
Siamo fermi al problema di un secolo fa: l’Europa è rimasta senza una morale
27 Gennaio 2017
Boldrini, Galantino e & C. pretendono che mangiamo questa minestra, e diciamo che è ottima
28 Gennaio 2017La vita dell’Italia come nazione indipendente e come Stato sovrano è stata molto breve: dal 17 marzo 1861 all’8 settembre 1943: ottantadue anni appena. Dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945 è stata spaccata in due metà, nessuna delle quali realmente indipendente; dopo il 25 aprile del 1945, ha ritrovato formalmente l’unità e anche la libertà, ma, in effetti, è uscita di scena non solo come grande potenza, quale in effetti era diventata, ma anche semplicemente come nazione indipendente. L’ingresso nell’Unione Europea e l’adozione dell’euro, ossia la rinuncia alla sovranità monetaria, non sono stati che i logici corollari di quel fatto che contraddistingue, sin dalla nascita, la vita della Repubblica Italiana: la sua natura di compagine statale a sovranità limitata. E ciò non deriva solo dalla presenza militare americana, o dall’ingresso nella N.A.T.O., e nemmeno dalla dipendenza dalla grande finanza internazionale, e, da ultimo, dalla Banca Centrale Europea. La causa prima è determinata dalla presenza di una classe politica di traditori e di venduti, ossia di elementi anti-nazionali, al governo del Paese. Certo, imposti dalle baionette del vincitore dell’ultima guerra mondiale, ossia gli Stati Uniti e la Gran Bretagna; ai quali si è aggiunto un ulteriore vincitore, lo Stato d’Israele, che è riuscito ad imporre la sua volontà su tutto il mondo o quasi, Italia compresa; e la commemorazione obbligatoria del genocidio degli ebrei, il 27 gennaio di ogni anno, con tanto di film e altri programmi sul tema, praticamente a reti unificate, come se andasse in onda il discorso di fine d’anno del Presidente della Repubblica, ne è una dimostrazione eloquente.
I traditori e i venduti sono andati al potere sulla spinta dell’esercito anglo-americano e sui mucchi di cadaveri ammazzati dalla gloriosa resistenza, nei giorni di Caino: quelli dell’aprile, del maggio e del giugno 1945, con un lungo e sanguinoso strascico durato un altro paio d’anni almeno. Parliamo di qualche decina di migliaia di persone stuprate, torturate, ammazzate e infoibate nei giorni, nelle settimane e nei mesi successivi alla conclusione del conflitto; persone che indossavano l’uniforme della Repubblica Sociale e che si erano arrese; ma anche persone che non indossavano alcuna uniforme, perché erano civili, maestre elementari, studentesse, parenti di qualche fascista o ritenuto tale, collaborazionisti veri o inventati. Spariti in qualche crepaccio, in qualche grotta, in qualche fiume, senza lasciare traccia: nemmeno una tomba dove deporre un fiore. I venduti e i traditori venivano in gran parte dal fuoriuscitismo: gente che aveva lasciato l’Italia e che aveva covato per molti anni il rancore verso il fascismo e la brama di vendicarsi, al prezzo di una guerra civile (oggi in Spagna, domani in Italia). Nel 1945 ebbero le porte aperte: al seguito dei vincitori, come dei lacchè; e ricevettero i gradi di caporali, per governare un Paese vinto e umiliato in conto terzi. Venivano da Parigi, soprattutto; altri da New York; qualcuno da Londra. Qualcuno veniva perfino dall’Unione Sovietica, ed era stato al calduccio presso il trono di Stalin, mentre migliaia di altri, compresi diversi comunisti fuggiti dall’Italia fascista, avevano trovato la morte nei gulag).
Non erano tutti dei traditori e dei lacchè; alcuni, anzi, erano stati dei dignitosi oppositori della dittatura fascista, ed erano vissuti poveri, in coerenza con le loro idee. Nel momento in cui tornarono, però, e accettarono di assumere la direzione dei partiti e del Paese, o meglio, brigarono per riuscirci, e per ottenere più potere possibile, si qualificarono come tali: perché sapevano benissimo di essere solo i lacchè dei vincitori, e perché sapevano benissimo che l’interesse e il volere dei vincitori erano che l’Italia rimanesse nelle condizioni di uno Stato vassallo, di un protettorato. Dunque, accettando il potere in quelle condizioni, sottoscrissero il tradimento nei confronti dell’interesse nazionale. La distinzione fra chi spinse il suo servilismo, come Togliatti, fino a voler offrire Trieste al maresciallo Tito, e chi tentò di salvare il salvabile, barcamenandosi alla meno peggio, è più di forma che di sostanza: nella sostanza, quella era la minestra da magiare, e chi sedette a quel tavolo, accettava, automaticamente, di mangiarsela e di farla mangiare agli italiani. Un po’ quello che stanno facendo i nostri governanti dal 2011, i vari Monti, Letta, Renzi e Gentiloni, i quali hanno fatto e fanno del loro meglio per convincere il popolo italiano che non si può fare altro che subire, subire sempre tutti i diktat di Bruxelles, il ricatto dello spread, le bacchettate della Merkel, le minacce di Schäuble, i rimbrotti di Moscovici; e, naturalmente, l’augusta volontà di Washington, nonché i desiderata di Tel Aviv.
Non si tratta di coincidenze o di corsi e ricorsi storici: il fatto è assai più semplice. Il potere, in Italia, è sempre stato spartito nella greppia dei partiti, un tanto a te, un tanto a me; e, insieme al potere politico, il controllo delle risorse, dei servizi pubblici, di tutta l’immensa mangiatoia di uno stato sociale che è, nello stesso tempo, uno dei più dispendiosi al mondo, e dei più inefficienti, per non dire, semplicemente, dei più corrotti. I partiti italiani, dal 1945 ad oggi, sono rimasti gli stessi; hanno cambiato nome, hanno cambiato il pelo, mai il vizio; le persone sono sempre le stesse (Napolitano, per esempio), o sono i figli e i nipoti, politicamente e, spesso, anche biologicamente, di quelli; in ogni caso, si trasmettono l’un l’altro non solo il potere, ma anche le aderenze, più o meno massoniche, le amicizie, le raccomandazioni, le consorterie, i feudi, i bacini elettorali, le mafie e le camorre e tutto il resto: si trasmettono tutto quel che c’è da trasmettersi in regime feudale. Una sola cosa è indispensabile, per restare dentro la casta (entrarvi, dall’esterno, è quasi impossibile: e, se qualcuno ci riesce, si provoca un bello scandalo o due, si fa intervenire la magistratura ad orologeria; e il gioco è fatto, l’intruso viene sollecitamente estromesso): giurare e mantenere ferrea obbedienza ai poteri forti. Che non sono in Italia: sono fuori. Sono A Washington, a Tel Aviv, e ora anche a Bruxelles. Ecco perché i nostro governanti sono, tecnicamente parlando, dei traditori: perché governano il Paese contro i suoi interessi e per conto degli interessi altrui. Politicamente, finanziariamente, economicamente, persino culturalmente. Sì, culturalmente: qualcuno sa spiegare come mai, sulla televisione di Stato, continuano ad andare in onda migliaia di filmetti e di telefilm americani, quasi tutti polizieschi di serie c, mentre si vedono così raramente produzioni nazionali? Vi sono dei canali, come Raidue, che esistono in funzione dello smaltimento delle scorte di magazzino del cinema e della televisione americani. Se proprio non si vuole sostituire quella spazzatura con dei film o telefilm italiani, non ce ne sono di indiani, colombiani, cinesi, russi, polacchi, finlandesi? E non costerebbero di meno? Forse, sarebbero perfino un po’ meno idioti, un po’ meno ripugnanti. Ma no: bisogna smaltire le schifezze del padrone; tanto, paga il contribuente italiano, un somaro abituato a portar pesi. Così come l’aviazione italiana deve acquistare i difettosi e carissimi aerei made in USA. Da qui non si scappa: si può discutere sui dettagli, sui pagamenti rateali, ma non sulla sostanza: la sostanza è che una classe politica di servi non ha margini di manovra, è tenuta al guinzaglio e deve abbaiare o andare a cuccia a comando.
Questi lacchè, per definizione, non sanno cosa siano la fierezza, l’orgoglio e l’onore nazionali. Lo si è visto cento volte: nel caso dei due marò, in quello del rapimento della moglie e della figlia di un dissidente kazaco, in quello dell’estradizione negata di Cesare Battisti; chiunque li può prendere a schiaffi, non fanno una piega: l’India, il Brasile, perfino il Kazakistan. Figuriamoci se a far la voce grossa sono i padroni di Bruxelles: del resto, raramente ne hanno bisogno. Gli unici soprassalti (finti) di dignità saltano fuori in campagna elettorale: per conquistarsi qualche preferenza in più, le pecore nostrane si mettono talvolta ad azzardare un ruggito. Poi passano le elezioni, si forma un nuovo governo (magari fotocopia del vecchio) e i lacchè si presentano a Bruxelles, a Washington, a Tel Aviv a prendere ordini, col cappello in mano. I poteri forti hanno deciso di completare l’opera iniziata nel 1940: distruggere l’Italia, farla sparire come grande potenza, anche solo a livello economico (prima della crisi del 2007 era al quinto o quarto posto, non dimentichiamolo). E non stupiamoci se la ripresa non arriva, se abbiamo dato addio a un terzo della nostra produzione industriale, se ci ritroviamo con un debito in crescita inarrestabile: con questa classe politica di servi, sarà sempre così, e anche peggio. Ribadiamo il concetto: l’azione dei nostri uomini politici consiste nel fare gli interessi dei padroni esteri, mica i nostri: sono stati messi lì per quello.
La cosa, dicevamo, ha avuto inizio nel 1945, con il trionfale ritorno dei fuoriusciti: gente mediocre, inetta, ma, in compenso, piena di livore e di ambizioni. Assetati di rivalsa e di vendetta, e con un appetito politico formidabile: logico, dopo vent’anni di astinenza. La mitologia resistenziale e democratica li ha dipinti come i padri della Patria, gli unici che abbiano tenuto alto il suo onore e il suo prestigio negli anni della dittatura, i soli che avessero i requisiti morali per porre mano alla ricostruzione, dopo la sconfitta: e tace, pudicamente, o sorvola, sul piccolissimo dettaglio che, durante la guerra, costoro avevano fatto il tifo per il nemico, non solo, ma molti di essi si erano attivamente impegnati per la sconfitta dell’Italia. Purché cadesse il fascismo, la sconfitta e la rovina della Patria sembravano ad essi un prezzo più che ragionevole. In fondo, non gliene fregava nulla della Patria. Prendiamo il Partito socialista, per esempio; nel primo dopoguerra, non era giunto al punto di far eleggere deputato un disertore? E i comunisti, addestrati alla scuola di Mosca: cosa poteva importar loro della Patria, e della sorte di Zara, di Pola, di Fiume e di Gorizia? E via così. Si tace, poi, un altro piccolo dettaglio: che essi non tornavano per ripristinare la democrazia, ma per inventarla, e ciò sotto la sorveglianza dei vincitori, più o meno come gli americani l’hanno imposta all’Iraq, e tentato d’imporla, con esiti disgraziatissimi, all’Afghanistan, alla Libia, alla Siria; perché la democrazia, in Italia, non c’era mai stata. Non è che Mussolini l’avesse abbattuta: proprio non c’era. C’era uno Stato liberale; ma i due partiti di massa, cattolici e socialisti, non volevano sporcarsi le mani a governare. Preferivano star fuori, sparare a zero contro tutti e facilitare così la caduta dello stato nelle mani di Mussolini. Il quale, se non altro, voleva rivendicare l’esperienza della guerra e della vittoria; voleva valorizzare il sacrificio di tutti gli Italiani che avevano combattuto e vinto, mentre i socialisti, se vedevano in giro una uniforme, fosse pure quella di un decorato o di un invalido di guerra, le sputavano addosso.
La democrazia, i vari Nenni, Togliatti, Longo, non sapevano neppure dove stesse di casa, e neppure i Saragat, i Tasca, gli Amendola. Figuriamoci: loro sapevano come si distrugge una democrazia, non come si edifica. Ma gli Sturzo, i De Gasperi, i Croce, i Bonomi, ne erano altrettanto digiuni, sia pure per ragioni diverse: il massimo che conoscevano, era il sistema liberale vecchia maniera, con le sue clientele, i suoi sprechi, le sue astuzie borboniche. In Sicilia, erano tornati i sindaci mafiosi e amici dei mafiosi; e cinque regioni erano governate con lo statuto speciale, solo per far contenti De Gaulle, Adenauer e Tito. Questi furono i padri costituenti che scrissero la nuova carta fondamentale dello Stato: ecco perché essa è stata così universalmente lodata, ed ecco perché è stata così universalmente giudicata lontanissima della situazione reale.
Dei fuoriusciti italiani di Parigi, un giudizio netto e onesto è stato dato proprio da uno di essi, antifascista della prima ora, ma allergico alle finzioni, alle furbate, alle ipocrisie, e perciò "silenziato" dalla cultura ufficiale: Carmelo Puglionisi, condannato, più che a una damnatio memoriae, ad una rimozione totale vera e propria. Nel suo libro Sciacalli. Storia dei fuoriusciti (pubblicato nel 1948 e poi scomparso, come un fiume carsico, fino al 1972, quando venne ripescato dalle Edizioni del Borghese), dice, fra l’altro (ne La Biblioteca di Libero, 2003, pp. 171-172):
Ovunque fossero, tutti costoro [i fuoriusciti] lavorarono a favore dei nemici dell’Italia in armi, contro i suoi interessi di potenza mediterranea, contro i concittadini che combattevano o ricevevano grappoli di bombe sulle loro case. Il disfattismo integrale rimase la loro politica, la collaborazione col nemico la pratica costante. Essi contribuirono con tutte le forze di cui potevano disporre a rovinare la nazione, ad annullare il lavoro di generazioni di italiani, a rendere precaria la vita delle generazioni che si affacciavano tanto che sotto di loro ricominciò il triste fenomeno dell’emigrazione, del quale sono gli autori, e a rendere nebuloso l’avvenire pur d vedere abbattuto quel Fascismo che da soli mai sarebbero riusciti a porre in difficoltà soltanto perla loro congenita nullità. Di quanto l’Italia aveva creato liquidarono tutto, anche se anteriore al Fascismo, invasi da una smania che l’antifascista Vittorio Emanuele Orlando bollò a Montecitorio con un’espressione che rimarrà: cupidigia di servilismo. Di questa loro infamia, il Paese si è accorto a poco a poco e seguita ad accorgersene col passare degli anni […].
Analogie, appunto: sarà per questo che, nel Bel Paese dei nostri giorni, si ricomincia ad emigrare? Non più i contadini, ma i laureati: tanto a che servono, in un Paese che i suoi politici hanno svenduto agli interessi stranieri?
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