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Kandinskij, apprendista stregone della modernità

Vasilij Vasil’evic Kandinskij (Mosca, 4 dicembre [16 dicembre nel calendario gregoriano], 1866-Neuilly-Sur-Seine, presso Parigi, 13 dicembre 1944) è stato un apprendista stregone della modernità: uno dei tanti, uno dei tantissimi. Come gli altri, ha voluto distruggere per poi ricostruire; ma la ricostruzione non c’è stata, c’è stata solo la distruzione: nel suo caso – quello di un pittore – la distruzione della forma. Kandisnskij, più di altri, ha contribuito all’avvento dell’arte informale, che oggi domina quasi incontrastata; al punto che, davanti a un’opera pittorica che rappresenti ancora delle forme, e non necessariamente secondo rigidi e ingenui schemi naturalistici, il pubblico rimane per metà sorpreso, per metà deluso, mentre la critica, automaticamente, scuote la testa e dice, spazientita: Come! Ancora questa roba, come se fossimo rimasti fermi al XIX secolo? Via, avanti un altro! Kandinskij credeva che, attraverso il "superamento" della forma, l’arte moderna si sarebbe riconciliata con se stessa e avrebbe recuperato il rapporto con l’oggettività, ma su di un piano più alto: più "spirituale"- così credeva fermamente -, da parte dell’autore, e più maturo nei confronti del pubblico, al quale sarebbe stato chiesto di partecipare, appunto, alla ricerca di quella interiorità, insomma di non restare il passivo usufruttuario di un qualcosa che gli veniva presentato bello e pronto, senza mistero, senza problema.

Ecco il tragico equivoco: pensare che, attraverso la distruzione della forma e la reinvenzione di un nuovo linguaggio artistico, non più figurativo, ma puramente "interiore", emozionale, soggettivo, si sarebbe potuto attuare, o favorire, una rinascita dell’arte; che si sarebbe potuto dare un contributo decisivo al rinnovamento della pittura, del modo di intendere l’arte, del rapporto fra l’artista e il pubblico, insomma: traghettare l’umanità verso una nuova civiltà artistica, e, di conseguenza, verso una nuova forma di civiltà. Vediamo qui in atto un vero concentrato dei vizi, degli errori e delle illusioni di tanti, troppi distruttori inconsapevoli, falsi maestri, profeti ingannevoli del Novecento: la presunzione di se stessi, l’intellettualismo esasperato, il narcisismo culturale, il disprezzo di secoli di tradizione, una torbida ricerca di "spiritualità" che poi non è altro che il rigurgito di un io debordante, ipertrofico, malato di nietzschianesimo, e infine, più grave di tutti, la sopravvalutazione della dimensione estetica quale elemento fonante della civiltà, ultimo retaggio del simbolismo decadentista in cui si rinnova, aggravata, la contraddizione fondamentale del romanticismo: la ricerca dell’assoluto entro gli orizzonti del finito, con il conseguente, inevitabile corto circuito delle forze spirituali e intellettuali sprigionate.

Non ci interessa, in questa sede, ripercorrere le tappe di questa sua deliberata discesa verso gli inferi, cioè verso la distruzione della forma, credendo di trovare, alla fine del percorso, l’avvento di un’arte nuova e più viva; lasciamo allo storico dell’arte questo lavoro, che potrà mostrare come, un poco alla volta, passando dalle opere giovanili, ancora vagamente legate alla forma e all’oggettività, ma già, fin dall’inizio, stranamente deformate come attraverso una lente speciale, o come attraverso gli effetti di una alterazione della coscienza (era pur sempre il vecchio dogma decadentista dello "sregolamento di tutti i sensi"), Kandiskij imbocca con sempre maggior decisione la strada intrapresa e si spinge sempre più lontano, sino a non scorgere più la riva da cui era partito, smarrendosi in una dimensione onirica, allucinata, eppure stranamente matematica, dove i colori, secondo le sue stesse teorie, diventano i protagonisti assoluti, in virtù delle emozioni che dovrebbero evocare: la follia vitalistica il giallo, il suono dell’organo il blu, l’energia inquieta e disordinata il rosso, noia e compiacimento il verde, e così via delirando. La "cesura" si colloca attorno al 1911, quando, con Franz Marc e altri, l’arista russo fonda il Blaue Reiter, ossia quella che voleva essere una svolta epocale nell’arte e nella sua stessa concezione, mentre poi, alla distanza, si è rivelata per ciò che effettivamente era: una delle tante avanguardie solipsistiche e sconclusionate, che interessano più per il loro valore di documento storico, che non per il contributo effettivo alla storia dell’arte o anche a quella delle idee. Infatti, guardate a un secolo di distanza, le opere prodotte dal Blaue Reiter fanno quasi sorridere, se si pensa che quegli artisti avevano l’ambizione e la volontà di produrre una frattura decisiva nella storia della civiltà artistica: vi sarebbe stato, secondo loro, un "prima", quello di Fidia, di Giotto, di Raffaello, di Rubens, di Velasquez, e un "dopo", quello dei vari Marc, Kandinskij, Delaunay, Macke, Schönberg, e poi, naturalmente, quelli che si sarebbero messi sulla medesima via, giudicata inevitabile e necessaria. Dei "progressisti", in fondo, anche loro: e, come tutti i progressisti, dei negatori del valore intrinseco delle cose, dei sonnambuli che ignorano il passato e non considerano il presente se non come preparazione dell’avvenire. Dei sonnambuli di un genere particolare, tuttavia: animati, cioè, dalla pretesa di portarsi dietro l’umanità intera, in un certo senso per salvarla, dato che essi hanno compreso quel che gli altri, tutti gli altri, non hanno visto, né capito.

Scriveva Stefano Zecchi nel suo saggio L’artista armato. Contro i crimini della modernità (Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1998, pp. 37-39):

C’è una bellezza esteriore e una bellezza interiore, scriverà Wassily Kandinsky nello "Spirituale nell’arte". Quest’ultima segue la legge della necessità interiore, rinunciando alla dimensione esteriore, convenzionale. Chi non è abituato alla bellezza interiore , la trova naturalmente brutta, perché l’uomo di solito è portato all’esteriorità (specialmente oggi)."

Ma questo modo d’intendere l’esteriorità testimonia ormai il congedo dall’ultima civiltà europea, dalla "Goethe-Zeit", che ha costruito il valore della sua storia attraverso l’opera d’arte. L’esteriorità, a cui Goethe chiedeva di rimanere fedeli, era la forma simbolica e mitica, quella che si apre al mondo e unisce l’arte alla vita.

L’esteriorità, d cui parla Kandinsky, è il mondo da cui fuggire, quello che ha trasformato la realtà in un mercato, massificato la cultura, esaltato il darwinismo sociale, involgarito l’esistenza quotidiana e negato la realtà dello spirito. L’artista che ha fede nella creatività dello spirito deve ritirarsi da questo mondo e trovare la sua vera patria nell’interiorità.

Su questo cammino indicato da Kandinsky sarà del tutto inevitabile che l’arte perda azione e militanza; essa può acquisire il sentimento della denuncia e la condanna della realtà, ma è un sentimento vissuto, quasi protetto, nell’interiorità della coscienza. La salvezza dell’artista si trova, dunque, nella sua capacità di scoprire l’interiorità nell’esteriorità. INTERIORITÀ diviene la parola d’ordine della rivoluzione formale del secolo: con essa si tradirà nel modo più tragico – perché inconsapevolmente e nella convinzione di un effetto opposto — l’arte e la sua stessa possibilità di esistere.

Il grande alibi dell’artista del Novecento è l’appello all’interiore, che tutto gli consente fino alle estreme dimostrazioni della propria inutilità sociale, resa evidente con la progressiva dissoluzione della forma espressiva. L’esteriore, si sostiene, non ha realtà rappresentabile: le emozioni , le sensazioni interiori liberano o’artista dal confronto con la rappresentazione della realtà. Goethe voleva difendere, proprio con questo confronto, la forma della rappresentazione, perché senza di essa l’arte si dissolve in una pura autonomia autoreferenziale.

Teorizzando quest’assenza di relazione, questa autonomia, perché si dovrebbe fare arte? Perché dovrebbe continuare a esistere un’arte che si nutre di interiorità? Per far partecipare gli altri alle proprie emozioni interiori? L’arte non dovrebbe essere, al contrario, visione e significato della verità di un mondo i cui abitati trovano il senso dell’identità e le ragioni delle divisioni, o dell’appartenenza collettiva?

Kandinsky ha creduto,invece, che il cammino verso l’interiore conducesse alla nuova forma dell’arte moderna. Questo percorso è stato compiuto sotto la "guida infallibile" della "legge della necessità interiore", a cui ogni decisione e ogni atto devono fare riferimento. Per esempio, la stessa scelta dell’oggetto dell’arte viene dettata dal principio della necessità interiore; è il "sentimento a decidere e a guidarci"; "l’arte agisce sul sentimento e, quindi, può agire solo col sentimento".

Questo, nelle intenzioni di Kandinsky, significava non solo restituire all’arte profondità immaginativa e all’arista libertà creativa, che il naturalismo aveva limitato in modi ingenui o grotteschi, ma anche responsabilizzare lo spettatore di fronte all’opera, sottraendolo alla passività e alle ovvietà di fruizione. Lo spettatore, dice Kandinsky, è tropo abituato a cercare un "senso, cioè un rapporto esteriore tra le parti del quadro. La nostra epoca, materialista nella vita e quindi nell’arte, ha prodotto uno spettatore che non sa porsi davanti a un quadro, e nel quadro cerca tutto il possibile, ma non cerca la vita interiore, non lascia che il quadro agisca su di lui. Bisognerebbe porsi di fronte all’opera d’arte e sentirne l’effetto astratto immediato".

L’opera "deve comunicare idee e sentimenti": ma se questo è sempre stato un aspetto essenziale dell’arte di ogni tempo, il problema dell’artista nella storia diventa quello di decidere come comunicarli. La rivoluzione formale di Kandinsky, volta a liberare l’arte dal naturalismo e dalla sterilità dell’imitazione, spezza ogni rapporto con la realtà, non cerca un confronto con l’oggetto per cogliere la simbolicità espressiva di una forma che sia davvero ricerca comunicativa di idee e di sentimenti. Con il "principio della necessità interiore", la forma non segue più alcuna norma e può essere modificata senza alcun limite: l’unica regola da seguire "arriva dalla sensibilità dell’artista" dice Kandinsky.

Così la forma dell’arte si chiude in un’assoluta e illimitata arbitrarietà soggettiva. La rivoluzione formale, che intendeva liberare l’artista dall’imitazione della natura, ottiene l’effetto, radicalmente opposto, di chiudere l’arte nel soggettivismo, nell’interiorità. Infatti, "l’unica costrizione alla libertà dell’artista" dice Kandinsky "è l’imperativo categorico della necessità interiore".

Ceto, Kandinsky vede per l’arte un futuro in cui potrà risplendere "la forza spirituale dell’oggettività", una "oggettività che sta nervosamente cercando di esprimersi", ma gli artistiche in questo secolo hanno seguito con rigore la sua rivoluzione (cioè quella maggioranza che ha avuto e ha tuttora il potere nell’arte contemporanea) hanno smentito quest’attesa, dissolvendo la forma, riducendola a un "concetto" rappresentato da un vago o insensato gesto, oppure negando con il futile o con l’effimero l’idea stessa di arte.

In fondo, tutta la storia della modernità è costellata da queste figure o da questi movimenti che, volendo traghettare la cultura, la società, l’economia, l’arte, oltre la crisi di una età di trapasso, hanno deciso di mutare radicalmente le forme e, sovente, anche i contenuti, pensando di preparare il terreno per una prossima rinascita, e invece hanno solo demolito ciò che restava di ancor valido della tradizione, e hanno spalancato le porte al caos, al nulla, all’autodistruzione: maldestri e incoscienti apprendisti stregoni, troppo fiduciosi nei loro mezzi, troppo ottimisti nelle loro diagnosi, troppo semplicisti nei ragionamenti che li hanno portati su posizioni sempre più estreme, sempre più velleitarie e sempre più sconcertanti.

Pensiamo a Marx e alla sua teoria della liberazione finale dell’umanità mediante l’eliminazione dello sfruttamento di classe, che ha portato, in pratica, all’eliminazione della borghesia, ma non alla scomparsa del proletariato, né alla società senza classi, né all’estinzione finale dello stato, ma che, al contrario, ha visto la "fase transitoria" della dittatura del proletariato trasformarsi in un dato permanente, che è durato quanto sono durati i vari regimi comunisti e non un giorno di meno, fino al loro crollo irreparabile e definitivo. Così, il marxismo ha distrutto l’ordine borghese dello Stato ma non ha eliminato lo Stato, anzi, lo ha enormemente rafforzato, e on ha eliminato l’ordine, inteso come forma di dominio di classe, ne ha solo modificato le forme esteriori, sostituendo i quadri dirigenti del partito alla borghesia e replicando lo sfruttamento del proletariato, sia pure in una prospettiva diversa dalla precedente.

Oppure pensiamo all’empirismo di Locke, allo scetticismo di Hume, al criticismo di Kant: nella pretesa di riportare a ordine, chiarezza e ragionevolezza la conoscenza, ristabilendo il legame immediato con la sensazione e con l’esperienza concreta, hanno eliminato la metafisica, la teologia, e, da ultimo, anche la religione; volevano creare una forma di conoscenza più certa, fondata su basi più solide, anche se più ristrette e meno ambiziose, però, alla fine, quel che hanno ottenuto loro e i loro epigoni, è stato di indebolire alla radice il principio della oggettività, verità e certezza del conoscere, e la possibilità di raggiungere il vero, delineando una gnoseologia relativista e una ontologia probabilistica, premesse, a loro volta, della discesa inarrestabile verso la deriva del nichilismo e dell’assurdo. L’angoscia e la disperazione dell’uomo moderno trovano qui la loro radice e la loro codificazione concettuale. Da qui, per reazione, è nata l’idea del filosofo come veggente, e dell’uomo come pastore del linguaggio, e del linguaggio come pastore dell’Essere: quante libertà incomprensibili si è presa la filosofia moderna, da Heidegger in poi.

Non parliamo della poesia moderna: i simbolisti francesi, Verlaine, Rimbaud, Mallarmé, hanno voluto far piazza pulita della parola poetica come depositaria di un significato oggettivo, e l’hanno sostituita con la parola allusiva, evocativa, con la parola "altra" , "pura", "primigenia", che dischiude le soglie del mistero, svelando impensabili corrispondenze fra le cose più diverse; però, di fatto, hanno introdotto la pazzia e hanno reso legittimo qualsiasi arbitrio, qualsiasi stranezza, qualsiasi abuso della "allusività" della parola. Anche qui, il risultato è stato che il pubblico ha finito per restare nauseato e totalmente deluso da una poesia incomprensibile, presuntuosa, delirante, che non si cura minimamente di farsi intendere dal lettore e che si sbizzarrisce in una cacofonia di suoni,m di ritmi, di immagini in totale libertà, senza un principio d’ordine che consenta di risalire dal caos a una rappresentazione accessibile, o anche solo tollerabile, del reale. Così la poesia è diventata la tecnica delle parole in libertà, dissonanti, insensate, e il poeta si è guadagnato la palma dell’esempio più insigne di inutilità sociale e culturale. A che serve, infatti – pur senza adottare il punto di vista dell’utilitarismo – una poesia che non si curi d’essere compresa?

Un esempio, lampante, è dato anche dalla Chiesa cattolica, a partire dal Concilio Vaticano II. I teologi, i cardinali, i vescovi e i sacerdoti di tendenza modernista e progressista hanno voluto rinnovare, aggiornare, rivitalizzare il cattolicesimo; hanno gettato una parte della loro tradizione e sono andati a cercarsi nuovi modelli di riferimento, nuove forme di linguaggio e di ragionamento, nuove mete da raggiungere, facendo perno sull’uomo anziché su Dio: e hanno chiamati tutto ciò, pieni di compiacimento per la loro bravura e intelligenza, "svolta antropologica", come se non vi fosse mai stato nulla, prima di loro nella vita della Chiesa, di altrettanto geniale, una specie di rivoluzione copernicana del cristianesimo. Ma, come ebbe ad osservare Paolo VI, a pochi anni di distanza dalla conclusione del Concilio, dopo aver sperato in una nuova primavera, era giunto un inverno precoce: l’atteso rinnovamento on aveva dato affatto i frutti sperati; i seminari si erano svuotati, le parrocchie erano rimaste semideserte; alla crisi delle vocazioni aveva fatto seguito la crisi dei valori, della morale, della concezione cristiana della vita. La Chiesa aveva intrapreso la strada dell’autodemolizione, proseguita oggi, in maniera quasi furiosa, da papa Francesco: ma del sospirato rinnovamento non si vede alcun segno all’orizzonte, mentre si assiste a un progressivo allontanamento dalla fede da parte delle masse, ad una secolarizzazione radicale.

Un altro caso ancora è quello della nuova psichiatria e delle tendenze rappresentate da uomini come Franco Basaglia. Convinti che il malato di mente, in fiondo, non esiste, perché non esiste un criterio assoluto di sanità mentale, ne hanno tratto la convinzione che il manicomio doveva essere abolito, e che l’assistenza a chi soffre di disturbi psichici deve essere fornita attraverso strutture radicalmente nuove e diverse da quelle concepite in passato, appunto perché deve essere completamente rovesciato il rapporto fra la società e l’individuo (non necessariamente solo l’individuo affetto da patologie). Anche qui, si è partiti da una legittima rivolta contro la cultura esageratamente "oggettivistica" del positivismo per spingersi sempre più lontano, non solo dalle tradizioni, ma dal puro e semplice buon senso, fino a realizzare la sola pars destruens di quanto progettato, ossia la soppressione degli istituti manicomiali, senza però attuare la pars costruens, e cioè lasciando sulla groppa della società, e soprattutto delle famiglie, il peso intollerabile della gestione dei malati di mente. Ed era inevitabile che così fosse, perché il fondo della concezione di Basaglia è fenomenogico ed esistenzialista, ossia prende le mosse da un impianto filosofico che ha suscitato immensi entusiasmi e poi, alla prova dei fatti (come il Blaue Reiter di Kandinskij, come il messianismo marxista, come la svolta antropologica di Karl Rahner — si è rivelata una bolla d’aria.

Dopo tanti apprendisti stregoni, dunque, sarebbe tempo di tornare in noi stessi, con umiltà e fede: riconoscendo la nostra natura creaturale e la nostra finitezza, bisognosa di completarsi in Dio…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Daian Gan from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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