
Quelle strane, folgoranti carriere all’ombra del Club Bilderberg
29 Gennaio 2017
Come può la testuggine franca seguire la rotta, senza errori, dal Brasile all’isola Ascensione?
30 Gennaio 2017Dal giornalista tedesco Udo Ulfkotte, già redattore della Frankfurter Allgemeine Zeritung, abbiamo appreso, nel 2014, che lui stesso, insieme a chissà quanti suoi colleghi, in Germania e altrove, era letteralmente al soldo dei servizi segreti statunitensi, col compito di presentare la politica americana nella luce più favorevole, ricevendo fino a 20.000 dollari per tale servigio. Il suo libro Giornalisti comprati ha fatto scandalo, ma è stato rapidamente insabbiato e, di fatto, la portata delle sue rivelazioni non ha mai raggiunto la coscienza della grande massa dei lettori: è come se quella confessione, insieme alle sue evidenti conseguenze, benché sia entrata nel circuito mediatico, non avesse realmente raggiunto la coscienza dei lettori; è come se fosse semplicemente rimbalzata contro un muro di gomma e non fosse stata assimilata realmente dall’opinione pubblica. E allora giova ripeterlo: decine di giornalisti tedeschi, ma anche italiani, sono stati, per anni ed anni, al soldo della C.I.A., e da essa hanno ricevuto ingenti possibilità di fare carriera, conquistarsi una posizione, consolidare una reputazione autorevole, raggiungere la direzione di giornali, riviste e telegiornali. Ciò significa che esiste una intera classe d’intellettuali e di specialisti dell’informazione che hanno fatto il lavaggio del cervello ai propri connazionali, al servizio di una potenza straniera, acquisendo vantaggi per diffondere una concezione geopolitica e culturale che ha penalizzato gli interessi delle nazioni europee, per favorire quelli degli Stati Uniti d’America.
Ora, sappiamo con altrettanta certezza che, durante l’intera durata della Guerra Fredda, anche l’Unione Sovietica ha finanziato i partiti comunisti europei e quindi, direttamente o indirettamente, pure i giornalisti e gl’intellettuali dell’area comunista. Ne consegue che anche l’altra metà dell’intellighenzia europea, o che passava per tale, era, letteralmente e semplicemente, tenuta a libro paga da una superpotenza esterna; anch’essa, per alcuni decenni, ha svolto un’opera di disinformazione e di persuasione occulta, metodica, sistematica, implacabile, e, bisogna pur dirlo, coronata da un notevole successo, visto che è riuscita nell’impresa non proprio semplicissima di far sì che la reputazione storica e morale della "Patria dei lavoratori", con tutti i suoi miti di cartapesta, e con tutti i suoi scheletri nell’armadio, resistesse almeno fino al 1968, ma, per molti aspetti, anche in seguito, e, presso una certa fascia di opinione pubblica, addirittura fino alla stagione estrema, quella della Perestojka gorbacioviana. A dispetto dei gulag, delle deportazioni forzate, delle purghe, del clima poliziesco e dei sistemi terroristici, l’Unione Sovietica ha conservato a lungo la fama di nazione amica del proletariato di tutto il mondo; mentre gli intellettuali russi che, sfuggiti ai campi di concentramento, raccontavano la verità, come nel caso di Alexandr Solženicyn, non venivano creduti, e, peggio, venivano descritti e percepiti come dei biechi agenti del capitalismo occidentale, animati da oscuri interessi e da inconfessabili rancori.
L’Italia era, allo stesso tempo, il Paese della N.A.T.O. più prono ai voleri americani, e quello con il più grosso partito comunista: pertanto si può bene immaginare quale fosse il grado di autonomia e di onestà intellettuale della gran parte dei nostri scrittori e giornalisti, equamente divisi fra la fedeltà atlantica e quella sovietica e generosamente sovvenzionati dai servizi segreti delle due superpotenze per fare il lavaggio del cervello ai loro sventurati lettori. Ma non basta. Il fatto è che la tradizione di vendersi a un padrone straniero precede, in Italia, la Guerra Fredda: risale ad assai prima, e, in particolare, alla prima metà del Novecento. In quel caso, il padrone occulto era costituito dai servizi segreti della Germania, della Francia, della Gran Bretagna: ciascuna di queste potenze aveva la sua rete di entrature e di amicizie negli ambienti del giornalismo italiano, e ciascuna teneva a libro paga una quota dei nostri baldi professionisti della disinformazione. Intendiamoci: tutto questo rientra nel normale ordine delle cose; da quando esiste una stampa capace di influenzare l’opinione pubblica, esistono coloro i quali cercano di controllarla, e le grandi potenze hanno sempre infiltrato la stampa degli altri Paesi per assicurarsi posizioni di vantaggio.
Quel che è un po’ meno normale è costituito, nel caso dell’Italia, da due fatti. Il primo è la propensione degli intellettuali italiani a parlar male del loro Paese e a lodare esageratamente i Paesi stranieri: cosa che ne fa dei candidati ideali al tristo ruolo di servi dei servizi stranieri e di lacchè del capitale finanziario internazionale. In nessun altro Paese si trova una così larga disponibilità a denigrare la propria patria e a esaltare fino alle stelle la patria altrui; in nessun altro Paese la pratica, invero spregevole, di ricevere denaro e favori da mani straniere per servire gl’interessi stranieri, contro quelli nazionali, appare così largamente diffusa e così "naturale", perfino "innocente". Anche negli altri Stati esiste un certo numero d’individui abietti che si mettono al servizio d’interessi stranieri e contro quelli del proprio Paese, ma, in linea di massima, si tratta di elementi che sanno benissimo quello che fanno, vale a dire che sanno di essere null’altro che dei traditori prezzolati, e, di conseguenza, badano unicamente a vendere a buon prezzo i loro servigi. In Italia, invece, un giornalista che riceve denaro e favori dai servizi segreti di una potenza straniera, di solito attraverso il paravento di una qualche associazione "culturale" di detta potenza (ma si tratta di un trucco che non dovrebbe ingannare nessuno, tanto meno chi nel giornalismo ci lavora) non ritiene di fare nulla di male, anzi, non è affatto improbabile che pensi di svolgere una funzione utile, se non proprio nobile, perché favorisce una "presa di coscienza" dei propri connazionali sulle miserie e le imperfezioni del sistema Italia, mentre addita loro la via per emendarsi, cioè l’imitazione e la subordinazione al modello straniero in questione.
Che si tratti, invece, di puro e semplice tradimento della propria Patria, risulta evidente se si considera quei signori hanno praticato le loro abitudini mercenarie anche, e soprattutto, in tempo di guerra: e ci riferiamo sia alla Prima che alla Seconda guerra mondiale, allorché si trattava di questioni relative alla sopravivenza stessa della nazione. Nel caso della Seconda guerra mondiale, esisteva una nutrita schiera di giornalisti filo-inglesi (come esisteva una nutrita schiera di generali e ammiragli filo-inglesi, nonché di uomini politici in camicia nera, altrettanto filo-inglesi) i quali, fin dal 10 giugno del 1940, hanno fatto del loro meglio per favorire la vittoria alleata e quindi, non occorre essere dei geni per capirlo, per favorire la sconfitta dell’Italia. In tale frangente, essi avevano, se antifascisti, o meglio segretamente antifascisti, l’alibi morale di favorire la caduta del tiranno e di aprire alla Patria le magnifiche sorti della democrazia; se fascisti, avevano l’alibi di aver capito l’errore fatto da Mussolini schierandosi con Hitler, e di voler salvare, così, quanto del fascismo stesso era salvabile. Tale, ad esempio, fu, oggettivamente, la linea di Dino Grandi, di Giuseppe Bottai e di Galeazzo Ciano: i principali artefici della congiura del 25 luglio 1943, che provocò la caduta di Mussolini e del fascismo. E che tradimento vi sia stato, ossia azione consapevole volta a pugnalare nella schiena i fanti, i marinai e gli aviatori che combattevano ed esponevano la vita dalle pianure del Don alle vaste distese dell’Oceano Atlantico, lo prova l’infamante articolo 16 del Trattato di Pace di Parigi, che proibiva alle autorità italiane di perseguire quanti, sin dal 10 giugno 1940, cioè sin dal primo giorno di guerra — e non, come vorrebbe la leggenda resistenziale, solo quando la sconfitta dell’Asse apparve inevitabile, cioè dopo El Alamein e Stalingrado — si erano adoperati per la causa alleata. Ovvero, quanti si erano spregevolmente adoperati per la sconfitta della loro Patria.
La seconda cosa che non è affatto normale è che all’opinione pubblica sia stato fatto credere che, dopo il 1945, il problema dell’infiltrazione degli interessi stranieri nelle pieghe dell’informazione e della cultura italiana non ci fosse più, se non, casomai, da parte dell’Unione Sovietica: con la motivazione che l’Italia, divenuta una democrazia, era adesso in perfetta sintonia con le altre democrazie occidentali, e che, in quanto alleata degli Stati Uniti e della Gran Bretagna (mentre non era affatto una alleata, ma l’ex nemica vinta e umiliata, e divenuta un loro protettorato), il problema non si poneva nemmeno. Di più: venne avvalorata la favola che, nel clima democratico delle Nazioni Unite, la guerra era stata bandita dal vocabolario e dai pensieri di tutte le potenze occidentali, e restava, semmai, solo nelle rozze menti e nel truculento vocabolario dei marxisti e dell’Unione Sovietica. Non si disse agli Italiani una verità essenziale: che, nella politica internazionale, non esiste la parola "amicizia", e che nessuno si fida di nessuno, anzi, che tutti cercano di sopraffare tutti; che, in particolare, le stesse potenze anglosassoni che avevano voluto eliminare l’Italia, nella Seconda guerra mondiale, dal novero delle grandi potenze, continuavano a tenerla d’occhio, per essere sicuri che non risorgesse e non creasse loro alcun fastidio — pur privata delle colonie e della flotta, mutilata nel suo stesso territorio nazionale, prostrata materialmente e moralmente -, ad esempio sul terreno economico. Sul quale terreno economico, la Seconda guerra mondiale non è mai finita: è semplicemente continuata con altri mezzi. E, su quel terreno, l’Italia ha continuato ad essere guardata con sospetto, gelosia e disprezzo sia dalla Francia, sua rancorosa rivale, sia dagli Stati Uniti, padroni strapotenti, e a loro modo "generosi", sia, soprattutto, dalla Perfida Albione: la quale conservava tutte le ragioni di astio e malvolere nei confronti del nostro Paese, ragioni che nemmeno la catastrofica sconfitta del 1943-45 avevano fatto venir meno.
La Gran Bretagna continuava a vedere nell’Italia una potenziale rivale nel Mediterraneo, nell’area dei Paesi arabi, nello sfruttamento delle risorse petrolifere mediorientali; e quando Enrico Mattei dimostrò un dinamismo e una fierezza da vero uomo di Stato, proprio nel settore vitale delle fonti energetiche, la Gran Bretagna, che continuava a considerarsi una grande potenza mondiale, e che considerava come cosa sua tutti i giacimenti petroliferi del mondo, compresi quelli iraniani e iracheni, sui quali Mattei aveva posto lo sguardo (e le mani), se ne risentì moltissimo e fece di tutto per sabotare gli sforzi italiani volti ad acquisire l’autonomia nella disponibilità delle fonti di energia. L’autonomia energetica, infatti, è la premessa dell’autonomia politica: e l’obiettivo della Gran Bretagna era che l’Italia non risorgesse mai più al rango di potenza, e nemmeno a quella di vero e proprio Stato sovrano: doveva restare in condizioni di dipendenza energetica, per poter essere meglio manovrata politicamente. Basta leggere i discorsi ufficiali di Anthony Eden al Parlamento britannico nel corso degli anni Cinquanta per convincersi che la linea anti-italiana, da costui promossa fin agli anni Trenta, al tempo della guerra d’Etiopia e delle sanzioni contro il nostro Paese, rimase una delle costanti della politica estera britannica. L’Italia non doveva fare ombra in alcun modo all’egemonia inglese nel Medio Oriente, e specialmente nel settore dei rifornimenti petroliferi. Anche gli Stati Uniti, a un certo puto, furono infastiditi dalla politica di Mattei, ma l’avversione e la iattanza britannica furono di gran lunga maggiori. L’Italia ricevette diversi avvertimenti semiufficiali affinché il suo troppo solerte servitore cambiasse modo di trattare gli affari petroliferi con i Paesi arabi e con l’Iran. E la cosa triste è che una parte del mondo politico italiano, infeudata agl’interessi anglosassoni, fece sponda a tali ultimatum; in particolare, il ministro degli Esteri, Gaetano Martino, arrivò a minacciare Mattei se non avesse modificato la sua strategia petrolifera, che danneggiava gli "amici" inglesi.
Ebbene, quel che l’opinione pubblica italiana, nel suo complesso, ignora, è che molti giornalisti italiani furono, negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, letteralmente al soldo dei servizi britannici, magari dietro la copertura di una istituzione apparentemente innocente, che si chiamava I.r.d., Information Research Department. In un certo senso, quest’ultimo era una sorta di prolungamento del Pwb, l’Ufficio per la Propaganda e la Guerra Psicologia degli Alleati, creato durante la Seconda guerra mondiale e molto attivo in Italia nel 1943-1945. Si trattava di fare in modo che i giornalisti e gli scrittori "anglofili" moltiplicassero i loro servizi per presentare la Gran Bretagna sotto una luce sempre favorevole, il tutto con la copertura della necessità di fronteggiare il comunismo e di prevenire una conquista del potere da parte del P.C.I. Carriere eccellenti sono sbocciate sotto l’ala protettiva dell’I.r.d., e gli Italiani non seppero cosa ci fosse dietro i trionfi letterari di giornalisti e saggisti come Renato Mieli, padre di Paolo, o di Luigi Barzini junior, il cui celebre volume The Italians (stesura originale in lingua inglese) non è che una lunga e deliberata auto-denigrazione dell’Italia, in pro delle splendide democrazie anglosassoni. Di queste cose si può trovare documentazione nell’ottimo libro di Mario José Cereghino e Giovanni Fasanella, Il golpe inglese (Chaiarelettere, 2011), al quale si può aggiungere il saggio di Frances Stonor Saunders, La guerra fredda cultuale. La Cia e il mondo delle lettere e delle arti (Fazi, 2004). Forse, dopotutto, non sbagliava troppo un fascista onesto e coraggioso come Berto Ricci, che, nella sua ultima lettera prima di morire al fronte, sulle sabbie libiche, scriveva ch’era giunta l’ora di farla finita non solo con gl’Inglesi, ma con tutti gli "inglesi" d’Italia. E la cosa più triste è che oggi siedono in cattedra, a pontificare solenni, proprio i figli, ideali o naturali, di quella discutibile generazione d’intellettuali…
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