popoli, per non parlare dei disastri che arreca all’ambiente e alle altre specie viventi.

La cultura politically correct, che, specialmente in Italia, è stata dominata costantemente dalla sinistra, ha sempre avuto un atteggiamento di rifiuto e di condanna verso qualunque forma di capitalismo, per nessun’altra ragione che il proprio astratto dogmatismo ideologico: avendo deciso che l’uomo è buono e che il popolo è buono, mentre i capitalisti sono tutti brutti e cattivi e sono tutti sfruttatori e parassiti della società, essa si è sempre condannata da se stessa all’impotenza politica, si è messa fuori gioco con le sue stesse mani, perché chi non capisce le forze vive e operanti nella società non è capace, e non è nemmeno degno, di aspirare a una funzione di governo della società medesima. In Italia specialmente, ma anche in Spagna e in Francia, meno negli altri Paesi d’Europa e niente affatto negli Stati Uniti, la mentalità marxista o neomarxista ha sempre visto nell’impresa la sua grande antagonista, e nell’impresario un nemico di classe che lo Stato deve spremere al massimo, attraverso le tasse e le imposte, per costringerlo a restituire alla società quel che le ha indebitamente sottratto, mediante il surplus del profitto non retribuito agli operai. In tal modo la cultura economica di sinistra si è connotata in senso fortemente statalista, ma di uno statalismo meramente parassitario, non dello statalismo imprenditoriale che fu proprio del fascismo o del New Deal rooseveltiano; uno statalismo che serve a mantenere in piedi una macchina burocratica enorme, con lo scopo principale di dare uno stipendio sicuro a una pletora di dipendenti pubblici largamente inefficienti, e di "blindare" il posto di lavoro di costoro, contro ogni possibilità di licenziamento, senza dedicare altrettanto zelo alla difesa dei dipendenti delle aziende private e meno ancora a quella degli interessi dei pensionati. Inutile dire che la politica di escogitare sempre nuove tasse per colpire il capitalista malvagio, magari un piccolissimo imprenditore con cinque operai in fabbrica, o un commerciante con due o tre commesse o cameriere nel negozio o nel ristorante, sortisce l’unico risultato di paralizzare le imprese, rendendole non competitive rispetto a quelle straniere; e che la politica di proteggere col catenaccio i posti di lavoro pubblici, anche se le aziende sono totalmente in passivo e anche se i dipendenti in questione meriterebbero il licenziamento per la loro scarsa produttività, serve solo a rendere sempre più costosa la macchina dello Stato, il che provoca la "necessità" di creare sempre nuove tasse e balzelli, o di caricare la benzina e altri generi indispensabili alla vita moderna di sempre nuove accise, deprimendo i consumi e castigando ancor più il commercio e l’impresa. Nelle microscopiche scatole craniche di quei signori, che hanno letto ogni scritto di Gramsci e di Bordiga, ma alla cui intelligenza fa velo un pesantissimo paraocchi ideologico, non è mai spuntata con sufficiente chiarezza l’idea che, se si soprattassano le imprese e si deprimono i consumi, si abbassa anche il tenore di vita della cosiddetta classe lavoratrice, si rendono più precari i posti di lavoro (nel settore privato) e sempre meno concorrenziali le aziende pubbliche, col risultato di mandare in blocco l’intero sistema Italia. Evidentemente, con tutta la loro dottrina, costoro non hanno mai sentito parlare dell’apologo delle mani e dello stomaco, raccontato da Menenio Agrippa ai plebei in sciopero dell’antica Roma. Nemmeno il crollo dell’Unione Sovietica e la fine della Guerra Fredda ha insegnato qualcosa a quei signori; nemmeno l’evoluzione, o l’involuzione, della Cina comunista verso il modello capitalista selvaggio: essi hanno perso il loro quadro di riferimento ideologico, ma non la loro spocchia, il loro moralismo, la loro pretesa di giudicare tutto e tutti dall’alto del tribunale della storia, senza essere mai giudicati da alcuno; comunisti senza comunismo, soldati senza bandiere e senza uniformi, non hanno smesso di odiare il capitalismo, non hanno cessato di detestare l’impresa e non hanno saputo elaborare una economia politica diversa da quella statalista, parassitaria e fiscalista, caricandola ulteriormente di rancore sociale a causa della loro delusione storica e della loro amarezza, peraltro non confessate e quindi imputridite nel profondo delle loro coscienze, senza che mai vi sia stato un accenno di onesto esame autocritico. In tale mancanza d’autocritica e in tale persistenza di un’inveterata arroganza intellettuale, intrisa di facile moralismo e pietismo pauperistico, sono stati incoraggiati dall’incontro con un altro esercito di sconfitti, che, per un insieme di ragioni storiche, si apprestavano a prendere il posto vuoto lasciato da loro, e, più abili o più fortunati, a riuscire là dove essi avevano sempre fallito: nell’acquisire e nel mantenere il potere politico a livello nazionale. Intendiamo parlare dei cattolici di sinistra, che si sono sempre sentiti sentimentalmente più vicini ai comunisti e ai socialisti, che a chiunque altro, e specialmente agli altri cattolici di diverso orientamento, o, semplicemente, ai cattolici non politicizzati: cioè a quegli strani cattolici che avevano e hanno la stranissima pretesa di considerare il Vangelo come un testo religioso e spirituale e non come un antecedente significativo, se non proprio un modello, del Manifesto di Marx ed Engels.

Ma lasciando stare le malinconiche contraddizioni e insufficienze della filosofia politica della cultura di sinistra, e tornando al nocciolo della questione su un terreno pratico e non ideologico, dobbiamo decidere quale posizione prendere rispetto alle due differenti versioni del capitalismo attuale, quello produttivo e quello speculativo, quello che crea posti di lavoro e quello che alimenta solo i già immensi profitti dell’alta finanza. È evidente che chiunque abbia a cuore il bene comune, non può che riconoscere l’utilità sociale del primo e l’estrema dannosità del secondo; per cui lo scopo dell’economia politica dovrebbe consistere nel favorire le forze positive del capitalismo e nel frenare, contrastare, inibire quelle distruttive. La politica dello Stato, perciò, invece che accanirsi con le tasse contro le piccole e medie imprese, e contro il piccolo e medio commercio, dovrebbe, al contrario, favorire al massimo queste forme di economia privata, e varare una legislazione capace d’imbrigliare e neutralizzare il dilagare dell’economia di rapina delle grandi banche e delle multinazionali, la quale, oltretutto, distruggendo la piccola e media impresa e, quindi, erodendo e impoverendo la piccola borghesia, provoca un effetto domino, che prosciuga il risparmio, fa sparire i capitali (che si rifugiano nel settore immobiliare o vanno all’estero) e crea sempre più stagnazione, recessione e depressione.

Ha scritto Edward Luttwak nel suo libro La dittatura del capitalismo (titolo originale: Turbo-Capitalism, 1998; traduzione dall’americano di A. Mazza, Milano, Mondadori, 1999, pp. 4-6):

Una forza economia potente come il capitalismo può essere controllata, sempre che ciò si riveli possibile, solo dal contrappeso del potere politico. […]

In realtà, non v’è nulla di sinistro o di perverso negli scopi perseguiti oggi dal capitalismo più avanzato. Profitto ed espansione sono sempre stati ambizioni classiche in ogni tipo di capitalismo. Non può invece essere accettato che certi metodi siano ormai eletti a normale prassi. Improvvisi licenziamenti di massa hanno sostituito forme più blande di mobilità, che potrebbero avere più o meno lo stesso costo, solo perché servono a far salire il prezzo delle azioni, magari soltanto per una giornata di forte rialzo prontamente sfruttato dai dirigenti dell’impresa in questione. Per la medesima ragione, stabilimenti in grado di dar lavorio a intere comunità vengono chiusi sena preavviso, probabilmente senza neppure tentare d’incrementarne l’efficienza. Il guadagno immediato subentra al beneficio più ampio, e a lungo termine, perché i manager sono impazienti di andare all’assalto della prossima e più alettante nicchia di settore, mentre la proprietà che dura nel tempo diviene un fenomeno sempre più raro.

In questo modo la vita dei singoli, delle famiglie, delle comunità e anche di intere regioni risulta stravolta, talora distrutta. La cruda verità delle statistiche mostra che i dipendenti licenziati non perdono soltanto il lavoro: spesso si vedono la vita abbreviata dallo stress e dall’umiliazione, talvolta ci rimettono il matrimonio, o la casa con il mutuo ancora da estinguere. Perfino le economie in piena espansione sono deturpate da città fantasma o da quartieri spettrali che hanno peso la loro principale, o magari unica, fonte di lavoro e di reddito. Un’occupazione instabile, seppure molto ben retribuita, non risulta qualitativamente paragonabile all’occupazione stabile, con le sue prospettive di avanzamento di carriera: serve a sostenere i consumi immediati, non a costruire una vita.

Nel timore di pesanti sanzioni poche imprese si azzarderebbero oggi a danneggiare l’ambiente naturale. Ma molte rovinano l’ambiente umano senza subire alcuna conseguenza. È del tutto vero che la società quotate in Borsa devono rendere conto unicamente ai propri azionisti e le chiacchiere tanto in voga sui diritti di altri partecipanti (gli "stakeholders" di Blair) non significano nulla. Le imprese non sono enti morali. Il motivo della loro esistenza è il profitto ed è normale che lo perseguano. Controllare il capitalismo è, o dovrebbe essere, compito esclusivo dei governi, per conto del cittadino che essi sono tenuti a rappresentare. È, o dovrebbe essere, somma priorità del governo trovare il modo di mantenere entro limiti accettabili la forza dirompente del capitalismo, senza con ciò minare alla base la sua eccezionale energia creativa.

Utili in linea generale, queste riflessioni non si adattano perfettamente al quadro specifico del capitalismo italiano, il quale ha sempre presentato caratteri poco originali e responsabili, proprio per la scarsa propensione della borghesia, e specialmente della grande borghesia, a fare veramente impresa (accollandosi i naturali margini di rischio), e per la sua inclinazione a puntare su relazioni clientelari con lo Stato, in modo da poter agire in regime protezionista, se non di vero e proprio monopolio. Perciò essa non si è mai allenata a confrontarsi veramente con la concorrenza, interna ed estera, né a stabilire con la società civile un rapporto di ragionevole vantaggio reciproco: investimenti e posti di lavoro in cambio di mano d’opera. La strategia adottata dalla F.I.A.T. di Marchionne, prima con le delocalizzazioni, poi con il trasferimento all’estero della sede legale e quindi dell’imponibile fiscale, ne è la prova. Fra parentesi, uno Stato serio avrebbe accondisceso a tale trasferimento solo dopo aver preteso e ottenuto la restituzione delle generosissime somme con le quali esso, attingendo alle tasche dei contribuenti, ha sovvenzionato l’azienda nel corso del tempo, permettendole di fare i suoi utili e di raggiungere quelle ragguardevoli dimensioni. Ora il pericolo è che la media e soprattutto la piccola borghesia, oberate dalle tasse, seguano il cattivo esempio: che trasferiscano i loro capitali nel settore finanziario, liberandosi delle aziende ormai improduttive, il che avrebbe ricadute immediate sui posti di lavoro e sulla già problematica "ripresa" di cui tanto si parla, da due o tre anni, e che pare sempre dietro l’angolo, specie sotto le elezioni, ma che non arriva mai. La realtà è che, dall’inizio della Grande Recessione, l’Italia ha perduto circa un terzo della sua produzione industriale e che una buona parte di queste fabbriche sono fallite, o sono state vendute, sia perché lo Stato non pagava le proprie commesse, sia perché gli imprenditori sono stati spinti a seguire la strategia su indicata. Ed é qui che lo Stato dovrebbe intervenire: non escogitando sempre nuove tasse, ma mettendo a punto strumenti legislativi per frenare la metastasi del capitalismo di rapina, che favorisce pochissimi e danneggia tutti gli altri…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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