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Ave Maris Stella

Alcuni uomini profondi, convertendosi al cattolicesimo, o ritornando alla religione dell’infanzia dopo esserne stati lontani per un certo periodo, scoprono la venerazione della Vergine Maria fin da giovani: è il caso di Giosuè Borsi (Livorno, 1° giugno 1988-Zagora, Canale d’Isonzo, 10 novembre 1915), poeta e scrittore gentile, spirituale, volontario della Prima guerra mondiale e caduto al fronte durante un assalto alle trincee austriache, del quale ci siamo un’altra volta occupati (cfr. l’articolo: Morire a vent’anni, con il libro di Dante nella tasca, davanti al cielo azzurro, pubblicato su Il Corriere delle Regioni il 23/02/2016).

Altri, invece, scoprono la devozione alla Vergine Maria più avanti nel cammino della loro vita, o piuttosto la riscoprono, perché, in genere, nella educazione cattolica essa viene trasmessa fin da quando si è bambini, e difficilmente viene del tutto dimenticata negli anni dell’adolescenza e della giovinezza, per quanto possano essere ribelli e anticonformisti. Tale è stato il caso del più grande fra i poeti del Romanticismo tedesco, Clemens Maria Brentano (Ehrenbreitstein sul Reno, 1778-Aschaffenburg, 1842), di padre italiano e madre tedesca, che ne rimase folgorato da fanciullo, udendo recitare dai monaci, in chiesa, durante una funzione solenne, il Salve, Regina (in latino, clemens, l’aggettivo rivolto alla Vergine, insieme a pia, è identico al suo primo nome di battesimo, il secondo essendo proprio Maria) e che più tardi, da adulto, alla vigilia del ritorno alla fede di un tempo, sciolse alla Vergine Maria alcune delle liriche più belle e commoventi che mai le siano state dedicate, nella sua opera migliore, anche se pubblicata postuma, Le romanze del Rosario (Die Romanzen vom Rosenkranz).

Per dare un’idea del lirismo struggente, originalissimo, quasi onirico, di queste poesie, vogliamo riportarne qualche strofa, fra quelle trascelte dal grande critico letterario svizzero Albert Beguin (La Chaux de Fonds, 1901Roma, 1957), nel suo ormai classico studio L’anima romantica e il sogno. Saggio sul Romanticismo tedesco e la poesia francese (titolo originale: L’âme romantique et le rêve, Paris, Librairie José Corti, 1939, 1960 traduzione dal francese di Ulrico Pannuti, Milano, Il Saggiatore, 1967, pp. 392-393):

Aus den Tälern wächst der Schatten,

Und es betet schon die Sonne

Ihren Abendsegen, schwankend

Auf des Waldes goldnen Krone…

Und zum Rosengarten wandelt

Sich zu baden nun die Sonne,

Einen Mantel webt im Schatten

Ihr die Nacht aus grauem Flore…

Aber rings aus Luft erstarren

Hohe Purpurburgen, goldne,

Wundervolle Inseln wachsen

Aus des Äthers glüh’nden Wogen.

Und die Inseln werden Drachen,

Und die Burgen all Sankt George,

Und der Sonne Strahlen Lanzen

Gen die Drachen blank erhoben.

Aber ewig sich verwandelnd

Wo sie auf einander stossen,

Ziehn sie eine Bucht krystallen

Und der Sonne Bad voll Rosen…

Mahnend zieht die Nacht den Mantel

Vor des Unterganges Tore,

Und die Herzen fühlen alle,

Wer verloren, wer gewonnen.

Die Romanzen vom Rosenkranz, VI, strofe 42, 44, 46, 47, 48, 51.

Traduzione: Dalle valli sorge l’ombra, e già il sole eleva la sua benedizione della sera, fluttuando sulle dorate cime del bosco… E ora il sole va a bagnarsi nel giardino di rose e la Notte gli intesse nell’ombra un manto di grigio velo… Ma, tutt’intorno, si formano, d’aria, alti castelli di porpora; auree, prodigiose isole emergono dagli ardenti flutti dell’etere. E le isole si trasformano in draghi e tutti i castelli in altrettanti San Giorgio, e i raggi del sole in fulgenti lance levate contro i draghi. Ma, trasformandosi di continuo dove essi si ammassano l’uno sull’altro, disegnano una baia cristallina e il bagno del sole pieno di rose… Ammonitrice, la Notte stende il suo manto dinanzi alla porta dell’occidente, e tutti i cuori sentono chi ha perduto, chi ha vinto.

La conversione di Clemens Maria Brentano alla religione cattolica, il suo ritorno al culto della Vergine Maria ("ritorno", in effetti, per modo di dire, dal momento che, in realtà, egli non l’aveva mai del tutto abbandonato, neppure nel periodo in cui si era distaccato dalla pratica religiosa e aveva attraversato una profonda crisi interiore, dovuta anche alle sue vicende personali e familiari: la morte della prima moglie, il secondo, disastroso matrimonio con una donna mentalmente instabile) si può anche leggere come il ritorno a quel sapere spirituale che è proprio o delle anime semplici, o delle anime complesse le quali, tuttavia, dopo aver molto cerato, e molto sofferto, riscoprono la "semplicità" dei misteri divini. Fateci caso: il culto di Maria generalmente non fa parte della religiosità del cattolico "medio", se così’ possiamo chiamare quel tipo di cattolico, assai comune, che possiede una media cultura religiosa, una medio livello di spiritualità, una media coerenza nel tradurre lì’ideale cristiano nella sua vita quotidiana, e che, in linea di massima, non conosce urti, né vede contraddizioni, tra il Vangelo e il mondo, o, almeno, non ne vede troppe, per cui riesce a conciliare benissimo una certa pratica religiosa con il muoversi perfettamente a suo agio nella dimensione secolare. La Salette, Lourdes e Fatima, per non parlare dell’ancora controversa Medjugorje, non lo interessano molto; né possiede particolari simpatie, o mostra particolare familiarità, con la figura e l’opera di mistiche come Caterina Labouré, o di mistici come Alfonso Maria de’ Liguori, che ebbero visioni o che fecero di Maria un aspetto essenziale della loro fede e della loro vita interiore.

No: il culto mariano è particolarmente sentito dalle anime semplici, dalle nonne, dalla gente del popolo, specialmente attraverso la recita del santo Rosario, oppure, senza mezze misure, dai più grandi pensatori e teologi, da anime intellettualmente e culturalmente assai esigenti, le quali, però, a un certo punto della loro ricerca spirituale, si sono trovate davanti alla figura della Vergine Maria e ne sono rimasti affascinanti e conquistati. Non è un caso che alcuni dei più grandi uomini d’arte e di pensiero abbiano scritto per Maria, la madre di Cristo, delle pagine indimenticabili, che sono divenute patrimonio spirituale dell’umanità: basti pensare alla invocazione alla Vergine che apre l’ultimo canto della Divina Commedia di Dante, il XXXIII del Paradiso:

Vergine madre, figlia del tuo figlio,

umile e alta più che creatura,

termine fisso d’etterno consiglio,

tu se’ colei che l’umana natura

nobilitasti sì, che ‘l suo fattore

non disdegnò di farsi sua fattura…

La vita dell’anima, una volta che abbia incominciato a sciogliersi dalle pulsioni più basse e dagli istinti più ciechi, si muove fra il desiderio di portare la luce nel mondo e quello di lasciare il mondo per trovare la luce vera. Probabilmente ciò dipende anche dall’età: finché si è abbastanza  giovani, prevale il desiderio di contribuire a far scendere la luce sul mondo, a inondare di luce la vita quotidiana, per rallegrare anche gli altri, per indicar la strada, per confortare, per sollevare; poi, con l’avanzare dell’età, comincia a farsi sempre più imperioso il desiderio della luce, ma quella vera, non il pallido riflesso che può giungere nel mondo. Sempre meno si crede di poter "illuminare" chicchessia, e sempre più si misura il proprio bisogno di luce, di chiarezza, di aria pura, di altri cieli, di altre terre: la fame di assoluto, la sete di Dio.

I giovani sono portati a interpretare questa dinamica come un tipico processo d’invecchiamento: mano a mano che la fatica e la stanchezza si fanno sentire, mano a mano che le forze incominciano a scemare e la speranza terrena a tramontare, l’anima tende a ripiegarsi in se stessa, a cercare conforto nella contemplazione, a perdere il gusto, e il desiderio, dell’impegno, della lotta, della prova. Questo, però, è solo un punto di vista: il punto di vista della giovinezza, che è un punto di vista più esteriore. Viste dal di fuori, le cose sono così; o meglio: appaiono così. I vecchi, essi pensano, diventano malinconici, rinunciatari, rassegnati; si ripiegano in se stessi, si rivolgono a Dio, si aggrappano a una salvezza che deve venir da fuori. Vista dall’altra parte, però, la dinamica in questione ha delle ragioni assai più profonde: prima fra tutte, la saggezza e la maggiore comprensione della vita che caratterizzano un’anima maturata dall’esperienza, e principalmente dall’esperienza del soffrire e del riflettere, che, di solito, nei giovani è piuttosto limitata. Più si esplorano gli abissi della sofferenza e più si riflette sulla condizione dell’uomo, e più ci si rende conto che tutto quel che si può fare, nella vita – ed è già molto, anzi, è tutto -, consiste nell’aprirsi alla luce divina, nel deporre il proprio io con tutte le sue vanità, compresa quella di rischiarare il mondo, e nel consentire a quella luce d’irrompere nell’anima per rinnovarla, purificarla, passarla al setaccio, come  si fa con la polvere d’oro raccolta insieme all’acqua del torrente.

Clemens Brentano oscillò per tutta la vita fra i due atteggiamenti, strano miscuglio – come molti altri romantici, del resto – di misticismo e sensualità, irruenza e ponderazione, ingenuità e profondità: lui, che, dopo aver amato molte donne, e non aver trovato la felicità, né averla data, presso alcuna di loro, trascorse sei anni al capezzale di una grande mistica, la suora agostiniana Katharina Emmerich, per raccogliere sulla carta le sue visioni estatiche: lui, il poeta fastoso e dalla sensibilità ardente come il fuoco, fattosi volontariamente umile scrivano, affinché non andassero perdute quelle perle di misticismo che sgorgavano dal mistero di un’anima santa (è stata proclamata beata da Giovanni Paolo II, nel 2004), sul cui corpo fragile e malato erano comparse le stimmate della Passione di Gesù Cristo. E non solo visioni, ma anche profezie: alcune delle quali, in cui si parla del travaglio della Chiesa degli ultimi tempi, trascinata verso l’apostasia e ingannata da un clero mondano e secolarizzato, appaiono di stupefacente attualità.

Brentano fu un uomo irrequieto, in perenne ricerca della verità e della luce: viaggiò, lesse, strinse legami con uomini e donne notevoli, senza mai trovare quel che cercava, se non dopo la conversione e il ritorno alla religione dell’infanzia, il cattolicesimo. La sua devozione per la Vergine Maria gli ispirò alcuni dei sui versi più belli e commoventi: fu il cantore della Stella del Mare, che sorge a illuminare la rotta ai naviganti smarriti sulle acque oscure dell’esistenza terrena, e che li guida verso il porto sicuro, lontano dalle tentazioni, fuori dal peccato, verso orizzonti infiniti di bellezza e di pace.

Tutti i grandi spiriti che sono tornati a Cristo, hanno sentito anche il richiamo poderoso della Madre sua, quale mediatrice di grazia e pace. Si presti attenzione a questo fatto: i teologi modernisti e i preti progressisti non parlano mai, o quasi mai, della Vergine Maria, la Stella del mare. Perché mai?

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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