
Da quel santo eremita nella foresta di faggi che lezione per noi uomini moderni
13 Novembre 2016
Il peggiore traviamento della civiltà moderna è aver misconosciuto il valore della sofferenza
14 Novembre 2016C’è solitudine e solitudine. La solitudine — lo abbiamo già detto e ora lo ripetiamo — non è, necessariamente, un male; al contrario, può essere un gran bene: può fare un gran bene al percorso di consapevolezza dell’anima che cerca se stessa. Specialmente quando è voluta, quando è cercata, non come un fine, cioè come una fuga, ma come un mezzo per trovare la verità interiore, essa non solo non deve spaventare, ma, al contrario, andrebbe coltivata da ciascuno come parte essenziale della propria disciplina di vita, come elemento indispensabile della maturazione spirituale. Quando, invece, non è voluta, né desiderata; quando è vissuta come una tremenda punizione e come una esclusione dal consorzio degli uomini; quando non produce null’altro che tristezza, scoraggiamento, disamore di sé e pulsioni di morte, allora è una nemica temibile, mandata contro di noi dalle potenze dell’Inferno per piegare la nostra fibra e per consegnarci, inermi e indifesi, agli istinti autodistruttivi che giacciono quiescenti nelle abissali, inesplorate profondità del nostro essere più segreto.
Per prima cosa, bisogna distinguere fra la solitudine della massa e la solitudine del singolo.
Nella società di massa, le masse sono "sole" per definizione: sua caratteristica è proprio quella di spezzare i legami della socialità e di rinchiudere i suoi membri nel cerchio stregato di un isolamento efficientistico e produttivistico; tipico esempio, la catena di montaggio, nella quale il lavoro è razionalizzato al massimo e le possibilità di relazioni umane fra i lavoratori sono semplicemente annientate. Ma anche la vita in un grande condominio e in quartiere popoloso è un esempio tipico: pur vivendo, in uno spazio ristretto, a contatto di gomito con altri soggetti, ciascuno si sente, ed è, tremendamente solo, perché non esistono vere relazioni e tutto congiura contro di esse: dalle strutture urbanistiche (mancanza di servizi, di locali pubblici, di luoghi dove le persone possano socializzare) alla mancanza di tempo (ritmi sempre più veloci, per cui è impossibile fermarsi, a cominciare dalla viabilità stradale). Nella società di massa non vi sono più persone, né individui, ma piuttosto non-persone, che si muovono in non-luoghi, attraverso un non-spazio: una specie di paese delle meraviglie alla rovescia. Nessuno ha del tempo da dedicare all’altro; anzi, per parlare con maggior precisione, nessuno ha l’occasione di accorgersi dell’altro, per cui lo stesso interesse umano nei confronti del prossimo, e sia pure del proprio collega di lavoro o del proprio vicino di casa, si affievolisce gradualmente, fino a sparire quasi del tutto. I membri della società di massa appartengono ad una umanità perduta, come le dodici tribù perdute d’Israele: nessuno sa dove siano finiti, ma quel che è certo è che essi hanno lasciato i loro corpi fisici nel mondo visibile, e tutto il resto se n’è andato altrove.
Le persone, gli individui, tuttavia, nella società di massa, non scompaiono del tutto. Qualcuno, con fatica, sopravvive: sono quei soggetti "creativi" che, anche prima dell’avvento della società di massa, rappresentavano la parte pensante, la parte decisionale della popolazione: la cosiddetta élite creativa, o anche il cinque per cento creativo, perché pare che, statisticamente parlando, si tratti, mediamente, del 5% della popolazione (comprendendo in questa percentuale sia i leader positivi, sia i cosiddetti leader negativi, ad esempio i grandi criminali o gli iniziatori di scismi, di disordini, di lotte civili). Costoro sopravvivono, perché possiedono una personalità che non si adatta completamente alle condizioni, anonime e spersonalizzanti, della società di massa; la loro intelligenza si ribella, e la loro volontà li aiuta a resistere: però, sovente, sopravvivono come degli emarginati, come degli spostati, perché le loro qualità non vengono apprezzate e i loro meriti non sono riconosciuti. Nella società di massa, è più facile che le posizioni eminenti – nella cultura, nell’arte, nella politica e perfino nella scienza – siano raggiunte da individui mediocri, ma ambiziosi, che riflettono fedelmente le necessità e le stesse aspettative dell’uomo-massa, e che vengono più facilmente apprezzati e pubblicizzati dai mezzi d’informazione di massa, magari anche solo per l’aspetto fisico. Il singolo individuo che, nella società di massa, rimane se stesso, e difende vittoriosamente il proprio essere, in genere si trova davanti a tre possibili alternative: o diventare un ribelle, il più delle volte in forme distruttive (talvolta non per se stesso, ma per la società: come quelle star del rock duro che incitano il pubblico giovanile alla trasgressione, magari nelle forme più estreme), o lasciarsi andare alla deriva, trasformandosi in un reietto o in un barbone (sorprenderà, forse, sapere che molti clochard sono persone dotate di buoni studi e ottima intelligenza); oppure sfruttare a proprio vantaggio il conformismo e l’appiattimento dominanti, trasformandosi, per così dire, in domatori di leoni, e instaurando, nelle forme più svariate (ad esempio, anche nella forma mediatica) una sorta di potere personale.
Dunque, la solitudine dell’uomo-massa è una condizione esistenziale che egli subisce del tutto passivamente, in quanto subisce, e sostanzialmente accetta, il quadro complessiva di cui essa è l’espressione: l’uomo-massa non contesta le regole del gioco, non esercita una critica su di esse, se non nelle singole circostanze in cui lo penalizzino vistosamente; ma, per il resto, egli sembra averle introiettate così bene, che non riuscirebbe neppure a immaginare una vita diversa. Ciò non significa che l’uomo-massa non soffra la solitudine, tuttavia ne soffre in maniera inconsapevole, se per consapevolezza s’intende la coscienza e la comprensione delle ragioni autentiche di una realtà data. Si tratta di una solitudine generica e complessiva: generica, perché non lo investe in quanto singolo individuo, ma in quanto membro anonimo di una massa; complessiva, perché non riguarda questa o quella situazione, ma l’intera struttura della sua esistenza. Un tal genere di solitudine non può che produrre un malessere indefinito, sfuggente, anche se estremamente reale: come un rumore di fondo al quale ci si abitua, o al quale si crede d’essersi abituati, salvo poi, d’improvviso, cedere alle tensione inconsciamente accumulata, ed esplodere in un atto di ribellione, magari autolesionistica. Ed è così, infatti, che molti uomini-massa cedono di schianto alla pressione della solitudine. Una persona può anche abituarsi, o credere d’essersi abituata, a vivere sola sul lavoro, sola nel tempo libero, sola alla sera, quando si torna a casa, dopo aver fatto la spesa al supermercato, si cena in fretta, si ascolta un po’ di musica, oppure si guarda un po’ la televisione, poi si va a letto, magari dopo essersi imbottiti di psicofarmaci o di sonniferi, per godere almeno della tregua recata dal riposo notturno. A lungo andare, però, una esistenza di questo genere è logorante: la solitudine, la povertà o l’assenza delle relazioni umane, il fatto di sfiorare così tante persone sull’autobus, in ufficio, al ristorante, ai grandi magazzini, al cinema e perfino nella propria abitazione, ma senza incontrarne davvero alcuna, agisce silenziosamente, ma distruttivamente, erodendo un poco alla volta, e disseccando, le sorgenti stesse della vita: finché, un giorno, ci si rende conto di tutta la fatica, di tutta l’inutilità, di tutta l’infelicità di un tal modo di trascinare i propri giorni, e non se ne può più: ciò che è stato tollerato per mesi e per anni, diviene insopportabile anche se dovesse continuare solo per un altro minuto.
Invece la solitudine dell’individuo autentico, che è rimasto se stesso anche nella società di massa, è di un genere diverso: egli la può misurare in tutta la sua estensione e profondità; ne sa individuare le cause e la radici; arriva anche a scorgere i possibili rimedi, ma, nello stesso tempo, si rende conto che non esistono le condizioni minime per reagire ad essa, cioè, in ultima analisi, per creare una diversa rete di relazioni sociali, fondata su altri presupposti e che si esplichi con altre modalità. Da ciò deriva un senso di profonda frustrazione e di amarezza immedicabile: stati d’animo che sono la cifra per accostarsi ad una gran parte della produzione letteraria, artistica e filosofica del XIX e soprattutto del XX secolo. I romanzieri, i poeti, i pittori, gli scultori, i pensatori della modernità, riflettono questo tipo di disperazione: una disperazione lucida e disincantata, che essi, molte volte, hanno avuto il gravissimo torto di rovesciare, senza filtri, sul pubblico: su quel pubblico di uomini-massa che vivono una solitudine per certi aspetti (quelli esteriori) simile, ma altri aspetti completamente diversa dalla solitudine dell’intellettuale. In questo modo, gli intellettuali dell’Ottocento e del Novecento sono stati, molte volte, essi stessi i diffusori di una ulteriore pestilenza della modernità: quella della disperazione e del disincanto. Essi, però, se non altro, avevano la possibilità di comprenderne a fondo i meccanismi ed, eventualmente, di socchiudere altre porte, di intravedere altri cieli, di individuare nuove prospettive; mentre il loro pubblico di uomini-massa altro non poteva fare che immedesimarsi in quelle descrizioni desolate, in quelle analisi spietate, in quelle riflessioni atroci, e sentir spegnersi ancora di più, in se stesso, l’amore per la vita e lo stesso rispetto di sé. Libri come La nausea di Sartre, o come Insaziabilità di Witkiewicz, o come La noia di Alberto Moravia (e potremmo citarne centinaia e migliaia), avranno forse dato un qualche misero sollievo a chi li ha scritti, sotto forma di sfogo personale, e perfino una sorta di perversa soddisfazione nell’interpretare il ruolo di lucidi demistificatori di quel gigantesco inganno che è l’esistenza; ma al pubblico, senza dubbio, non hanno fatto altro che del male, aumentando il senso di scoraggiamento, di angoscia, di desolazione, e proprio in chi non possiede strumenti critici per elaborare tali sentimenti, né per individuare quanto di esagerato, di artefatto, di furbesco, può esservi in certe opere e da parte di certi autori.
Sta di fatto che gli "eroi", o piuttosto gli "antieroi" della letteratura moderna sono caratterizzati da una estrema solitudine interiore (anche se non è tale la loro condizione sociale, ad esempio perché sposati e perfino con figli): da don Chisciotte e Amleto, su, su, fino a Zeno Cosini e a Tonio Kröger e poi, ancora, fino ai romanzi ed al cinema dei nostri giorni, il quadro è sempre lo stesso: è disperatamente solo Lester Burnham, l’impiegato quarantenne protagonista del film American Beauty, che pure ha una moglie, una figlia, dei colleghi di lavoro, dei vicini di casa; così come è disperatamente sola la protagonista del romanzo (molto brutto) di Elfriede Jelinek, La pianista, che pure vive con sua madre ed è una insegnante di musica, a contatto sia con dei colleghi, sia con i giovani studenti. Sono dei soli anche i personaggi di Proust, di Kafka, di Pirandello, di Svevo, di Joyce, di Musil, di Woolf; ed è solo con se stesso e con le sue paure l’uomo delle filosofie novecentesche, un essere-per-la-morte, secondo Heidegger, o un essere in bilico sulla voragine del nulla, per Sartre, o un essere che i meccanismi sociali vorrebbero condurre alla follia, come per Foucault. Molti di questi (cattivi) maestri hanno alimentato nel loro pubblico, formato da tanti uomini-massa, l’illusione che il male della solitudine, così come ogni altro male, sociale e personale, siano il frutto di strutture politiche ingiuste o di sistemi economici sbagliati e immorali: il che, in parte, è senza dubbio vero: ma, appunto, solo in parte. È tipico dei cattivi maestri spacciare la parte per il tutto: ciò crea una deformazione della realtà e induce in errore, perché spinge a cercare delle soluzioni erronee, o insufficienti, a dei problemi che sono molto più complessi e articolati di come sono stati presentati. Un altro tipico esempio di cattivi maestri sono stati i grandi guru della contestazione sessantottesca, i vari Marcuse, Reich, Pasolini, e anche coloro i quali si sono fatti amministratori delegati, e sapienti sfruttatori (per ritagliarsi la propria fetta di gloria e di successo) di una tranquilla disperazione post-rivoluzionaria, come i vari Eco e Galimberti, o di una velleitaria e infantile crociata anti-sistema, come i vari Antonio Negri e Michel Onfray.
D’altra parte, lo abbiamo visto, la solitudine non è, necessariamente, una brutta cosa; non sempre e comunque, è una nemica da evitare. Il dramma dell’uomo modero consiste proprio in questo: che è immerso in una solitudine amara e desolata, da un lato; ma, dall’altro, teme e fa di tutto per evitare quell’altra solitudine, quella benefica, che gli permetterebbe di ritrovare se stesso, o, almeno, di fare il punto della propria condizione esistenziale e di recuperare quei valori, quegli affetti, quelle idee senza i quali la sua vita gli appare miseramente mutilata, ma che i meccanismi della società di massa hanno offuscato e relegato in un cantuccio della coscienza. In altre parole, l’uomo moderno soffre della solitudine maligna, però la accetta o almeno la sopporta, perché la vive come una componente necessaria di quella realtà complessiva che gli appare come insostituibile, e dalla quale spera di ottenere anche vantaggi o, perlomeno, occasioni favorevoli; mentre detesta e cerca di fuggire, in maniera pesino nevrotica, la solitudine benigna, apportatrice di chiarezza spirituale e di pace interiore. Il che è uno dei tanti paradossi della modernità, i quali hanno questo elemento in comune: l’incapacità di vedere le cose per ciò che sono realmente, e la tendenza a fuggire dal bene e ad inseguire il male.
Come si esce da questo vicolo cieco? Come ci si è entrati: tornando a Dio. Finché era amico di Dio, l’uomo non ha mai sofferto di una così atroce solitudine: sia perché poteva parlare con Lui, sia perché trovava negli altri, figli dello stesso Padre, dei compagni di viaggio coi quali confidarsi. Tutto è cambiato quando ha volto le spalle a Dio. Ma nulla gli vieta, ora, di gridare: Abbà, Padre!…
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