
«Figlio, hai peccato? Non farlo più e prega per le colpe passate»
17 Gennaio 2017
«Tutta la sapienza è timore di Dio» (Sir. 19, 19)
18 Gennaio 2017La filosofia è l’arte di pensare, di pensare veramente e non di ripetere cose sentite e già dette da altri, oppure di sparare giudizi generici, banali ed emotivi. Ci sarebbe un gran bisogno di gente che sappia pensare davvero; lo sa Iddio se ce ne sarebbe bisogno, in questa società di conformisti, di omologati, di pigri, di pavidi e di menefreghisti; in questa società dove il dilagare della telefonia cellulare, con tutti gli usi brevettati, annessi e connessi ai più recenti gingilli tecnologici, hanno pressoché lobotomizzato gran parte della popolazione, sicché si vedono uomini e donne, e soprattutto ragazzi e bambini, andare in giro trasognati e concentrati in se stessi, o, per dir meglio, completamente disconnessi dalla realtà, tale essendo il loro livello d’immersione nell’altrove virtuale creato dalla rete. Le cuffie dell’impianto stereo nelle orecchie completano l’opera. A volte succede che dei ragazzi, degli studenti di quindici, diciassette anni, vengano travolti dal treno perché si siedono sulle pensiline della stazione ferroviaria e non sentono l’avvicinarsi del convoglio, non sentono niente, vivono chissà dove, pensano a chissà cosa, stanno parlando con qualcuno che fisicamente non è lì, e le canzoni gridate negli orecchi impediscono loro di sentire i suoni e le voci della vita reale, lì, a mezzo metro intorno a loro.
Ci sarebbe più che mai bisogno, pertanto, di una sviluppata capacità di pensare, di farsi domande, di cercare risposte, a cominciare dal chiedersi se valga la pena di correre dietro agli accessori elettronici del consumismo, e se sia cosa utile separarsi dalla realtà per immergersi in una sorta di alienazione permanente, dove non è vero ciò che è vero, ma ciò che sembra vero: cose, persone, situazioni, perfino amicizie e rapporti sentimentali. E chi potrebbe fare quest’opera meritoria, meglio di quanto possa farlo il professore di filosofia? Ahimè, quel che avviene oggi nella scuola italiana è lontanissimo dall’autorizzare simili speranze; si tratta di qualcosa che è completamente diversa, qualcosa che serve solo a riprodurre ciò che impropriamente si potrebbe chiamare pensiero imitativo, ma, parlando in maniera più esatta, si dovrebbe definire invece assenza totale di pensiero, e la sua sostituzione con degli schemi prefabbricati, fissi, stereotipati, da tirar fuori al momento opportuno dall’apposito scaffale mentale, e poi riporveli con cura, in occasione della prossima sollecitazione telecomandata, come i riflessi del cane di Pavlov.
La disciplina che s’insegna a scuola sotto l’ottimistica etichetta di "filosofia" non è veramente tale, ma è una sorta di carrellata storica sul pensiero filosofico occidentale, in cui si favorisce pochissimo la presa di consapevolezza critica degli studenti, e, oltretutto, si attribuisce uno spazio esagerato al pensiero moderno rispetto a quello medievale, nella assurda convinzione che, come nel caso della storia, l’importante sia avvicinarsi il più possibile ai nostri giorni, perché l’attenzione del giovane vi troverà maggiori motivi d’interesse. I professori, poi, di loro iniziativa, peggiorano le cose rivolgendo un’attenzione spropositata a "pensatori", come Marx e Freud, che non sono affatto tali, e tralasciando quasi tutta la filosofia medievale, che sentono estranea ai loro interessi e che percepiscono ideologicamente come "antipatica", o, magari, come sostanzialmente "inutile" nella storia del pensiero. E questo avviene perché moltissimi di loro sono figli della stagione del ’68, se non anagraficamente, idealmente, e s’immedesimano in quei "valori", e sognano la rivoluzione, anche se non saprebbero dire esattamente quale, visto che tute le rivoluzioni che si sono succedute si sono rivelate molto presto delle tragiche discese nei gironi dell’inferno dantesco. In compenso, anche se non sanno bene, o meglio non sanno affatto, che tipo di mondo futuro vorrebbero vedere realizzato, sanno però molto bene che cosa odiare, che cosa detestare, che cosa distruggere, qualora se ne presenti l’occasione: ossia qualunque forma di "moralismo" e di "autoritarismo", di gerarchia e di merito, in base all’assioma, infinite volte smentito dai fatti, ma indistruttibile nelle loro piccole menti, che gli uomini sono tutti uguali anche nelle capacità, nei pregi e nelle attitudini, e che, se delle differenze esistono, ciò avviene solo perché non si è ancora trovato il modo di sopprimere le "ingiustizie" sociali, espressione con la quale essi designano qualsiasi tipo di differenziazione sociale, culturale, o anche semplicemente etnica e biologica, tanto è vero che sono nemici giurati dei "sani", dei "normali", dei "benpensanti", e sono infallibilmente solidali con gli "altri", coi "diversi", con i "ribelli", di qualunque tipo, l’importante è che manifestino rabbia, invidia e gelosia verso il mondo intero. Pertanto essi cercano di spiegare le "discriminazioni" di cui costoro sarebbero vittime, con il bieco e sordido egoismo della "società".
La loro simpatia istintiva verso i malati di mente, le minoranze etniche, gli omosessuali, i vagabondi, gli zingari, i marginali di qualsiasi tipo, nasce precisamente da qui: essi li vedono, più o meno inconsciamente, come il futuro esercito di "liberazione", come i futuri operai della "santa ghigliottina" (o della sacrosanta guerriglia popolare), i quali, quando avranno bevuto il calice della sofferenza e dello sfruttamento sino alla feccia, insorgeranno e faranno vedere a tutti di che cosa sono capaci. Loro, intanto, i professori, si guarderanno bene dallo sporcarsi le mani, rischiando in prima persona: faranno il tifo per la rivoluzione, per la ribellione, per la trasgressione; inciteranno i loro studenti alla lotta contro la gerarchia e l’ipocrisia borghesi, ma sempre tenendo d’occhio il giorno della sospirata pensione, per non concedere allo stato un giorno in più del loro benemerito lavoro. Insomma, proietteranno sui giovani di oggi, loro figli spirituali, i sogni frustrati della loro giovinezza, così come le casalinghe frustrate quarantenni e cinquantenni proiettano i loro sogni di gloria sulle figlie quindicenni, e le spingono ai provini televisivi o alle sfilate di miss questo o di miss quell’altro, nel tentativo di vivere in esse, per interposta persona, quelle emozioni e quelle soddisfazioni delle quali un "ingiusto" destino le ha defraudate.
Qualcuno domanderà che cosa c’entri tutto questo con l’insegnamento della filosofia. Giustissima domanda: tutto questo ha a che fare, semmai, con la psichiatria, non con la filosofia. Il fatto è che insegnare filosofia, oggi, si risolve precisamente in questo: nel bombardare l’immaginario dei ragazzi con i miti di cartapesta del pensiero libertario e trasgressivo, rivoluzionario e antiborghese, miti giù sbugiardati e condannati dalla forza stessa dei fatti, senza curarsi affatto d’insegnar loro che cosa significhi provarsi, qualche volta, a pensare davvero con la propria testa; e questo per una ragione semplicissima: che codesti insegnanti non lo sanno fare, non lo hanno mai fatto, e neppure si sono mai posti il problema anche solo di provarci, se non per qualcun altro, almeno per stessi. Per insegnare a pensare, bisogna saper pensare; però chi non mai pensato una sola volta in vita sua, ma semplicemente ripetuto, a comando, le parole d’ordine del politcally correct, e scambia questo esercizio pappagallesco per "pensiero", come potrebbe mai esserne capace?
Per come si studia la filosofia, oggi, nella scuola italiana (anche se sappiamo bene che la situazione, nel resto d’Europa, in Germania, per esempio, o in Austria, è, se possibile, ancor più desolante), tanto varrebbe abolirla addirittura, e dedicare quelle ore allo studio di qualcos’altro; per esempio, reintroducendo nel triennio l’insegnamento della geografia, che è stato assurdamente abolito.
Osserva già venticinque anni fa Massimo Piattelli Palmarini nel saggio Voglia di studiare. Che cos’è e come farsela venire (Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 19911, pp. 61-62):
Possiamo dire che nel vasto mondo al di fuori della scuola, ci sono tre diversi modi di intendere e di vivere la filosofia: c’è una filosofia che è scienza tra altre scienze, nella quale ci si pongono dei precisi problemi e si cerca di risolverli; c’è una filosofia che storia delle grandi idee, nella quale si ricostruisce "cosa hanno veramente detto" i giganti del passato; poi c’è una filosofia che è quasi sinonimo di educazione alla saggezza. Quest’ultima corrisponde all’idea che ci si fa normalmente del saper prendere le cose, appunto, "con filosofia". Secondo questa diffusa "immagine", a differenza di ogni altra materia, ci si aspetta che la filosofia ci porti anche un elemento di saggezza. Ci deve aiutare non solo a sapere di più, ma anche a VIVERE meglio, non solo a conoscere meglio il mondo, ma anche a conoscere meglio noi stessi. A dispetto di questa immagine, però, la filosofia che si studia a scuola è quasi esclusivamente del secondo tipo: una ricostruzione sequenziale di cosa hanno detto alcuni grandi pensatori del passato (magari ANCHE di quelli di un passato non troppo remoto). La componente di educazione alla saggezza ne emerge molto, molto indirettamente. Quanto poi alla filosofia del primo tipo, la formazione alla ricerca filosofica di unta, a scuola non se ne parla quasi affatto. Raramente ci si rende conto, terminato il liceo, o perfino terminati gli studi di filosofia in certe nostre università, che sia ANCORA possibile porsi un problema filosofico NUOVO, e RISOLVERLO. Si pensa, tutt’al più, che si possano ancora trovare INTERPRETAZIONI nuove di filosofi del passato, o che si possano ancora mettere in luce CONNESSIONI nuove tra tesi filosofiche già note. Questa opinione che la filosofia sia già finita, fu proprio quella che Bertrand Russell giustamente condannò agli inizi di questo secolo, facendo presente ai suoi colleghi di Oxford, che se anche Leibniz, Hume, Kant e Hegel avessero inteso così la filosofia, si sarebbero limitati a chiosare all’infinito sulle opere di Platone, e di Aristotele.
A parte l’infelice citazione finale di Bertrand Russell, la mente meno filosofica che abbia prodotto il XX secolo, e, probabilmente, il caso più clamoroso d’impostura e di fama immeritata nella storia del pensiero moderno (ma la cosa è spiegabile con la formazione scientista dell’Autore e con la sua propensione a "sciogliere" le questioni filosofiche di qualsiasi genere in altrettante "soluzioni" di tipo matematico), il resto del ragionamento ci sembra pienamente condivisibile.
Bisognerebbe insegnare ai giovani a pensare in maniera creativa, ma ciò, nel contesto della scuola odierna, è quasi impossibile, senza contare che è praticamente una contraddizione in termini. La scuola di massa è fatta per produrre studenti di massa e diplomati di massa: anche i migliori difficilmente si distaccano dalla palude, perché così sono stati addestrati, così si è fatto credere loro che si arrivi al traguardo. Il traguardo, invece, è imparare a pensare da sé: ma, in termini stretti, nessuno può insegnare una cosa del genere a qualcun altro; bisogna impararla da soli. Il maestro può solo fornire il modello di una struttura mentale capace di spiccare il volo; ma il volo, ciascuna mente deve spiccarlo da sola. E non è una cosa che si possa stabilire a comando; quando viene, viene perché la vita ha posto quella persona di fronte a determinati interrogativi, e lo ha fatto, il più delle volte, senza troppi riguardi, per cui comprendere il mistero del reale, almeno nella misura del possibile, diventa una questione di vita o di morte, non una questione accademica.
Coloro i quali pensano che la filosofia possa veramente addestrare al pensiero, non considerano il fatto che il pensiero è la cosa più intima, segreta e indipendente che vi sia: nessuno può arrivare al pensiero di un altro, se non alla lontana, e cioè sulla base di numerosi equivoci; figuriamoci se potrebbe mai influenzarlo in un determinato senso. Quel che un onesto professore di filosofia può fare, nelle condizioni date nella scuola italiana, è seguire la regola della scuola salernitana di medicina: primum non nocere; ossia, per prima cosa, evitar di aggravare il danno che già produce l’insieme delle forze negative che agiscono sulla mente e sull’anima dei giovani. Esiste, in tal senso, una vera e propria responsabilità morale, da parte dei professori nei confronti dei loro studenti, della quale verrà loro chiesto conto, se non in questa vita, nell’altra. La responsabilità è quella di rispettare la coscienza in formazione del giovane, di non cercar d’indottrinarlo, di non precludergli la strada per fluire liberamente verso la sua meta, imponendogli il proprio pensiero ed esigendo da lui che si faccia il ripetitore passivo di ciò che gli viene trasmesso. In altre parole, oltre a trasmettere conoscenze, l’insegnante di filosofia deve trasmettere l’amore per la verità, che è fatto, a sua volta, di un estremo rigore intellettuale: non accettare mai nulla per acquisito, che non si stato passato al vaglio della riflessione. Però, allo stesso tempo, ricordare sempre l’aurea massima di Blaise Pascal: l’atto più alto della ragione consiste nel riconoscere che esistono infinite cose che la sorpassano. Guai se si dà a intendere ai giovani che non vi è nulla al di sopra della ragione umana: sarebbe come indottrinarli in senso immanentistico, precludendo loro la strada verso il mare dell’Essere. La filosofia dovrebbe essere la disciplina sovrana in qualunque scuola superiore, perché chi sa pensare, sa pensare anche tutti gli altri ambiti del reale. Tuttavia, per le ragioni anzidette, sarebbe illusorio porsi un obiettivo così alto. Perciò daremmo questo consiglio ai professori di filosofia: rispettare la personalità degli studenti; dischiuder loro sempre nuovi orizzonti, e poi lasciarli procedere da soli…
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