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3 Gennaio 2017Non è più lui; è diventato un altro, pressoché irriconoscibile. Non è più il Friuli nel quale siamo nati, che abbiamo tanto amato, e non sono più i Friulani che abbiamo conosciuto, stimato, apprezzato, nonostante i loro evidenti e numerosi difetti, ma in virtù delle loro poche, e tuttavia solide e ammirevoli, qualità.
Forse, questa mutazione antropologica e sociale si è verificata ovunque, in Italia, in Europa, nel mondo; forse è inevitabile che, nel giro d’un paio di generazioni, tutto cambi, specialmente in quest’ultimo mezzo secolo, quando ogni cosa è cambiata terribilmente in fretta — e non in meglio, checché ne dicano gl’inguaribili progressisti e i modernisti impenitenti. Forse chiunque, in India, in Australia, in Bolivia, se tornasse dopo un tale lasso di tempo nei luoghi dell’infanzia, non li riconoscerebbe, né riconoscerebbe la mentalità delle persone. E tuttavia, ci sembra che sia giusto, se non addirittura doveroso, interrogarsi sul senso del cosiddetto progresso che abbiamo vissuto, e fare i conti, sulla partita delle entrate e delle uscite, circa i risultati del mondo nuovo, che abbiamo costruito negli ultimi decenni: tenendo presenti non solo le conquiste materiali, peraltro relative — a cominciare dal benessere economico, che pareva destinato a durare e accrescersi all’infinito, e invece ci è crollato in testa, respingendoci in una crisi perfino più nera di quella del 1929 — ma tutto l’insieme delle nostre vite: affettività, etica, bellezza, serenità, cultura, sport, equilibrio interiore. E il bilancio a noi pare che sia terribilmente in rosso.
Il Friuli, dunque: terra forte e povera, di gente sobria e modesta, molto laboriosa, molto testarda, molto ritrosa, ma anche molto generosa, una volta che il ghiaccio sia stato rotto. Terra di colline, di castelli, di montagne, di boschi, di storia, di arte, di misura, di sobrietà, di sacrifici quasi disumani; terra di confine, crogiolo di civiltà: là dove s’incontrano tre famiglie linguistiche — a Laglesie San Leopoldo, precisamente; frazione di Pontebba, nel Canal del Ferro -, la neolatina, la germanica e la slava; terra di lavoratori, di emigranti, di solidi operai che hanno steso le traversine della ferrovia transiberiana, una dopo l’altra, fino all’estremità del’Asia, fino al Pacifico, e che hanno eretto case, ponti, strade, dighe, in ogni angolo del mondo, dal cuore dell’Africa alle Cordigliere dell’America del Sud. Gente onesta, schiva, quasi selvatica, dalla testa dura: gente che ha saputo ricostruire la sua terra a meraviglia, con tenacia e fedeltà, dopo il tremendo sisma del 1976; gente abituata a far da sola (fasìn di bessoi, dice sempre), a rimboccarsi le maniche, a non piangersi mai addosso, a non piagnucolare in attesa che si faccia vivo lo Stato. Gente pratica, attiva, fiera, che non ama i vittimismi, né in se stessa, né negli altri. Gente che si sente partecipe dei destini dell’Italia, ma che non si sente, e non è, propriamente parlando, italiana: perché ha una sua lingua, una sua storia, e perché, fino a cent’anni fa, a Gorizia, ad Aquileia, a Tarvisio (e lasciamo stare Trieste, che col Friuli non c’entra niente) sventolava la bandiera dell’imperialregio governo austro-ungarico, un grande Stato multinazionale (quello sì, e non in maniera farlocca, come gli Stati dell’Europa odierna, invasi da milioni d’immigrati) che abbracciava dodici popoli e i cui confini andavano da Leopoli, in Galizia, a Cortina d’Ampezzo, nelle Dolomiti, e da Troppau, nella Slesia austriaca, fino a Cattaro, sulla costa del Montenegro, e a Hermannstadt, nel cuore della Transilvania.
Il Friuli è cambiato, dunque. Anche se ha medicato le sue ferite, anche se ha ricostruito il bellissimo duomo romanico di Gemona e perfino il suo castello medievale, che svetta sul colle, appollaiato a dominare la valle del medio Tagliamento; anche il Friuli è stato contagiato dal male oscuro della modernità, e spazzato dai venti furiosi della globalizzazione, e ha chiamato progresso il regresso, e civiltà la barbarie, e bellezza la bruttezza, e ricchezza la miseria, e intelligenza la stupidità, e un andare avanti il tornare indietro. Ha gettato via il ricco patrimonio della sua saggezza, delle sue radici, della sua fiera identità, perfino del suo buon senso contadino; ed è impazzito.
Pensiamo a certe aberrazioni architettoniche, che stravolgono la bella campagna friulana. Pensiamo a una certa presunzione intellettuale, condita di provincialismo, da quando è stata creata la tanto attesa università di Udine, che, dopotutto non ha portato ai Friulani, secondo noi, quei vantaggi che tanti s’immaginavano (ma era poi un così grande sacrificio, nel terzo millennio, per un ventenne, prendere il treno e andare a Venezia, a Padova, a Trieste?), ma in compenso ha offerto un ulteriore, e discutibile, motivo di autarchia, che, nei Friulani, degenera facilmente in auto-compiacimento e narcisismo). Pensiamo a certi fattacci di cronaca nera, che hanno rivelato come anche in quell’angolo di mondo siano arrivati i peggiori vizi dell’avidità moderna, della gelosia, dell’invidia, della cattiveria, in quella che pareva un’isola felice, che, della modernità, aveva saputo prendere solo le cose migliori. Un altro mito (che rassomiglia i Friulani ai Siciliani: gli estremi si toccano; vedi il discorso del principe di Salina, don Fabrizio, a Chevalley, ne Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa): l’idea che i Friulani hanno di se stessi, di essere i migliori, i più bravi, i più onesti, i più seri, i più belli, e perfino quelli che parlano il migliore italiano; un altro mito, dicevamo, se se n’è andato in frantumi, senza che vi sia stata una vera riflessione su quei poveri cocci. No, i Friulani si credono perfetti; non hanno bisogno di nessuno, loro! E invece, hanno mostrato di essere uomini anche loro, solamente uomini, e non dèi; e hanno mostrato di essere soggetti alle cantonate più clamorose, proprio come tutti gli altri.
Qualche esempio basterà per far capire ciò che intendiamo dire.
Un friulano che tutti hanno conosciuto, mediante la televisione, è stato Beppino Englaro, il papà della povera Eluana: la protagonista, suo malgrado, del primo caso di eutanasia apertamente praticato in Italia, nel febbraio del 2009. Preferiremmo non doverne parlare, per rispetto verso un padre e una famiglia che hanno molto sofferto; pure, non è colpa nostra se quel fatto è diventato un evento mediatico; è stato, anzi, per la loro precisa volontà. Che Beppino Englaro non si sia reso affatto conto di essersi fatto strumentalizzare dal Partito radiale, il quale, come sempre in simili casi, è piombato su di lui come un avvoltoio, sfruttando il suo dolore, per farne la punta di diamante della sua offensiva legislativa e culturale pro-eutanasia (come già era accaduto nel caso del divorzio e dell’aborto), è la cosa più triste di tutta la vicenda. Che egli si sia fatto predicatore instancabile di quel nuovo vangelo, un vangelo di morte; che abbia preteso di insegnare a tutti gli italiani cosa sia bene e cosa sia male, in situazioni simili alla sua, invece di limitarsi a parlare a titolo personale; che non abbia mai pronunciato, che si sappia, una sola parola di ringraziamento per quelle suore, che da tantissimi anni seguivano e accudivano amorevolmente la povera Eluana, e che sempre abbia preteso, con rocciosa certezza, di avere tutto il diritto di far applicare la volontà di sua figlia, parlando a nome suo e adducendo una frase da lei detta, in circostanze ordinarie, circa la sorte che avrebbe voluto avere qualora fosse stata vittima di un incidente grave (cose che un ragazzo di diciotto o di vent’anni può anche dire, senza con ciò valutarne appieno tutta la drammatica portata); che non abbia mai mostrato consapevolezza dell’enorme forzatura e del divario che esiste fra il decidere del proprio destino e decidere quello di un altro, impossibilitato a parlare, e nel dichiararsi il depositario della volontà di colui che giace in coma: tutto questo ci ha profondamente rattristati e ha messo in luce gli aspetti meno simpatici del carattere friulano: l’ostinazione, la presunzione di esser sempre nel giusto, l’indisponibilità assoluta ad ascoltare le ragioni degli altri, a riflettervi, a mutare, eventualmente, le proprie convinzioni. E mai un minimo dubbio, mai un’incertezza, mai un’autocritica, mai un ripensamento.
Eluana è stata portata a morire proprio in una clinica di Udine: coerente conclusione di una tristissima vicenda. Ci eravamo illusi che la città avrebbe protestato; invece la città, o una buona parte di essa, si è detta fiera di aver dato all’Italia una simile prova di civiltà. Ed ecco qui le istituzioni, ecco gli uomini che oggi amministrano il Friuli. Il sindaco, Furio Honsell, a caldo ha commentato: Ritenevo e ritengo ancora che Udine possa dare una risposta giusta e civile a questa vicenda umana. La risposta giusta e civile è stata l’eutanasia; peggio: l’aver condannato Eluana Englaro alla morte per fame e disidratazione. Ed è lo stesso sindaco che, in occasione della prima unione omosessuale celebrata in municipio (e impropriamente chiamata, ormai quasi da tutti, "matrimonio omosessuale"), quella di due donne, per l’esattezza, nel settembre del 2016, ha così commentato: Quello di oggi è un fatto epocale per Udine perché stato compiuto per la prima volta un atto di unione civile tra due persone dello stesso sesso. Un grande passo avanti verso i diritti civili e l’uguaglianza, l’equità e la parità delle persone omosessuali. Un primo passo per superare la sofferenza che tante discriminazioni hanno provocato e continuano a provocare purtroppo in molte altre parti del mondo. Bravo Honsell, un discorso da fare invidia alla Boldrini. Per ragioni anagrafiche, il Friuli in cui egli è nato e vissuto è proprio quello che abbiamo conosciuto noi, eppure si direbbe che ci separino millenni di storia, di civiltà, di pensiero; ci fa l’effetto di un Marziano piovuto dalle stelle.
Se è questo il nuovo Friuli che avanza, se sono questi i nuovi friulani, i nuovi amministratori, i nuovi uomini di cultura friulani (egli è stato rettore dell’Università di Udine, prima di essere eletto sindaco della città), se è questa la nuova classe dirigente, allora noi questo Friuli non lo conosciamo, non lo riconosciamo e ci vantiamo di non averlo mai conosciuto. Il Friuli che abbiamo conosciuto, che ricordiamo con amore e nostalgia, è un’altra cosa. Stentiamo a credere che i Friulani che abbiamo conosciuto si sentano rappresentati dalle parole e dagli atteggiamenti di Furio Honsell; quelli che abbiamo conosciuto, stimato, amato, crediamo che debbano provar e piuttosto un moto di vergogna. Il popolo friulano è sempre stato profondamente religioso, di una fede semplice, ma intensa; un popolo sorretto da un altissimo senso etico: come può riconoscersi nelle parole pronunciate dal sindaco di Udine in occasione dell’eutanasia di Eluana Englaro, e, di nuovo, in occasione del primo "matrimonio" omosessuale? La cultura che traspare da quei discorsi è la tipica cultura liberal-radicale, progressista e globalista, una cultura "arcobaleno" che plaude a tutto ciò che distrugge le fondamenta della nostra civiltà; una cultura aberrante, che disprezza la propria storia, la propria tradizione, il proprio essere, per mettersi alla sequela delle tendenze pseudo libertarie, in realtà sucide, provenienti da ciò che di peggio sta producendo il cantiere impazzito della modernità, specialmente nei Paesi scandinavi e anglosassoni, a torto guardati per decenni come esempi da imitare. Una cultura, soprattutto, che non ha alcuna radice, alcun legame con la terra del Friuli, con la sua gente, con i suoi valori; una cultura aliena, buona per le élites radical-chic, per i benestanti chiacchieroni di "sinistra", i quali, come Nichi Vendola, per libertà e progresso intendono andare all’estero, comprare un bambino da una donna povera, riportarselo a casa e allevarlo con il proprio compagno dello stesso sesso.
Se è questo il nuovo Friuli, ebbene, noi diciamo a voce alta che era meglio, mille volte meglio il vecchio; e che il nuovo ha reciso i legami, ha rotto gli argini, è uscito dall’alveo e non ha nulla, ma proprio nulla, in comune con il vecchio. E il clero friulano, così battagliero negli ultimi decenni, sempre schierato dalla parte del popolo, delle classi subalterne, non ha più nulla da dire? Ha perso la voce d’improvviso? Quei preti che contestavano l’arcivescovo Zaffonato, che dicevano la Messa in friulano, che volevano tornare al Vangelo autentico, come mai adesso tacciono? Quel padre Turoldo che, per esprimere la sua disapprovazione sul fatto che la Chiesa sostenesse il voto referendario contro il divorzio e l’aborto (e che altro avrebbe dovuto fare?), spezzava la corona del Rosario, evidentemente ha fatto scuola, e son germogliate le piantine d’una bella Chiesa modernista e progressista, al passo con i tempi nuovi e meravigliosi ai quali ci è stato concesso di assistere. Eppure, i solidi preti di campagna erano l’anima della spiritualità del vecchio Friuli; se i giovani non hanno saputo prendere degnamente il loro posto, vuol dire che, anche da questo lato, il Friuli è diventato uno degl’innumerevoli non-luoghi della modernità, ricchi solo di centri commerciali e di autostrade, di McDonald’s e di orribili chiese e palazzi avveniristici, brutti e senz’anima.
E che dire delle due quindicenni che attirarono in una trappola sessuale un pensionato (omicidio Sacher, 7 aprile 2013), lo derubarono, lo uccisero crudelmente, e poi, giudicate dal tribunale mature e responsabili, hanno evitato la prigione, perché hanno effettuato un eccellente percorso di recupero; il tribunale, del resto, le aveva giudicate, a suo tempo, incapaci di intendere e di volere al momento del delitto, per cui, poverine, non hanno alcuna colpa, il bruto era l’uomo, evviva la società buonista e permissiva, femminista e garantista, nessuno ha mai colpa di nulla. L’avvocato Rossi ha commentato: Grazie a Dio, il sistema processuale italiano è tra i più avanzati del mondo. Loro hanno sempre affermato di aver solamente cercato di difendersi... Se lo dice lui…
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