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È normale che la Marina, anziché difendere i confini, promuova l’invasione?

I confini non sono un dettaglio secondario, non sono un optional, non sono un gioco: essi esistono perché esistono gli Stati; se si nega la ragion d’essere dei confini, e se, di fatto, essi vengono aboliti unilateralmente, cioè senza una contemporanea e reciproca abolizione da parte della controparte, si tratta di un suicidio deliberato da parte di quello Stato o di quel gruppo di Stati. Questa è la prima riflessione che occorre fare a proposito dell’ondata di migranti/invasori/sostitutori di popolazione che irrompono in Europa e che sbarcano specialmente in Grecia e in Italia, ma non, guarda caso, in Spagna, che è a brevissima distanza dalle coste dell’Africa e che ha perfino due piccole enclaves sulla costa del Marocco: Ceuta e Melilla. Evidentemente, il popolo spagnolo e il governo spagnolo hanno idee diverse dalle nostre, e ben chiare, su ciò che riguarda i confini e sul modo di fronteggiare la cosiddetta emergenza migranti: che non sono migranti, ma invasori, e che non è un’emergenza, perché è ridicolo parlare di emergenza per un fenomeno che prosegue, e che si accresce di anno in anno, ormai da alcuni decenni, né accenna ad attenuarsi.

La seconda riflessione è che è inutile avere dei confini, se non si dispone della forza, nonché della volontà politica, per farli rispettare. Ripetiamo: non solo la forza militare, ma anche la volontà politica di adoperare la forza, anche solo in forme dissuasive, in caso di necessità. Quando si presenta un reale caso di necessità? Non è poi tanto difficile rispondere a questa domanda: quando sono in gioco gli interessi primari e vitali della nazione. Pertanto, se una determinata nazione, allorché sono minacciati, direttamente o indirettamente, i suoi interessi primari e vitali, o non possiede la forza militare, o non è disposta ad usarla, per sostenerli e per tutelarsi, allora quella nazione non ha più il diritto di esistere, poiché è essa stessa che ammaina la propria bandiera ed è come se proclamasse al mondo di non credere nel proprio diritto ad esistere. Ad esistere in quanto nazione sovrana e indipendente, si capisce. Tutt’al più, una simile nazione potrebbe balbettare e mendicare di sopravvivere come colonia o protettorato di altre potenze: ma, ovviamente, il suo destino finale sarebbe deciso altrove, poiché, di fatto, essa ha abdicato alla propria sovranità e si è auto-sospesa dal novero delle nazioni indipendenti e sovrane.

Esiste un clamoroso precedente storico al quale possiamo rifarci: quello della Repubblica di Venezia. Dopo oltre mille anni di storia gloriosissima, la Repubblica di Venezia, quando l’Italia era contesa fra le armate napoleoniche e quelle asburgiche, scelse la neutralità disarmata, fu invasa dagli uni e dagli altri e, infine, fu mercanteggiata e spartita fra le due potenze, con il Trattato di Campoformio del 17 ottobre (25 vendemmiaio) 1797. Chi non è disposto a battersi per far valere i suoi diritti e per difendere i suoi confini, è destinato a finire in quel modo; e, in un certo senso, è giusto che sia così: perché la vita non riconosce alcun diritto a colui che non ha voglia di vivere, e chi non è disposto a battersi per la propria sopravvivenza, dimostra, con ciò stesso, di non aver voglia di vivere, di considerare la vita una faccenda tropo difficile da affrontare, e preferisce rimetterla nelle mani di qualcun altro. Nel caso dell’Italia odierna, crediamo di sapere quale sia la ragione principale della scarsa propensione del nostro governo a battersi per la sopravvivenza della nazione: la favola bella che, dopo la Seconda guerra mondiale (scatenata dai brutti e cattivi, cioè Hitler e Mussolini, contro i buoni, cioè il resto del mondo), l’umanità, e specialmente l’Europa, sono entrate nell’era felice della pace universale e permanente, del cosmopolitismo, della solidarietà internazionale: favola originata dalla necessità di mascherare a se stessi la dura realtà che l’Italia è uscita da quella guerra doppiamente sconfitta, perché umiliata oltre che schiacciata, e che i vincitori non hanno per niente rinunciato a far valere i loro diritti, a tempo indeterminato e a spese dei vinti. Di conseguenza, chi vuol sopravvivere nel consesso delle nazioni, deve esser pronto a usare le armi, se necessario, o, almeno, a far vedere che è disposto ad usarle (altro discorso è, poi, se le userà davvero: anche la politica del bluff fa parte del corredo della diplomazia di una nazione sovrana). Gli Inglesi lo sanno, i Francesi lo sanno, i Tedeschi lo sanno; ma noi non vogliamo saperlo.

Anche gli Spagnoli lo sanno. Quando il governo marocchino, l’11 luglio 2002, fece occupare da una minuscola task force di 13 uomini l’ancor più minuscolo isolotto di Perejil, situato nello Stretto di Gibilterra, disabitato e rivendicato sia da Madrid, sia da Rabat, la risposta della Spagna fu pronta ed efficace: il mattino del 17 luglio, 28 soldati scelti spagnoli sbarcarono sullo scoglio, catturarono i marocchini, li impacchettarono come salami e li rispedirono, indenni, al loro Paese. Il messaggio era stato chiarissimo: non sognatevi di riprovarci. Si trattava solo di pochi metri quadrati di territorio, ma la posta in gioco era molto più alta: si trattava di vedere se il governo spagnolo era disposto a lottare per difendere i suoi confini. Dietro il Marocco, infatti, c’era il sostegno ufficiale della Lega Araba, vale a dire di milioni d’islamici; e nondimeno, la Spagna non ebbe la minima esitazione. Vale la pena di ricordare che la velocissima operazione di riconquista dell’isolotto (poi nuovamente abbandonato, ma solo dopo averne sgombrato la presenza marocchina, sicché la definizione dello status giuridico resta aperta e impregiudicata) fu denominata Recuperar Sobernia, cioè "ripristino della sovranità". Se la Spagna non avesse agito, allora, così come decise di agire, si può facilmente prevedere cosa sarebbe successo. Sta di fatto che, da allora, nonostante l’estrema vicinanza del Marocco, le spiagge spagnole non sono state prese d’assalto dai barconi dei cosiddetti profughi, come invece avviene per le coste italiane. Non osiamo pensare a come si sarebbe comportato il governo italiano, se si fosse trovato in quei frangenti, all’epoca dell’azione di forza marocchina su Perejil. Possiamo però facilmente immaginarlo: basta pensare a come si è comportato il governo italiano quando, il 15 aprile 1986, la Libia di Gheddafi sparò un missile contro Lampedusa, peraltro senza causare danni; o quando, per anni e anni, le motovedette tunisine, libiche e perfino egiziane (l’ultimo episodio è di pochi giorni fa) hanno assalito, mitragliato, sequestrato una quantità di pescherecci siciliani della flotta di Mazara del Vallo, in acque internazionali; o quando il governo dell’India ha arrestato a tradimento, come fossero due volgari malfattori, due membri della Forze Armate italiane che viaggiavano, come scorta, a bordo di una petroliera italiana: si è regolato, cioè, non facendo assolutamente nulla, se non chiacchiere e proposte di accomodare le cose mediante il pagamento di un riscatto.

E adesso torniamo alla questione dei confini e del rispetto della sovranità. Se l’Italia vuol continuare ad esistere come Stato, sia pure dopo essersi infeudata sia alla N.A.T.O. (che vorrebbe trascinare, follemente, i partner europei in una crociata antirussa, contro i loro interessi nazionali), sia all’Unione europea, cioè alle banche tedesche che si comportano verso le economie più deboli come rapaci conquistatori in tempo di guerra, allora è chiaro che dobbiamo difendere i nostri confini, a cominciare dai confini marittimi. Ed è altrettanto chiaro che una Marina militare non serve, se non si è disposti ad usarla, o a mostrare di volerla usare (torniamo al discorso del bluff: ma nell’ottica di un rischio calcolato, assumendo anche l’eventualità di un invito a metter giù le carte), come ha fatto la Spagna, in piccolo, nel luglio del 2002. Le portaerei, checché ne pensi il presidente Renzi, non servono solo ad ospitare dei vertici internazionali, se poi non si è disposti a metterle in gioco per la difesa attiva dei propri interessi nazionali. Qualcuno dirà che questo discorso è esagerato ed è anche crudele, perché, sull’altra riva del Mediterraneo, non ci sono Stati nemici, ma solo masse di profughi meritevoli di compassione e accoglienza. Spiacenti, ma non è così: questa è un’altra favola bella che ci viene raccontata dai mass-media di regime, e anche, in larga misura, dai vertici della Chiesa cattolica, i quali hanno dato istruzioni in tal senso a tutti i sacerdoti, affinché i fedeli, in ciascuna parrocchia, sappiano che cosa pensare del fenomeno migrazione. Siamo di fronte ad una invasione programmata e lucidamente pianificata a tavolino, non ad un fenomeno spontaneo; ma, anche se fosse tale, il governo italiano avrebbe comunque tutto il diritto di fronteggiarlo con qualunque mezzo, nel superiore interesse della sicurezza nazionale.

Abbiamo detto, all’inizio, che l’abolizione de facto dei confini equivale a un suicidio, se non viene attuata simultaneamente dalla controparte. Ma qual è la controparte dell’Italia (e dell’Europa), nella vicenda dei migranti/invasori? È l’Arabia Saudita, in primo luogo; poi, gli Emirati Arabi Uniti, l’Oman, il Bahrein, il Kuwait. Sono Paesi ricchissimi, grazie al petrolio: e infatti sono loro che, sottobanco, pagano sia l’Isisis, sia i "viaggi della speranza" dei migranti, che sarebbe più giusto chiamare "viaggi dell’invasione"; essi, però, di migranti, non ne accolgono neppure uno. Il loro obiettivo finale è conquistare e islamizzare l’Europa, sostituendo la popolazione europea con quella afroasiatica: e qui, i loro disegni s’incontrano con il Piano Kalergi e con le oscure trame dei grandi banchieri internazionali per meticciare l’Europa, sino a farla scomparire come entità autonoma, affogandola nel gran mare del melting pot. Non avendo la forza militare per una invasione armata, ci provano in questa maniera: facendo breccia nella nostra pietà e nei nostri scrupoli morali, davanti a dei barconi sovraccarichi di persone affamate e assetate, in pericolo di naufragare, con tanto di donne e bambini al seguito (e tuttavia, significativamente, carichi al 90% di baldi giovanotti che sembrano tutto, fuorché dei profughi di guerra: e infatti non lo sono, se non nel 5% dei casi). Loro ci provano: volevano vedere come avremmo reagito. Lo hanno visto: e ai primi barconi ne sono seguiti altri, molti altri; sempre di più. Le migliaia di "profughi" sono diventate decine e centinaia di migliaia; presto saranno milioni. E non solo la nostra Marina militare non difende i nostri confini: li va addirittura a recuperare in mare, persino a poche miglia delle coste libiche. Fanno una telefonata con il cellulare, e le nostre navi accorrono. A spese nostre. Li prendono a bordo e li trasportano in Italia, dove vengono sistemati e alloggiati a tempo quasi indeterminato, in attesa del riconoscimento dello status di rifugiati, che, chissà perché, o arriva sempre, o, se non arriva, non impedisce a costoro di restare, magari da clandestini, come e quanto vogliono.

La Marina italiana… Dispiace dirlo, ma è sempre quella che, l’8 settembre del 1943, si arrese e si consegnò, senza combattere, al nemico. Non parliamo, sia ben chiaro, dei marinai: uomini valorosi, che affrontarono una lunga ed impari lotta, fino al sacrificio estremo: a corto di tutto, perfino della nafta per uscire dai porti e affrontare il nemico, lottarono con intrepido coraggio contro la marina più potente del mondo. Parliamo degli ammiragli, degli alti papaveri gallonati, e specialmente di quelli che stavano sulle comode poltrone di Supermarina, a terra: parliamo dei vili o dei traditori che consegnarono Pantelleria senza combattere, che consegnarono Augusta senza combattere: fortezze poderose, che avrebbero potuto, e dovuto, essere difese strenuamente, così come il nemico aveva difeso strenuamente Malta. In seguito, è stata diffusa la leggenda degli ammiragli bravi e buoni e di un Mussolini cattivissimo, perché voleva punire quei vili e quei traditori (traditori non del fascismo, ma della patria: perché era la patria ad essere invasa): valga per tutti il libro di Gianni Rocca Fucilate gli ammiragli, pietista e vittimista fin dal titolo. Strano Paese, l’Italia: dove molti, troppi, sono pronti a commuoversi per i destini infelici delle singole persone, anche dei colpevoli di crimini abietti; ma dove nessuno è mai disposto a versare neppure una lacrima sul destino della patria. Sia come sia, la domanda è sempre la stessa: da che parte stanno, gli ammiragli? Da che parte sta la classe dirigente? Dalla parte del popolo italiano, o da qualche altra parte?

Il popolo italiano sa, comincia a capire, che qualcuno ha abusato della sua bontà e disponibilità; che qualcuno lo ha fatto fesso, spacciando degli invasori per profughi e presentando come emergenza umanitaria un piano d’invasione ben congegnato. Ma ora questo popolo buono, ma non stupido, si sta svegliando e si sta rendendo conto della situazione. E si chiede perché mai la Marina militare, pagata con il denaro dei contribuenti, debba andare far servizio taxi per gl’invasori, quando un’azione decisa, ancora al tempo della caduta di Gheddafi, occupando militarmente i cinque o sei porti libici dai quali partono le barche dell’invasione, avrebbe chiuso i rubinetti e arrestato la marea. Ci sarebbe stato un prezzo di vite da pagare? Se è per questo, un caro prezzo l’Italia lo sta pagando da molti anni in Afghanistan (55 morti fino ad ora), impelagandosi in una guerra di cui nessuno ha mai compreso gli scopi. In questo caso, almeno, l’interesse nazionale sarebbe stato evidente. Siamo certi che la Gran Bretagna, la Germania o la Francia agirebbero così, se fossero al nostro posto. Ma tutto è iniziato il 28 marzo 1997, quando una nave albanese con 120 "profughi" fu speronata da una corvetta italiana, e perirono molte persone. Da allora il senso di colpa ci paralizza, ci rende inermi…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Christian Lue su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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