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Da Kadesh, 1275 a. C., a oggi, A. D. 2017

La sanguinosa battaglia di Kadesh (o Qadeš), combattuta fra un’armata egiziana ed una ittita sulle rive del fiume Oriente, verso la fine di maggio del 1275, è nota fra gli studiosi di storia antica principalmente per tre motivi.

Il primo è che si tratta del più remoto fatto d’armi della storia di cui siamo discretamente documentati, grazie a tre fonti antiche; anche se due di esse — il Poema dello scriba Pentaur e i Bollettini di Kadesh, incisi in altrettante redazioni, su sette monumenti costruiti a quello scopo — sono esclusivamente egiziane.

Il secondo motivo è che la battaglia è stata seguita dal primo trattato internazionale del quale ci siano pervenute le norme precise, stipulate fra le due potenze, Egitto e Impero ittita: il Trattato di Kadesh, di cui sono sopravvissute diverse copie, scritte nella lingua della diplomazia internazionale dell’epoca, l’accadico.

Il terzo motivo, e il più sconcertante, è che, a dispetto di questa documentazione relativamente abbondante, e, per taluni aspetti della battaglia, perfino minuziosa, con tanto di nomi delle varie divisioni e corpi d’armata, e il numero dei carri da guerra impiegati dall’una e dall’altra parte, non sappiamo quasi nulla del suo esito effettivo, perché siamo praticamente schiacciati dal peso della roboante propaganda di colui che, a torto o a ragione, volle proclamarsene ai quattro venti il solo vincitore: il faraone Ramses II, avvantaggiato dal fatto che il suo rivale, il re ittita Muwatallis II, probabilmente già malato (e che infatti, a differenza di lui, non partecipò personalmente allo scontro), morì poco dopo, lasciandogli campo libero in fatto di guerra propagandistica. In pratica, sappiamo parecchi particolari dell’antefatto dell’epica battaglia; sappiamo molte cose del suo svolgimento effettivo; e sappiamo, per concludere, in quali termini la diplomazia delle due potenze coinvolte decise di porre fine alla guerra, fissando le rispettive zone d’influenza nel Vicino Oriente. Ma non sappiamo la cosa più importante, o, almeno, non la sappiamo con un ragionevole margine di sicurezza: e cioè chi abbia vinto, e chi abbia perso.

Situazione paradossale, e, tutto sommato, abbastanza umiliante per la pretesa di noi moderni di sapere tutto del passato; o, almeno, umiliante per quegli storici i quali mostrano di considerare la propria disciplina come una specie di scienza. Strana scienza davvero, alla quale mancano, sul più bello, le informazioni decisive; cosa che avviene, quasi come una beffa del destino, proprio là dove disponiamo di una quantità di notizie decisamente insolita per la storia più antica, il che tenderebbe a farci pensare che, dopotutto, siamo in grado di sapere, con ragionevole approssimazione, almeno la cosa essenziale: chi ha vinto e chi ha perso un grande fatto d’armi, combattuto in campo aperto e non dopo un lungo assedio sotto le mura d’una fortezza. Se si può definire "scienza" una disciplina di questo genere, o se la si può pensare come una disciplina di tipo scientifico, allora vuol dire che dobbiamo davvero chiarirci le idee su che cosa si debba intendere per "scienza". Se, infatti, vi sono delle scienze naturali, come la meteorologia, che possiedono uno scarsissimo potere predittivo, non ve ne è però alcuna che non sappia nemmeno di che cosa, esattamente, si stia occupando: situazione peraltro comune ad altre cosiddette "scienze dello spirito", come la sociologia o la psicologia, e tale che dovrebbe far passare la voglia di parlare, per esse, di "scienze", e sia pure in senso ampio e generico.

Ecco come il noto scrittore, giornalista e storico dell’arte Philipp Vandenberg (pseudonimo di Hans Dietrich Hartel, nato a Breslavia nel 1941), ha riassunto gl’imbarazzanti termini della questione (da: P. Vandenberg, Ramsete il Grande; titolo originale: Ramses der Grosse, Bern und München, Scherz Verlag, 1977; traduzione dal tedesco di Adriano Caiani, Milano, Sugar & Co. Edizioni, 1978, pp. 95-96):

Sia nel Chatti che in Egitto troviamo documenti storici che parlano del confitto tra i due paesi. Ma Muvatallis non ebbe il tempo di tramandarci le sue eroiche gesta, essendo morto subito dopo la battaglia. L’incarico di raccontarcele passò ai di lui successori: Chattusil III e Tudhalija IV.

Nella terra del Nilo le cose andarono diversamente: tornato a casa, Rasmses diede inizio alla più mastodontica campagna propagandistica che l’Egitto avesse mai conosciuto. Resoconti, poesia, raffigurazioni in rilievo non tararono a parlare di vittoria in tutti i grandi templi dell’impero, esaltando il divino eroismo del Superman: a Tebe, ad Abydo, nel Ramesseum, a Medinet Habu e ad Abu Simbel i testi illustrati gonfiano esageratamente l’impresa del suo quinto anno di regno.

Alan Gardiner [celebre egittologo britannico, 1879-1963, autore di una quindicina di opere sulla civiltà egizia] affermò che "il resoconto di Ramses II sulla guerra ittita è un fenomeno unico non solo nella letteratura egizia, ma forse nella letteratura mondiale" e che al confronto persino l’avventurosa spedizione della regina Hatshepsut a Ponto [sic; al regno di Punt, forse la Somalia odierna]è squallida e scarna, così com’è descritta.

Gli storici che esaminano le fonte, distinguono essenzialmente due documentazioni letterarie contrastanti: una "poesia" sulla battaglia di Kadesh e un "resoconto". Il "resoconto", più breve, si attiene agi avvenimenti che precedettero la battaglia e diventa patetico soltanto cin l’inizio di essa. La "poesia", invece, glorifica in forma d’arte e con tutte le possibili libertà il vittorioso sovrano. La "prosa" descrive i due schieramenti, quello egizio e quello ittita; i "versi" parlano invece esclusivamente di Ramses. Questi testi sono redatti in maniera trascuratissima.

Sir Alan Gardiner dice: "I testi sono farraginosi, pieni di ripetizioni. Nessuno scriba del Medio Impero che conoscesse il proprio mestiere avrebbe mai cambiato continuamente – parlando del faraone — la prima e la terza persona, né avrebbe usato tre volte di seguito nella cosiddetta "poesia" le medesime parole: "li macellai instancabilmente". Un’altra cosa non necessaria è quella di darci due volte notizia che ogni carro ittita aveva sopra tre guerrieri. Con molti altri esempi potremmo mettere in luce le lacune stilistiche dell’autore. Poi non si può proprio sostenere che tutta questa storia e il modo in cui è raccontata siano interessanti".

L’autore qui criticato si chiama Ramses. La trascuratezza con cui è redatta la "poesia" dipende dal fatto che egli l’ha dettata con esasperato personalismo. Non può essere stato che così, visto che nessuno scriba sarebbe stato in grado di esprimere sulla battaglia qualcosa di diverso da ciò che il faraone pensava. Questi "versi" testimoniano quindi come il Grande ha parlato e pensato non fu né un porta né un eletto ingegno, ma soltanto un uomo rozzo, egocentrico, spietato capace di passare sui cadaveri, se necessario anche sul proprio. Si ritenne fabbro della sua fortuna, o fu convinto che gli dei di essa fossero a lui debitori.

L’avventura di Kadesh finisce così, stando alle parole del Potente, in maniera gloriosa (ma in realtà è stata un mezzo fallimento). Ecco come la descrive:

"Quando Sua Maestà felice si fu avvicinato all’Egitto con i suoi prodi, i suoi soldati e i suoi carristi — la vita, la durata e la felicità erano con lui, insieme con tutti gli dèi e le dee e con tutti i Paesi che lodavano le sue belle sembianze — venne felice alla casa di Ramses il vittorioso [nella capitale: Per Ramses, n. d. A.] e riposò nel suo palazzo pieno di vita come Ra sul suo tronco [sic], e gli dèi salutarono il suo Ka e gli dissero: benvenuto a te, figlio nostro diletto, Ramses, amato da Amon! Essi gli diedero milioni di giubilei e l’eternità sul trono del padre suo Atum. E tutti i Paesi e le Terre straniere giacquero sotto i suoi piedi".

In realtà, tutto quel che possiamo arrischiarci a dire sull’esito della celebre battaglia è che Ramses II, benché i testi egizi celebrino con enfasi ossessiva le sue prodezze sul campo di battaglia e le stragi di nemici che fece con le sue stesse mani, quasi certamente compì un grave errore strategico iniziale, lasciando sorprendere la sua avanguardia da un improvviso attacco ittita e riuscendo poi, ma solo con molta fatica, a ristabilire la situazione e ad assicurarsi, forse, una certa prevalenza, non tuttavia abbastanza da forzare la linea del fiume Oronte, né da osare l’assalto contro la fortezza di Kadesh, nella quale i nemici si erano infine trincerati. Le perdite di entrambe le armate sono sconosciute; comunque, se pure fu una vittoria egiziana, di certo fu una vittoria di Pirro.

Ci siamo soffermati su questa ambigua e complessa vicenda storiografica per poter fare una riflessione sulla realtà odierna, non solo con riferimento alla storia militare, ma alla storia tout-court, anzi, anche alla cronaca e all’informazione quotidiana. Il 20 gennaio 2017 ha avuto luogo l’insediamento ufficiale del neoeletto presidente statunitense Donald Trump, evento che, naturalmente, data la rilevanza della politica americana per tutti gli equilibri geopolitici, è stato seguito dai mass media di tutto il mondo, i quali hanno abbondantemente riferito sia del suo discorso, sia delle reazioni e specialmente delle manifestazioni e degli scontri che hanno contrassegnato la risposta dei giovani simpatizzanti dello sconfitto Partito Democratico.

Ebbene: ai nostri discendenti che verranno fra due, tre o quattromila anni, ammesso e non concesso che, nel quinto millennio dopo Cristo, l’umanità, o almeno la civiltà, esisteranno ancora, e che qualcosa del nostro presente storico sarà giunta fino a loro (gli antichi Egiziani, almeno, le loro storie le scolpivano sulle pareti e sulle colonne dei loro grandiosi templi, destinati a sfidare i millenni; mentre noi affidiamo quasi tutte le nostre memorie a un mezzo "virtuale" come la rete informatica, che un semplice blackout è capace di mettere in crisi fin da ora, per non parlare di quel che avverrà fra 4.000 anni) crediamo che non sarà facilissimo capire, con un ceto grado di esattezza, che cosa è stato l’insediamento di Trump. Quasi tutti i giornali e i telegiornali delle varie reti televisive, in Italia, ma anche in moltissimi altri Paesi europei ed extra europei, non si sono minimamente sforzati di nascondere il loro disappunto per la vittoria di Trump nelle recenti elezioni presidenziali americane, né per il suo ingresso odierno alla Casa Bianca. I giovani e le donne, o meglio, le attardate femministe, che in molti luoghi hanno espresso, più o meno rabbiosamente, tutto il loro disappunto e la loro indignazione per l’affronto che costui ha fatto, vincendo, alle loro convinzioni politicially correct, ha trovato pronta ed entusiastica eco sui mezzi d’informazione di mezzo mondo, conditi e infarciti di aggettivi, di avverbi e di espressioni che suonavano come altrettante irrevocabili condanne morali dell’antipatico neoeletto. Il dubbio che prenderà le generazioni future, se e quando sapranno che, nel 2017, a un presidente americano di nome Barack Obama, il primo afroamericano nella storia della Casa Bianca, è succeduto un presidente democratico decisamente conservatore, sarà di capire attraverso quale azione di forza, quale colpo di Stato, o, quanto meno, quale indebita pressione morale e materiale un così indegno personaggio abbia potuto prendere le redini della nazione egemone del pianeta. E le roventi proteste che hanno contrassegnato il passaggio delle consegne fra il nero democratico e il bianco repubblicano, dato che si sono svolte in quella che è da quasi tutti ritenuta come la più antica e prestigiosa democrazia, fra quelle sorte in età moderna, fanno pensare che costui non abbia vinto le elezioni in maniera assolutamente democratica, ma che si sia imposto sulle punte delle baionette di qualche esercito mercenario. Altrimenti, perché gli sconfitti non avrebbero accettato serenamente il responso selle urne, come si usa fare, appunto, in democrazia? E perché i democratici mezzi d’informazione del pianeta hanno fornito le notizie in una luce così negativa per il nuovo presidente?

Così come noi, oggi, non riusciamo a capire chi abbia vinto, tremila e trecento anni fa, la battaglia di Kadesh, così in un futuro forse neanche così lontano, chi vivrà non riuscirà a capire che cosa ci facesse alla Casa Bianca un "abusivo" come quel Donald Trump, esecrato da tutti i progressisti di ogni lingua e nazione. Certo sarà impossibile persuaderli che il buon Obama vincitore di un premio Nobel per la Pace, abbia portato l’America e il mondo più vicino alla terza guerra mondiale, di chiunque altro prima di lui; e che una vittoria elettorale della sua collega Hillary Clinton avrebbe significato un ulteriore avvicinamento, forse irreparabile, a quella soglia fatale. Ancora più improbabile sarà che i posteri riescano a capire perché mai il papa Francesco, che andava d’amore e d’accordo con il musulmano Obama e con la signora Clinton, favorevole ad aborto, matrimoni omosessuali e adozioni gay, non parlasse mai, però, del genocidio dei cristiani nel Medio Oriente, e paragonasse a Hitler proprio quel Trump che difendeva i valori cristiani. Sì, crediamo che questa sarà la cosa più incomprensibile per i posteri, ammesso che riusciranno a capire che lo è stata anche per noi: il fatto che la Chiesa cattolica, all’inizio del terzo millennio, si sentisse in dovere di manifestare un così poco diplomatico fastidio per la vittoria di un presidente eletto dal popolo, quando avrebbe avuto tante cose delle quali occuparsi, in casa propria e per la sua sopravvivenza…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Jorgen Hendriksen su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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