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La doppia morale dei cattolici progressisti: ma non era un vizietto tipicamente borghese?

C’è una cosa che accomuna i cattolici progressisti, specialmente se altolocati — professori universitari, teologi rampanti, cardinali, arcivescovi e vescovi politically correct, vale a dire doverosamente e devotamente bergogliani, immigrazionisti, pauperisti, ecologisti, terzomondisti, anti-populisti e anti-tradizionalisti: il vizietto della doppia morale. Non solo essi adoperano una doppia morale quando si tratta di giudicare i loro amici e i loro nemici; ma, anche nel caso dei loro amici, usano la doppia morale, ossia distinguono fra ciò che essi fanno nella loro vita privata, e ciò che fanno in veste pubblica. Anche se si tratta di sacerdoti, per i quali la vita privata e la vita pubblica non dovrebbero presentare evidenti discrepanze, o per dir meglio, dovrebbero essere egualmente limpide e trasparenti. Ed è un vizietto che, strano a dirsi, li accomuna con quelli che essi vedono come i loro capitali nemici a livello ideologico: i ricchi, i "borghesi", i conservatori, i "benpensanti", addirittura i non meglio precisati "clericali", come li chiama, con infinito disprezzo, il misericordioso papa Francesco, supremo protettore di tutti i cattolici progressisti e modernisti.

Ma facciamo un passo alla volta. Ne avevamo già parlato in più occasioni, ma è necessario che vi torniamo sopra. Alcuni recenti fatti di cronaca segnalano l’esistenza di un grave problema all’interno della Chiesa cattolica: non il fatto che vi sono dei preti o dei religiosi indegni – questo, purtroppo, fa parte della natura umana; anche se una più attenta selezione dei futuri pastori d’anime non guasterebbe, data l’estrema delicatezza della loro funzione -, ma il fatto che per molti vescovi è più importante impegnarsi sul terreno delle attività sociali, assistenziali, umanitarie, magari con una spiccata preferenza per gli immigrati clandestini e con una minor sollecitudine verso i milioni di poveri italiani, che non accorgersi della miseria morale e spirituale che flagella, come una pestilenza, le loro diocesi e le loro parrocchie. Malati d’ideologia, e si sa di quale ideologia si tratta: una ideologia morta e sepolta ovunque, a causa dei suoi stessi fallimenti, oltre che dei crimini di cui si è macchiata, ma ancora viva nell’animo di molti, troppi vescovi e cardinali, e di moltissimi sacerdoti, tanto da fare velo ai loro occhi di fronte a una realtà evidente: la grande povertà di cui deve occuparsi il cristiano, oggi come ieri, o come domani, non è, o non è principalmente, o  non è solo, quella economica, quanto piuttosto quella morale e spirituale. Un cristiano che non ha capito questo, ha capito poco del Vangelo: ha scambiato Gesù Cristo per un Che Guevara ante litteram, e la Bibbia per Il Capitale di Marx. Perciò può succedere che un vescovo dichiari di essere pronto a far sparire i simboli cristiani pur di stare in  buone relazioni con gli islamici, e se ne vada a visitare i missionari dell’America Latina mentre la sua diocesi è sull’orlo di un vulcano per un gravissimo scandalo di tipo morale, del quale non si era accorto, o, peggio, del quale era informato, ma rispetto al quale aveva deciso di non fare assolutamente nulla. Ci riferiamo, ovviamente, alla vicenda, squallida oltre ogni limite di ciò che umanamente è sopportabile, di don Andrea Contin, parroco di San Lazzaro a Padova, e degli altri sacerdoti che, per ammissione di questi, sono coinvolti nel suo giro di orge a base di  sesso estremo. Ma ci riferiamo anche a quell’altro scandalo, del quale si parla meno, del figlio del pluriomicida mafioso, condannato a diversi ergastoli, Totò Riina, anche lui condannato per reati di mafia e obbligato a risiedere lontano da Corleone, che ha scelto di stabilirsi a Padova e che se n’è andato tranquillamente a far da padrino di Battesimo a sua nipote. Per fare il padrino di Battesimo, bisogna essere cresimati e, inoltre, bisogna possedere dei requisiti morali minimi. Ora quel certo vescovo fa l’indignato, dice che è scandaloso che il giovanotto – il quale ha da poco pubblicato un libro per esaltare la propria famiglia – abbia potuto recarsi in Sicilia per fare da padrino alla nipotina. Ma chi gli ha rilasciato l’attestato di idoneità, oltre alla diocesi siciliana, è stata proprio quella di Padova. Di che cosa si indigna, dunque, monsignor Cipolla? È stato un prete della sua diocesi a farlo: dicendo che il giovane Riina ha seguito un percorso di preparazione alla Cresima. Tutto a posto, dunque? No di certo: ma quel prete che ha rilasciato l’attestato non ha agito molto diversamente dal suo vescovo, quando, davanti alle accuse che due parrocchiane di don Contin erano venute a fargli, ha risposto loro di andare dal magistrato. Entrambi si son lavate le mani, il prete e il suo vescovo; entrambi hanno scaricato ad altri la patata bollente, fuggendo dalle proprie responsabilità.

La miseria morale non è meno grave di quella materiale, anche se è diversa, ed è tipica delle società consumiste, dominate dall’edonismo, dalla solitudine, dall’indifferenza verso la persona. È già abbastanza grave che un lupo travestito da pastore, come don Contin, sia diventato parroco e lo sia stato per anni, senza che nessuno di coloro che lo hanno formato come sacerdote, e che poi lo hanno consacrato, si fosse accorto del suo lato oscuro; ma è anche più grave che egli abbia potuto sedurre e spingere all’estrema degradazione non poche delle sue parrocchiane – si parla di molte donne, forse quindici, forse di più ancora -, spacciandosi per loro consolatore e direttore spirituale, e soggiogandole psicologicamente fino al punto di distruggere in loro ogni senso di dignità, da spingerle a concedersi ad altri uomini, che, guarda caso, erano dei preti. Vedove o donne dai matrimoni infelici, che cercavano una parola di conforto e hanno trovato sulla loro strada un libertino assatanato, che ha profittato della loro confusione per farne delle schiave sessuali o qualcosa del genere: non è autentica e desolante povertà, questa, sul piano umano Ed è una povertà, secondo noi, perfino più drammatica di quella fisica: perché qui non si tratta di dare un piatto di minestra o di trovare un posto di lavoro a qualcuno che l’ha perso; qui si tratta di rifare una coscienza distrutta, di ricostruire una dignità scomparsa, di rifondare dei valori morali che sono andati completamente smarriti. Ed è difficile dire se lo smarrimento più grave sia stato quello del prete dissoluto, o dei suoi amici, o delle sue amanti/vittime, le quali subivano ogni sorta di umiliazioni e persino di violenze fisiche, cercando così, disperatamente, di esorcizzare o di annegare la loro frustrazione e la loro angoscia esistenziale. Di questa frustrazione e di questa angoscia, nei suoi aspetti patologici e specifici, dovrebbe occuparsi, forse, lo psichiatra; ma, nei suoi aspetti generali e morali, è dovere del pastore d’anime: cioè del sacerdote e di chi assiste, dirige e consiglia il sacerdote, cioè il vescovo. Un vescovo che parla con i suoi sacerdoti, che dimostra amicizia verso di loro, che si mostra disponibile ad ascoltarli e consigliarli (con chi può parlare, oggi, un prete, nella sua grande solitudine, se non col proprio vescovo?), è un pastore che ha compreso quale sia la sua vera missione: salvare le anime, indirizzare le anime, aiutare spiritualmente le anime. Ma se tutto quel che sa fare il vescovo è dire a quelle donne di andare dal magistrato; se non parla col prete traviato, né prima, né dopo che lo scandalo sia scoppiato; se lascia che le cose vadano avanti sino alla catastrofe, e intanto fa i suoi viaggi pastorali fra gli "ultimi" che vivono dall’altra parte del mondo, vuol dire che non ha capito dove stanno di casa gli "ultimi", né quale sia la sua autentica missione. E questo perché la sua mente è ingombra di ideologia: una ideologia laica, secolarizzata, immanentista, che non dovrebbe essere quella, non diciamo di un vescovo, ma neanche del più umile sacerdote, diacono o collaboratore pastorale. 

L’errore dei cattolici progressisti, dei teologi della liberazione e dei preti e vescovi modernisti, è di credere che la vera fedeltà al Vangelo si concretizzi in qualcosa di molto simile alla lotta di classe; che il povero abbia sempre ragione, e che le sue ragioni vadano difese in linea di principio, anche se, a ben guardare, si scopre che ha torto marcio; e che la cosa più importante che debba fare chi annunzia il Vangelo sia quella di salire sulle barricate, fustigare l’egoismo dei ricchi, incitare gli oppressi alla riscossa, ignorando l’antica e sempiterna verità: che la vera battaglia non si combatte fra i "buoni" ( guarda caso, sempre e solo i poveri, ma in senso meramente economico) e i "cattivi" (cioè i ricchi), ma all’interno del cuore dell’uomo; perché il bene e il male, la generosità e l’egoismo, la giustizia e la malvagità, sono presenti in ciascuno di noi; e, forse, quelli che hanno più bisogno d’aiuto, oggi, non solo tanto i poveri in senso materiali, dei quali già si occupano svariate istituzioni, pubbliche e private, ma i poveri in senso morale e spirituale: persone alla sbando, senza più valori, senza più certezze, senza punti di riferimento, senza modelli autorevoli e credibili da seguire; persone che la civiltà moderna illude, inganna e poi abbandona, tradisce, delude, espone alla disperazione. È di questi nuovi poveri che devono occuparsi i sacerdoti, oggi, con il sostegno affettuoso e intelligente dei loro vescovi. Ora, per esempio, monsignor Cipolla, nella sua conferenza stampa, ha detto di esser pronto ad assistere don Contin per quanto possibile, perché, anche se sospeso a divinis, è pur sempre un sacerdote, un cristiano in difficoltà. Ma non crede che sia un po’ tardi, caro monsignore? Non le sembra che avrebbe dovuto parlare prima, con quel sacerdote in difficoltà, che causava tanto male al gregge a lui affidato? Ma lei, quel male, non ha saputo vederlo nemmeno dopo; non lo vede nemmeno adesso. In quella stessa conferenza stampa, ha voluto ricordare e sottolineare che don Contin, come parroco, godeva della stima e dell’apprezzamento dei suoi parrocchiani. No, monsignore: davvero lei, parlando a quel modo, ha mostrato di non aver capito niente. Lei ha detto, testualmente, che don Contin "era stimato, in parrocchia, per le sue indicazioni pastorali e per le sue riflessioni spirituali". Ma la gente della parrocchia, e lei stesso, non lo vedevate andarsene in giro con il macchinone, spendere e spandere nei migliori alberghi, sempre accompagnato da donne? Inoltre lei ha voluto fare una difesa d’ufficio preventiva di don Roberto Cavazzana, tirato in ballo dallo stesso Contin quale compagno di orge, con il miserabile argomento che non sono emerse (finora) responsabilità penali, e che il suo ruolo era subordinato, rispetto a quello del collega. Ma lei si sente quando parla, monsignore? Sta forse dicendo che farsi filmare, mentre ci si abbandona alle orge, è cosa meno grave che stare dietro la telecamera, a parità di tutto il resto? Ma si accorge fino a che punto lei sta offendendo il buon senso di chi l’ascolta e fino a che punto sta trascinando ancor più in basso, se possibile, con la sua goffa e meschina linea difensiva, la credibilità e la santità della diocesi che le era stata affidata? Uno come don don Contin non può essere, in alcun modo, un bravo parroco; perché, per un sacerdote, è impossibile separare la vita privata dalla vita pubblica, e contraddire nella vita privata i valori annunciati dal pulpito. Un sacerdote, per essere credibile, deve essere in grazia di Dio: ma questo, oggi, nei seminari, non lo insegnano più? Un impiegato comunale può anche essere un porcello nella sua vita privata, e tuttavia svolgere bene la sua professione: anche se perfino ai dipendenti pubblici, un tempo, lo Stato richiedeva un certo livello di moralità, perché, in qualche modo, essi rappresentano le istituzioni. Un ufficiale poteva essere obbligato a dare le dimissioni dall’esercito, se la sua vita privata diventava occasione di pubblico scandalo, o anche solo di pettegolezzi indiscreti. Ma un sacerdote, caro monsignore – dobbiamo spiegarglielo noi, che siamo laici — il perché non può passare per un buon parroco, se si comporta, nella sfera privata, come faceva don Contin? E poi, che razza di distinzione gesuitica è mai questa? Don Contin sfruttava l’abito sacerdotale per adescare le sue prede, poi le teneva in pugno con delle strane teorie circa il peccato e la misericordia di Dio: perciò non solo è impossibile che si tengano separate, nel suo caso, le due cose, ma sarebbe sbagliato e immorale farlo, quand’anche lo si potesse. E poi, si è dimenticato che costui faceva le sue porcherie nei locali della parrocchia, che aveva trasformato in un bordello di tipo sadomasochista? Gli uomini elle forze dell’ordine, quando sono entrati a perquisirle, non riuscivano a credere ai loro occhi. Era proprio necessario che lei, preventivamente informato di quel che bolliva in pentola, lasciasse che le cose arrivassero a quel punto, e che il mondo venisse a sapere quanto vergognose fossero le cose che accadevano in quella parrocchia? E se la parrocchia viene degradata fino a questo punto, come si può dire che don Contin era, a suo modo, un buon parroco? Bisognava avere il coraggio, invece, di dire a quei parrocchiani che seguitano a difenderlo e a parlarne bene, che sono completamente fuori strada, che non hanno capito nulla del Vangelo, e che, se davvero piaceva loro quel parroco, allora sono davvero degni di non avere un pastore di un altro livello morale. Ma lei, un discorso così, non ha il fegato per farlo; perché lei, come tutti i vescovi progressisti della "scuderia" di Bergoglio, pensa che il suo mestiere consista nel dare ragione al "popolo", sempre e comunque, perché il popolo, nella vostra ideologia distorta, è più o meno la stessa cosa dei "poveri", che amate tanto (specie se stranieri; meno se nostrani); e poco importa se i poveri di cui parlava Gesù non erano tanto i poveri in senso fisico, ma soprattutto in senso morale, cioè quanti sono lontani da Dio. E chi è più lontano da Dio di questi preti depravati, insieme ai loro parrocchiani dalla manica larga?

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Mike Chai from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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