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28 Dicembre 2016Lindisfarne, 8 giugno 793: come la cieca violenza non riuscì a distruggere l’Europa cristiana

Fra i secoli VIII e X l’Europa in generale, e le Isole Britanniche in modo particolare, si trovarono a dover affrontare la crisi più grave da quando era caduto l’Impero Romano d’Occidente: l’assalto furioso di popolazioni selvagge, pagane, nomadi o seminomadi, che non provavano alcun rispetto, alcuna soggezione, alcun interesse a un modus vivendi con la civiltà cristiana che allora si stava consolidando, in mezzo a mille difficoltà, e che a un certo punto parvero sul punto di distruggerla dalle fondamenta, precipitandola per la terza volta, nel giro di pochi secoli, nel caos e nella barbarie, dopo la fine di Roma e dopo la fine dell’Impero carolingio.
In quel torno di tempo, la civiltà cristiana dell’Europa, che allora non andava al di là delle coste meridionali del Baltico, né oltre la sponda orientale del fiume Elba, i monti Pirenei e lo Stretto di Messina (essendo sia la Penisola Iberica, sia la Sicilia cadute sotto il dominio arabo), si trovò sottoposta ad una sorta di attacco concentrico da Nord, da Est e da Sud: rispettivamente da parte dei Vichinghi, degli Ungari e dei Saraceni. Fu il momento di maggiore difficoltà che essa dovette affrontare, perfino più grave di quelli che si presentarono nel corso del XVI e XVII secolo, quando i Turchi ottomani, nel 1529 e nel 1683, giunsero ad assediare Vienna e minacciarono di sommergere le difese cristiane, dilagando nell’Europa centrale e spazzando via il cristianesimo, dopo essersi impadroniti di gran parte del bacino del Mediterraneo. Infatti, tra la fine del 700 e la metà del 900, in Europa non esistevano ancora le monarchie nazionali; il sistema politico-sociale era quello del feudalesimo, debole e disgregato, tendenzialmente anarchico; le due autorità universali, il Papato e l’Impero, attraversavano entrambe una fase di profonda debolezza e di continue, faticose trasformazioni, e non erano in grado di fornire una valida direzione alle lotte difensive che i popoli europei dovevano sostenere per la propria sopravvivenza.
I Vichinghi erano così audaci e aggressivi che, risalendo il corso della Senna, nell’885-86 osarono assediare Parigi, ciò che indusse ‘imperatore Carlo il Grosso a pagare un riscatto; gli Ungari dilagavamo quasi ogni anno in Germania, in Italia, in Francia, seminando ovunque terrore e morte e lasciandosi alle spalle vaste regioni distrutte e spopolate (vastata hungarorum, si leggeva sulle carte dell’epoca); i Saraceni, poi, nel corso di strenue lotte, strappavano ai Bizantini una città siciliana dopo l’altra, fino ad impadronirsi di tutta l’isola; stabilivano covi di pirateria sulle coste del continente, si spingevano addentro fino a saccheggiare l’abbazia di San Gallo, in Svizzera; e le basiliche di san Paolo e san Pietro, alle porte di Roma, nell’846. Sarebbe bastata una spinta appena un po’ più forte, e la civiltà cristiana, forse, non ancora consolidata nelle sue fondamenta, sarebbe collassata, con tutto ciò che questo avrebbe comportato in termini di regresso economico e sociale, offuscamento della cultura, perdita del collante che l’aveva edificata: la religione cristiana, diffusa attraverso le istituzioni della Chiesa cattolica, e, in particolare, le autorità vescovili, le abbazie, gli ordini religiosi come i benedettini, e i numerosi missionari che avevano diffuso il Vangelo perfino là dove le legioni di Roma non erano mai arrivate, come nell’Irlanda, che era divenuta un secondo centro di diffusione del cristianesimo, straordinariamente attivo e intraprendente; o come la Frisia, dove san Bonifacio, l’apostolo dei Germani, ebbe il martirio. Se si aggiunge che importanti popolazioni dell’Europa orientale, come i Lituani, erano tuttora pagane, e nulla garantiva il successo di una ulteriore espansione della cristianità in quella direzione (saranno i Cavalieri Teutonici, infatti, a riuscirci, ma al prezzo di molto sangue, come già Carlo Magno aveva fatto nei confronti dei Sassoni), si capirà come le ore della civiltà cristiana potessero apparire contate.
Un episodio particolarmente impressionante del regresso della civiltà cristiana sotto i colpi degli invasori barbarici fu quello del saccheggio e della distruzione di un importantissimo centro della cristianità britannica: l’abbazia di Lindisfarne, fondata da sant’Aidan verso il 635 su di un’isola tidale (cioè separata dalla terraferma dal flusso temporaneo della marea), detta Holy Island, isola santa, presso la costa della Northumbria, una delle sette monarchie anglosassoni sorte dopo il crollo del dominio romano; abbazia che era diventata, oltre che sede vescovile, il principale centro di diffusione del cristianesimo tra le popolazioni semipagane della Britannia settentrionale, insieme a quella di Iona, eretta su una delle Ebridi Interne, in Scozia.
Così ha rievocato quel lontano e drammatico episodio il saggista e giornalista tedesco Rudolf Pörtner nel suo libro L’epopea dei Vichinghi (titolo originale: Die Wikinger-Saga, Wien ud Düsseldorf, Econ Verlag, 1971; traduzione dal tedesco di Gianni Pilone-Colombo, Milano, Garzanti Editore, 1972, 1996, pp. 11-12):
Nelle cronache anglosassoni del’epoca la data dell’8 giugno 793 sta scritta, per così dire, a lettere di sangue.
I monaci del’isola di Lindisfarne, sulla costa del Northumberland, avevano approfittato della bella giornata di prima estate per mettere al coperto il fieno per l’inverno. Il raccolto era buono, il padre celeste aveva chiaramente inviato la sua benedizione sull’isola; e i fratelli, lieti della ricca messe, gliene rendevano grazie in cuor loro. Sul mezzodì spuntarono all’orizzonte, tra mare e cielo, scafi dalle grandi vele oblique. Le prue rivolte all’isola santa s’avvicinavano rapidamente. Questo non preoccupò i pii monaci di Lindisfarne, i quali non conoscevano malizia ed erano sempre pronti , se è lecito credere alle notizie dei contemporanei, a servire non solo il Signore, ma anche gli uomini. Forse gli ignoti navigatori avevano bisogno del loro aiuto; volevano forse rifornirsi d’acqua o di viveri. Poteva pure darsi che, scampati a una tempesta, cercassero soltanto una spiaggia ospitale per concedersi un giorno di riposo.
I frati del monastero di Lindisfarne ripresero ad ammucchiare il fieno. Vivendo in uno dei più prestigiosi luoghi di pellegrinaggio d’Inghilterra, e sentendosi sicuri sotto la protezione dei loro santi, non s’attendevano nulla di cattivo.
L’abbazia era allora vecchia di centocinquantotto anni, fondata nel 635 da monaci celtici di Jona, l’isola di san Colombano in faccia alla costa occidentale della Scozia, e diretta da sant’Aidano, uomo mansueto, pacifico e di fede zelante, che, da Lindisfarne, aveva catechizzati tutta l’Inghilterra orientale. La sua opera era stata proseguita da san Cutberto (prima pastore, quindi priore, poi eremita), il quale si proponeva di fondere gli ideali degli anacoreti irlandesi e scozzesi con le esigenze della scuola benedettina che s’adoprava per la sapienza e l’amore attivo.
Da cinquant’anni, ormai, Lindisfarne era il centro della cultura monacale celtica del Northumberland, luogo di fede, arte e dottrina, famoso soprattutto per la sua scuola scrittoria, la cui opera più celebre, l’Evangeliario del 700, è annoverata tra le più belle creazioni delle scrittorie del primo medioevo. Cent’anni dopo, la fama del monastero di Lindisfarne aveva raggiunto anche il continente, eguagliando quasi in prestigio quella di Lorsch ed Echternach, di Fulda e di Reichenau.
Davvero i pii monaci di Lindisfarne non avevano alcuno di temere le navi sconosciute, che nel frattempo aveva raggiunto il basso fondale dinanzi alla riva dell’isola.
Subito dopo, però, si scatenò l’inferno. Tra urla e schiamazzi, brandendo asce e spade, gli occupanti delle navi irruppero a terra, gettandosi sopra i frati disarmati venuti ad accoglierli in tutta confidenza e rovesciandoli a terra. Quindi "li uccisero; alcuni trascinandoseli dietro in catene, altri cacciandoli di là spogliati delle vesti, ricoprendoli di lazzi ignominiosi, qualcuno annegandoli in mare".
Alla strage non scamparono neppure i servi del convento; anche le donne furono uccise, passate a fil di spada (come dice, leggermente svisando i fatti, l’autore di un libro sui vichinghi apparso nel 1928, e buttato giù furiosamente, per ammissione stessa dello scrittore, "quasi senza sosta letteralmente in cinque settimane").
Avidi di bottino, gli straneri rubarono tutto quanto non fosse inchiodato e ribattuto: s’impossessarono del tesoro della chiesa, calpestarono i luoghi santi, rovesciarono gli altari, distrussero la biblioteca del monastero, saccheggiarono cantine e magazzini, sgozzarono buoi e pecore al pascolo e diedero alle fiamme tutti gli edifici.
Ebbri di vittoria, si reimbarcarono quindi fra gran schiamazzi sulle loro navi adorne di teste di drago, e sparirono lasciandosi dietro rovine fumanti, una spiaggia insanguinata e un’isola spopolata: un luogo orrendo e desolato.
La micidiale incursione del 793 non segnò la fine del monastero, ma certo l’inizio del suo declino, anche perché segnò il principio di quelle incursioni vichinghe che si sarebbero poi trasformate in penetrazione territoriale e in insediamento permanente, dando vita al cosiddetto Danelaw. Tuttavia, anche se i monaci finirono per andarsene dall’isola santa, portandosi dietro il corpo dell’abate san Cutberto (che attualmente riposa nella cattedrale di Durham), sarebbero tornati dopo l’avvento dei Normanni, nel secolo XI; e, ad ogni modo, la presenza cristiana nell’Inghilterra settentrionale non risentì sensibilmente degli effetti di quella triste vicenda.
Più notevoli furono gli effetti psicologici dell’attacco. Anche se il massacro dei monaci e degli abitanti indifesi fu una ben misera ragione di vanto per quegli spietati predoni, lo shock che si ripercosse sull’intera cristianità, quando si diffuse la notizia, fu fortissimo. Oggi noi siamo abituati a considerare lo sviluppo e la preservazione del cristianesimo in Europa, nel corso del Medioevo, e fino ai tempi più recenti, come qualcosa di scontato e di fatale, qualcosa di storicamente inevitabile; tuttavia, a parte le opinioni personali dei filosofi pro o contro il determinismo storico, sta di fatto che i nostri progenitori dei secoli VIII, IX e X non avevano affatto la nostra sicurezza, e ci furono parecchi momenti nei quali essi ebbero la sensazione che tutto ciò che avevano edificato, spiritualmente e materialmente, fosse sul punto di crollare. Senza dubbio la distruzione di Lindisfarne nel 793 fu uno di quei momenti. Parve, a quei nostri progenitori, che la forza bruta e la cieca violenza stessero per sopraffare quel che la Chiesa era riuscita a costruire, oltre che in termini di civiltà e di cultura, anche in termini di fiducia reciproca e di solidarietà umana: il modo in cui quei poveri monaci vennero colti di sorpresa, quando non si aspettavano affatto l’inferno che i Vichinghi avrebbero scatenato contro di loro, parve ribadire che, nella storia, la spada prevale sul Messale, e che nulla può impedire a chi possiede la forza ed è privo di scrupoli, di far ciò che vuole: distruggere, predare, violentare, senza che nulla al mondo possa impedirlo. Persino la viva fede religiosa degli Europei di allora dovette vacillare davanti all’amara constatazione che, se lo stesso Redentore era stato arrestato come un malfattore, processato, flagellato e messo a morte sulla croce, non esisteva alcuna garanzia che la cristianità sarebbe andata incontro a un destino migliore, sotto i colpi simultanei di quei barbari e feroci invasori.
Eppure, nel Vangelo c’è l’assicurazione di Gesù stesso che la Chiesa da Lui fondata resisterà a tutte le persecuzioni: non praevalebunt. E così è stato. Possiamo ora domandarci, in un’epoca storica pur così diversa, ma, per certi aspetti, così simile, qual è la nostra, se quell’angoscioso interrogativo abbia ricevuto davvero una risposta definitiva. La garanzia di Cristo equivale a pensare che la civiltà cristiana sopravviverà a qualsiasi insidia o minaccia, anche senza impegnarsi seriamente nella propria difesa? Cominciamo con l’osservare che oggi non esiste più una civiltà cristiana, ma una civiltà post-cristiana; che molti Europei non ne vogliono più sapere di Cristo e del Vangelo, e che altri, pur seguitando a dirsi cristiani, di fatto non vivono più come tali, e, inoltre, stanno stravolgendo il Vangelo, fino al limite di una tacita apostasia. Di conseguenza, se si verificasse una massiccia pressione dall’esterno — e oggi ne stiamo sperimentando le avvisaglie — l’Europa non avrebbe più in se stessa le risorse per resistere, perché essa, oggi, non crede più a niente, tranne che nel denaro, nel successo e nel piacere. L’Europa medievale, anche quando era inerme, come lo erano i monaci di Lindisfarne di fronte alla violenza selvaggia dei Vichinghi, poteva attingere a un ricco serbatoio di energie spirituali; le vocazioni religiose erano numerose, e l’ideale cristiano pervadeva la vita dei singoli e delle comunità, dalla nascita alla morte. Ma oggi non abbiamo più una tale riserva cui attingere: per cui rischiamo di trovarci inermi sia fisicamente, che moralmente…
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