
Da Kadesh, 1275 a. C., a oggi, A. D. 2017
22 Gennaio 2017
Un caso di coscienza
23 Gennaio 2017Uno de segni più evidenti della crisi culturale, spirituale e morale che la nostra società sta vivendo, è la diffusa mancanza di progettualità esistenziale e di consapevolezza del fine della vita umana; che si riflette, a sua volta, nella quasi totale assenza di un progetto educativo degno di questo nome, non solo da parte delle istituzioni scolastiche, ma già a partire da quella prima e fondamentale agenzia educativa che è la famiglia.
Passando dalla società in generale al "popolo di Dio" e alla Chiesa cattolica, la prospettiva, sostanzialmente, non cambia: per quanto possa sembrare incredibile a dirsi, il cattolico, fin da quando riceve le prime nozioni di dottrina ed i primi esempi di vita cristiana, cioè da bambino, non assimila per niente l’idea che la vita non è né una scampagnata a caccia di piaceri, né il frutto del caso, in cui bisogna barcamenarsi alla meno peggio, ma che essa è la preparazione della vita eterna; e che la cosa più importante è la capacità di ascoltare, comprendere e mettere in pratica la chiamata di Dio, che è una chiamata generale alla santità e alla perfezione, ma anche una chiamata individuale di ciascun essere umano, ossia che ciascun essere umano è chiamato alla santità in una maniera particolare. Altrettanto vaga e nebulosa, se pure esiste, è l’idea che, nella chiamata di Dio, non vi è nulla di meno che la possibilità di realizzare pienamente il meglio che, della natura umana, è presente in ciascuno di noi, e non un semplice "sacrifico" dei nostri desideri e delle nostre legittime aspettative; e che tale possibilità si gioca sul filo della cosa più preziosa che noi abbiamo, appunto in quanto esseri umani: il libero arbitrio.
Probabilmente, nove cattolici su dieci resteranno sorpresi se si verrà a dire loro che Dio non ci domanda affatto di andare contro la nostra natura, ma, semmai, se proprio vogliamo metterla in questi termini, contro la parte peggiore della nostra natura; e che la chiamata alla vita divina non consiste solo in una repressione e in una rinuncia a ciò che di bello e buono la vita può offrirci, ma nella scoperta di ciò che veramente e massimamente è bello e buono in essa, e non solamente nell’inseguimento di ciò che appare tale. Questo accade perché la peste dell’edonismo, del consumismo, del materialismo e del relativismo, è penetrata, e da parecchio tempo, fin dentro la Chiesa di Dio, e sono gli stessi uomini di Chiesa, e le altre persone preposte all’educazione e alla formazione cristiana – per esempio, le signore e signorine che insegnano educazione cattolica a scuola e in oratorio – ad avercela portata. Quale immenso errore è stato quello di rinunciare volontariamente all’insegnamento della dottrina cristiana, da parte del clero! Tuttavia la pestilenza modernista e progressista, quasi certamente, si sarebbe diffusa egualmente, perché ad esserne infetti erano ormai, in prima persona, gli stessi membri del clero, e ciò almeno a partire dagli anni ’60 del Novecento: gli anni del Concilio, appunto.
Dunque, tornando al nostro tema: occorre recuperare e ristabilire l’idea che la vita è una chiamata; che è una chiamata di Dio; che ogni creatura è stata voluta e amata da Dio, prima ancora che il mondo fosse stato creato; e che ciascun essere umano è stato fornito di quei beni, a cominciare dall’intelligenza, che gli rendono possibile ascoltare, comprendere e attuare la chiamata stessa (né l’esistenza di creature sfortunate, prive, in apparenza, di tali mezzi, contraddice l’assunto, così come l’eccezione non smentisce, bensì conferma, proprio per il suo carattere di anomalia ed eccezionalità, l’esistenza della regola). E occorre rimettere l’accento sul concetto e sulla responsabilità del libero arbitrio: occorre ricordare ai credenti che dipende da ciascun essere umano la possibilità di costruire il proprio destino, di trovare ciò che completa e rende perfetta la natura umana, oppure di sprofondare sempre di più nella palude dell’errore e della infelicità; e, inoltre, che dal retto uso del libero arbitrio dipende la decisione finale per quel che riguarda il destino eterno dell’anima umana, la sua beatitudine o la sua dannazione.
Troppo spesso, invece, si vedono dei sedicenti cattolici andare a casaccio lungo le strade della vita, porsi in maniera estemporanea e improvvisata di fronte alle grandi questioni del bene e del male, della felicità e della sofferenza, del piacere e del dovere, come dei perfetti analfabeti, o meglio, come dei perfetti campioni di questo "mondo", nel senso adoperato dal Vangelo di Giovanni, cioè come dei pagani e dei ribelli a Dio, che non hanno il santo timor di Lui, né sanno vedere e riconoscere il suo amore; che vedono, giudicano e scelgono le cose nella stessa maniera in cui le vedono, giudicano e scelgono quanti non sono cristiani, quanti non hanno la Speranza cristiana, né la Fede cristiana, né la Carità cristiana. In altre parole, vivono come dei sonnambuli e come dei disperati, nel senso letterale della parola: privi di speranza, e, pertanto, inermi e spaventatissimi di fronte alle prove della vita stessa, a cominciare da quelle inevitabili, nella propria o in quella delle persone care: la malattia, la sofferenza, la vecchiaia e la morte.
Dunque, proviamo a fare silenzio in noi stessi, proviamo a spegnere il clamore del mondo, e cerchiamo di ascoltare la chiamata di Dio. Quali sono le parole che ci rivolge, che ci sta rivolgendo, che non smette di farci, dall’inizio alla fine della nostra esistenza terrena? Sostanzialmente, sono tre: primo, che cosa stiamo facendo della vita che ci è stata data e dei doni con cui Egli l’ha voluta arricchire; quale cura ci stiamo prendendo dei nostri fratelli; se siamo pronti a fornirgli la nostra voce, le nostre forze, il nostro tempo, la nostra capacità di sacrificio, per farci strumento di salvezza nelle Sue mani, lasciandoci guidare e ispirare da Lui, abbandonando la fiducia in noi stessi come creature limitate che vorrebbero essere illimitate, e rimettendo ogni nostro desiderio e ogni nostra speranza in Lui, grazie al quale diventiamo veramente suoi figli adottivi e suoi collaboratori nella instaurazione del suo Regno.
Ha scritto il noto monaco benedettino Anselm Grün, classe 1945, nel suo libro Fare la scelta giusta. Il coraggio di prendere decisioni (titolo originale: Was will ich? Mut zur Entscheidung; 2011, traduzione dal tedesco di Monica Rimoldi, Edizioni San Paolo, 2016, pp. 80-82):
L’Antico Testamento ci pone tre domande fondamentali alle quali dobbiamo dare una risposta.
La prima domanda è la domanda di Dio ad Adamo: "Dove sei?" (Gen. 3,9). È la domanda relativa a dove ci troviamo, perché abbiamo agito in un modo specifico. Adamo, il primo uomo, si nasconde a Dio. Prova sensi di colpa, e non vorrebbe rispondere delle proprie azioni. Ne attribuisce la colpa a Eva. Non si assume la responsabilità del proprio agire. Si tratta di un meccanismo che oggi conosciamo fin troppo bene. Non rispondiamo della nostra responsabilità, ma ci sentiamo sempre vittime. Colpevoli sono sempre gli altri. Accusiamo gli altri invece di prendere su di noi la responsabilità del nostro agire.
La seconda domanda è rivolta da Dio a caino, quando ha colpito a morte il fratello Abele: "Dov’è Abele, tuo fratello?" (Gen. 4,9). Anche Caino svicola. Risponde: "Non lo so. Son forse io custode di mio fratello?" (Gen 4,9). Dio ricorda a Caino che è responsabile del fratello e del comportamento verso il fratello. Ma caino rifiuta anche questa responsabilità. Ma proprio perché rifiuta questa responsabilità deve vagare inquieto per il mondo. Non troverà mai pace. La sua coscienza non lo lascia in pace. Chi rifiuta di assumersi la responsabilità dei fratelli e delle sorelle vaga senza pace, perché ha spezzato il legane con loro. Quindi è isolato. Dato che non è legato ai propri fratelli e alle proprie sorelle, si sente rifiutato e infine fugge da sé e dalle conseguenze del proprio comportamento.
La terza domanda che Dio pone all’uomo è la domanda relativa alla missione. Dio chiede a Isaia: "Chi manderò? Chi andrà per noi?" (Is. 6,8). Il profeta è pronto a rispondere a questa domanda: "Eccomi, manda me!" (Is. 6,8). Il profeta Geremia inizialmente si oppone al’invito da parte di Dio. Dice: "Ah, Signore Dio! Ecco, io non so parlare, perché sono un ragazzo" (Ger. 1,6). Ma Dio non riconosce questa scusa: "Non dire: Sono un ragazzo, perché ovunque ti invierò, tu andrai e tutti quel che ti ordinerò, tu lo riferirai. Non temere di fronte a loro perché io sono con te per salvarti- oracolo del Signore" (Ger. 1, 7-8). Responsabilità significa rispondere alla chiamata di Dio che è rivolta a me. Non si tratta solo di assumermi la responsabilità della mia vita, ma di rispondere alla chiamata che mi invia nel mondo e che mi assegna l’incarico di creare e plasmare questo mondo.
Con ogni decisione ci assumiamo la responsabilità di quello che consegue dalla nostra decisione…
La prima domanda: Adamo, dove sei?, è in fondo il tema di una delle più famose e importanti parabole di Gesù, quella delle mine (o dei talenti). Dio ci ha dato, insieme al bene prezioso e assolutamente unico della vita, anche dei beni collaterali, per mezzo dei quali possiamo non solo goderla pienamente, ma renderla degna di essere vissuta così come Lui vuole; e quel che Lui desidera per noi, è, per definizione, quanto c’è di meglio in essa, nelle sue possibilità, non certo qualcosa che vada a ledere o a menomare la sua pienezza e la sua ricchezza. Il dramma delle vite mancate, delle vite sbagliate, delle vite infelici, è quello di chi non ha capito questo: che Dio, per noi, desidera il meglio; e che la ribellione contro di Lui, che è il peccato, coincide con la scelta di quel che, per noi, è il peggio: coincide con la scelta della nostra stessa infelicità e del nostro stesso danno. Quale infinita tristezza vi è in questa semplice, quotidiana constatazione: una infinità di persone fuggono da Dio, credendo che Egli ci domandi l’impossibile, che pretenda da noi intollerabili sacrifici e mortificazioni; mentre è vero il contrario, e le sofferenze e le umiliazioni peggiori sono, al contrario, quelle che tali persone si infliggono da se stesse, non per aver accolto la Parola di Dio, ma per essersi ribellate ad essa.
La seconda domanda: Dov’è tuo fratello?, ci ricorda che siamo tutti figli di Dio, e che, pertanto, dovremmo considerarci come i membri di una stessa famiglia. Attenzione, però: amare i propri fratelli non significa affatto amarli come essi vorrebbero essere amati, esattamente come amare se stessi non significa affatto amarci come vorremmo amarci noi, in un senso puramente umano. Così come il vero amore di sé non è di tipo narcisista, bensì maturo e responsabile, e consiste, in ultima analisi, nel lasciare che Dio faccia di noi quel che vuole Lui, e non quel che vorremmo noi; allo stesso modo amare il prossimo non significa accontentarlo, blandirlo, scusarlo, approvarlo, sempre e comunque, ma, al contrario, amarlo da persone mature e responsabili, che sanno dire anche di no, che sanno anche sgridare e rimproverare, se necessario, e che sanno perfino adoperare la forza, in casi estremi, se è per il suo bene. Cerchiamo di non essere ipocriti! Quale genitore, per quanto tollerante e permissivo, sarebbe dell’idea di lasciare che il suo bambino faccia tutto quel che gli pare, anche ficcare le dita nella presa della corrente elettrica, con la scusa che non bisogna reprimere, né interferire, ma lasciare tutti liberi di "essere se stessi", espressione insulsa e demagogica che non vuol dire proprio nulla, visto che si tratta di capire chi siamo e che cosa siamo chiamati a fare, molto prima di essere noi stessi? Dio, pertanto, ci chiederà conto, o meno, non di aver "amato", genericamente, il nostro fratello e la nostra sorella, ma di averli saputi amare così come Lui vuole che siano amati gli esseri umani: aiutandoli a realizzare, in se stessi, il meglio della natura umana, e non il peggio. Ogni volta che noi, tradendo, ingannando, facendo soffrire inutilmente un altro essere umano, lo spingiamo sulla via del disinganno, dell’amarezza e della disperazione, noi stiamo agendo come Caino agì con suo fratello Abele: ossia come omicidi; se non in senso materiale, certo in senso morale. E ce ne verrà chiesto conto.
La terza domanda: Chi manderò?, equivale ad un: Sei pronto? Sei pronto ad andare nel mondo a nome mio, per fare la mia volontà e non la tua? Sei pronto a farti docile strumento nelle mie mani, per il bene tuo e del tuo prossimo? Ora, per poter rispondere affermativamente a questa domanda, cioè per farci collaboratori di Dio (un pensiero che dovrebbe darci letteralmente le vertigini, nello stesso tempo in cui dovrebbe riempirci di una felicità straordinaria, esaltante), è evidente che bisogna spogliarsi di quella dura scorza d’orgoglio, di superbia e di egoismo, che ha fasciato il nostro io come dentro un bozzolo, conferendogli proporzioni ipertrofiche. Noi tendiamo a vedere noi stessi dappertutto: ebbene, dobbiamo sottoporre il nostro ego a una drastica cura dimagrante. Dobbiamo imparare a gettar fuori la zavorra, che ci appesantisce e che impedisce alla nostra navicella di librarsi in alto, libera e felice.
Queste sono le domande essenziali che Dio ci rivolge; sta a noi saperle ascoltare, comprendere e rispondere ad esse in modo affermativo. Beninteso, con il suo aiuto, e non certo con le nostre sole forze. Ma per ricevere il suo aiuto, dobbiamo innanzitutto domandarlo. Quindi, ecco che l’umiltà viene prima di tutto; e con essa la fede, la speranza e la carità. Tutto il resto verrà poi, senza fallo…
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