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Che fine ha fatto l’evangelizzazione?

Che cosa ne è stato dell’evangelizzazione, cioè dell’apostolato cristiano? L’annuncio del Vangelo di Gesù Cristo non è più all’ordine del giorno, nella Chiesa del terzo millennio? Come mai se ne sente parlare così poco? E quando diciamo "evangelizzazione" e "apostolato" non intendiamo solo la predicazione del Vangelo presso gli altri popoli e gli altri continenti, ma anche qui, in mezzo a questa Europa e a questo Occidente ritornati pagani, materialisti, edonisti e profondamente smarriti, profondamente infelici.

Siamo tutti d’accordo: l’Italia e l’Europa nel suo insieme, sono tornate ad essere terre di missione, come lo furono all’alba della civiltà cristiana, nei tempi perigliosi e turbolenti dell’Alto Medioevo. Lo si vede materialmente, per esempio dal fatto che, per predicare il Vangelo, le Chiese europee, fin dagli anni del pontificato di Giovanni Paolo II (1978-2005), hanno dovuto "importare" preti filippini, africani, latinoamericani: esse non ne avevano abbastanza dei propri, per coprire tutte le parrocchie, tutte le diocesi. La crisi delle vocazioni era già un chiaro segnale di questo regresso, favorito dalla secolarizzazione; di questo inaridimento spirituale e di questo allontanamento delle nostre società dalle loro radici cristiane e cattoliche. D’altra parte, il fatto che la nostra Europa sia ritornata terra di missione, come ai tempi di san Bonifacio, l’apostolo dei Germani, martirizzato dai Frisoni, o di sant’Agostino di Canterbury, l’apostolo dei Britanni, o di Cirillo e Metodio, gli apostoli degli Slavi, non significa che la Chiesa cattolica debba allentare l’impegno missionario verso gli altri popoli del mondo: l’una cosa non esclude l’altra, anzi, sono entrambe necessarie, perché Gesù ha raccomandato ai suoi discepoli: Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura (Marco, 16, 15).

Si ha l’impressione che molti cattolici, oggi, a cominciare da certi teologi e da certi membri della gerarchia, considerino non più d’attualità l’argomento "evangelizzazione", oppure preferiscono darne una interpretazione restrittiva, come un "ritorno" all’Europa, da dove, essi pensano, il cristianesimo è partito alla conquista pacifica del mondo. Solo che non è vero: il cristianesimo è "partito" dalla Palestina, come sa chiunque abbia anche solo sentito nominare Gesù Cristo; e poi da lì, grazie soprattutto a Paolo di Tarso, e rivolgendosi non più solo ai Giudei, che nella stragrande maggioranza lo rifiutarono, ma ai pagani, mise le prime radici nel Vicino Oriente, in Siria, in Asia Minore, in Armenia; quindi, in Grecia; infine nel bacino del Mediterraneo, dall’Egitto a Roma, dall’Africa proconsolare alla Spagna; solo da ultimo giunse nell’Europa continentale (per quella settentrionale, dove le armi romane non arrivarono mai, bisognerà aspettare fin dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, e, in parte, fino alla sedentarizzazione degli ultimi invasori barbarici: Normanni e Ungari. Un "ritorno" del Vangelo alle terre delle sue origini, quindi, dovrebbe includere, come parti essenziali, sia Israele, sia la Turchia. In Siria e in Libano i cristiani non avevano mai avuto problemi, negli ultimi secoli, e costituivano delle minoranze consistenti (in Libano, a un certo punto, divennero quasi maggioranza), fino a quando la politica sconsiderata degli Stati Uniti d’America e, in subordine, della Francia e della Gran Bretagna, non ha provocato un marasma politico dal quale essi sono stati letteralmente travolti.

Vi è un sottinteso, un pensiero inconfessato e inconfessabile, nella improvvisa timidezza della gerarchia romana riguardo alla predicazione missionaria fuori dell’Europa e dell’Occidente: un vago complesso di colpa per le crociate dei secoli passati, per il colonialismo, per la conquista violenta, all’ombra della croce, degli imperi dell’America precolombiana; unito al timore di suscitare le reazioni negative delle altre religioni, il giudaismo, l’islamismo, l’induismo, il buddismo, e di alcuni governi animati da un forte spirito nazionalistico, come quello turco, quello indiano e quello cinese; e di apparire, così, incorreggibilmente "superbi" e "sprezzanti" rispetto a quei popoli e a quelle comunità religiose. Ciò è molto triste, ed è sbagliato.

È come se, per farsi "accettare" nel contesto geopolitico e culturale del mondo attuale, molti cristiani avessero elaborato l’idea che bisogna auto-mortificarsi, che bisogna rassicurare gli altri circa la propria decisione di non fare più proselitismo: e questo proprio mentre le altre religioni, e specialmente l’islam, conoscono una fase espansiva senza precedenti, che, con l’aiuto della assai maggiore crescita demografica, porterà entro qualche anno al "sorpasso" dell’islam nei confronti del cristianesimo, su scala planetaria.

Anche nei confronti dei protestanti pare che i cattolici siano paralizzati da una specie di complesso di colpa, tanto che la Chiesa pare esitante a promuovere l’evangelizzazione nell’Europa centro-settentrionale e negli Stati Uniti d’America. Vale la pena di notare che i protestanti non ricambiano simili scrupoli: da alcuni decenni, particolarmente nell’America Latina, essi, con il sostegno finanziario delle banche statunitensi, hanno moltiplicato la loro presenza, ottenuto moltissime conversioni e ridotto drasticamente la presa del cattolicesimo sulle masse di quella parte del mondo, che, fino a neanche mezzo secolo fa, erano cattoliche al 100%, nonostante le politiche ferocemente massoniche e anticlericali di alcuni governi, come quello del Messico. Inutile dire che la recente visita di papa Francesco in Svezia, per i modi in cui si è svolta, quasi a commemorazione dello scisma luterano, ha rafforzato nei cattolici il complesso di colpa, e quasi d’inferiorità, che, da qualche tempo, sembra averli ipnotizzati. Per poter udire una Messa celebrata dal papa, i cattolici scandinavi hanno dovuto insistere non poco e ottenere, infine, un "appuntamento" separato, dopo la Messa interconfessionale, come se il papa avesse paura di dare ai luterani l’impressione di essere troppo "cattolico". Il che è davvero il colmo. Insomma, si direbbe che il tanto sbandierato ecumenismo, verso le altre confessioni cristiane, e l’ancor più sbandierato "dialogo" inter-religioso, verso le altre religioni mondiali, abbiano generato un enorme equivoco: ossia che la Chiesa cattolica, per essere dialogante e per essere considerata in buona fede nel tentativo di "ricucire" lo scisma con le altre confessioni cristiane, debba inibire a se stessa l’evangelizzazione ed archiviare lo spirito missionario, perché, diversamente, verrebbe "ferita" la dignità degli altri e diverrebbe poco credibile la volontà di pace e di riconciliazione della Chiesa stessa. tale è l’inestricabile ginepraio in cui è stata precipitata la Chiesa dal cosiddetto "spirito" del Concilio Vaticano II, tanto apprezzato e magnificato dai teologi neomodernisti e dai vescovi e sacerdoti progressisti! Se questi sono i frutti del Concilio, cioè l’auto-castrazione della Chiesa cattolica, allora è il caso di rivedere radicalmente quella stagione, liberandola dalle recenti incrostazioni mitologiche e celebrative, e riconoscendovi, al contrario, l’inizio di una profonda decadenza e di un processo di contrazione dello spirito stesso del cattolicesimo.

Bisogna dirlo chiaro e forte: quando una religione, magari in omaggio al "dialogo" e alla "tolleranza", rinuncia allo spirito missionario, quando si fa problemi a parlare di apostolato, essa si mette sulla strada della auto-delegittimazione e, in ultima analisi, della auto-distruzione. È come se dubitasse di sé, del suo diritto a esistere e ad annunciare al mondo la missione che le è stata affidata; e ciò in un mondo in cui le altre confessioni e le altre religioni fanno esattamente il contrario, anzi, alcune, come l’islam, ricorrono alla persecuzione violenta degli "infedeli". Ci si faccia caso: l’unica religione ad essere perseguitata, oggi, è il cristianesimo, e specialmente il cattolicesimo. Non è perseguitato il giudaismo; non è perseguitato l’islamismo (semmai, vi sono lotte feroci tra le sue diverse componenti, specie fra sunniti e sciiti), non è perseguitato l’induismo; in linea generale, l’unica religione ad essere perseguitata è quella di Gesù Cristo. I membri delle altre religioni, se sono perseguitati — come i buddisti tibetani, da parte del governo cinese — lo sono non per ragioni religiose, ma per ragioni etniche, politiche o economiche. Gli unici ad essere odiati, perseguitati e uccisi per ragioni puramente religiose, sono i cristiani: come quei lavoratori copti che, in Libia, vennero fatti inginocchiare sulla riva del mare e decapitati dai seguaci del cosiddetto califfato islamico. Così, mentre i cattolici si fanno ancora dei complessi per le crociate di nove o dieci secoli fa, in India, in Nigeria, in Siria, altri non si fanno alcuno scrupolo di perseguitare a morte i cristiani dei nostri giorni, e il mondo non dice niente.

Del resto, si guardi la vita dei santi. Qualcuno vorrà dire che san Giovanni Bosco, l’ideatore della evangelizzazione delle estreme terre del Sud America, o il beato Giuseppe Allamano, fondatore dei missionari e delle missionarie della Consolata, erano dei cattolici intolleranti, incapaci di dialogare, chiusi ottusamente nel senso di superiorità della religione cristiana? Quale tragico malinteso, in questo preteso dialogo inter-religioso e in questo preteso ecumenismo, che significano, in pratica, per molti cattolici, ammainare la propria bandiera e rinunciare a predicare il Vangelo, per un senso erroneo di rispetto verso gli altri. Al contrario: si tratta d’una vera e propria colpa nei confronti delle anime cui il Vangelo non viene annunciato, e di una flagrante disobbedienza nei confronti dell’esortazione di Gesù: Andate e predicate il Vangelo, fino agli estremi confini del mondo. Si vede che i campioni di siffatto ecumenismo e di siffatto dialogo inter-religioso, i vari Enzo Bianchi, i vari Vito Mancuso, ne sanno una più di Gesù Cristo: hanno capito quel che il divino Maestro non aveva compreso, e, forti della loro intelligenza, fanno di tutto per imprimere alla Chiesa odierna la direzione di marcia da essi ritenuta idonea a questi tempi nuovi e meravigliosi di fratellanza universale. Come se la fratellanza universale passasse sopra la rinuncia alla Verità cristiana. Si sono forse dimenticati, costoro, che Egli disse di sé: Io sono la Via, la Verità e la Vita? Non disse: Io sono una delle vie, una delle verità, una delle maniere per giungere alla vita eterna; niente affatto: ma disse soltanto, molto recisamente: Io sono la Via, la Verità e la Vita.

Ebbene: l’ardore apostolico – è un concetto di Sant’Agostino, non di Torquemada o di Frate Mitra — è un effetto dell’amore, anzi, è tutt’uno con esso. Niente ardore apostolico, niente amore; poco ardore apostolico, poco amore. Ecco cosa si cela dietro tante chiacchiere insulse su un malinteso ecumenismo e su un ancor più dubbio dialogo inter-religioso: una carenza di amore; di amore per Cristo, di amore per il Vangelo, di amore per la Chiesa, di amore per la Verità, di amore per i fratelli. Per tutti i fratelli, cioè per tutti gli esseri umani, non solo per i cattolici, né solo per cristiani: anche, e soprattutto, per quelli che non conoscono ancora il Vangelo, e che, forse, attendono, senza saperlo, che qualcuno lo annunzi anche ad essi. Con tutti i loro scrupoli e le loro fisime politically correct, questi signori progressisti e neomodernisti stanno mostrando, nei fatti, poco amore per quella parte di umanità che non conosce il Vangelo. Oggi, 25 novembre 2016, si celebrano i santi martiri del Vietnam: erano anime desiderose di ricevere la salvezza di Cristo, le quali si convertirono al Vangelo e diedero la vita per testimoniare la loro fede. Che cosa hanno da dire i Bianchi, i Mancuso, di quel loro sacrificio? Che fu sbagliato, che fu inutile? E che i missionari cattolici non avrebbero dovuto recarsi in quelle terre e predicarvi il Vangelo? Lo dicano, se è questo che pensano: se pensano che i cattolici non hanno il diritto e il dovere di predicare ovunque il Vangelo, e se sbagliano, credendo di essere nella Verità. Oppure un cristiano deve limitarsi a pensare di essere in possesso di una delle molte verità, alla pari di un giudeo, di un islamico, di un induista, di un buddista, di un ateo? Tutte le verità religiose sono equivalenti, ed è per questo che i seguaci del Vangelo non dovrebbero parlare troppo di Gesù presso gli altri popoli e le altre nazioni? Lo dicano, se è questo che pensano; dicano che, per duemila anni, la Chiesa ha sbagliato; e che il Vangelo stesso sbaglia, che Gesù sbagliava, perché si devono "rispettare" le altre fedi. Dunque, per rispetto ai giudei, non si deve predicare il Vangelo nella terra in cui Gesù visse, nacque e morì. Per rispetto agli islamici, non si deve predicare il Vangelo nelle terre ove misero radici le prime, fiorenti comunità cristiane, e dove esse prosperarono per secoli e secoli. Per rispetto agli ortodossi, non si deve predicare in Georgia, e, per rispetto ai luterani, non si deve predicare in Svezia. Se è questo che pensano, lo dicano. A tanto ci ha portati lo "spirito del Concilio" e l’impostazione pastorale di papa Francesco. Complimenti: non si poteva fare più danno al Vangelo di Gesù Cristo, non lo si poteva tradire meglio, e con più nobili intenzioni di così. È stato un capolavoro in negativo, un’opera d’arte all’incontrario.

Dice san Dionigi Aeropagita che concorrere alla salvezza delle anime è la più divina fra tutte le opere divine. I cattolici lo avevano ben chiaro, per molti secoli, fino al Concilio Vaticano II; poi non ne sono stati più tanto persuasi, e oggi sembrano aver cambiato completamente opinione. Peccato che, così facendo, stiano dando torto anche a Gesù, il quale disse ai suoi: Il fratello consegnerà a morte il fratello, il padre il figlio e i figli insorgeranno contro i genitori e li metteranno a morte. Voi sarete odiati da tutti a causa del mio nome, ma chi avrà perseverato sino alla fine sarà salvato (Marco, 13, 12-13). Ma quei tali cattolici preferiscono, alle persecuzioni, gli applausi del mondo…

Fonte dell'immagine in evidenza: Immagine di pubblico dominio (Raffaello)

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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