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2 Novembre 2016
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2 Novembre 2016La nostra civiltà ha iniziato a morire quando la donna ha perso l’orgoglio d’essere madre

La nostra società è in affanno: certo, per tutta una serie di complesse ragioni finanziarie, economiche, sociali, ed anche culturali; una, però, spicca su tutte le altre e s’impone all’attenzione perfino dell’osservatore più distratto, del testimone più frettoloso: il crollo demografico dei popoli d’Europa, che si accompagna all’altissimo numero di interruzioni volontarie della gravidanza, ormai consentita per legge in ogni Paese, e alla frequenza e metodicità delle pratiche contraccettive, che hanno definitivamente separato il piacere sessuale dalla riproduzione e, quindi, la drammatica diminuzione della fertilità delle donne europee.
La cosa appare tanto più evidente quando la si confronta, per contrasto, con l’altissimo tasso di fertilità delle donne immigrate in Europa dall’Africa e dall’Asia. Basta uscire in strada per rendersene conto, anche visivamente: le donne europee, sempre più spesso, vanno a spasso con il cane al guinzaglio; le donne straniere immigrate, quasi sempre, con uno stuolo di bambini, il più piccolo in braccio o in carrozzella, e gli altri che trotterellano al seguito. Le donne europee pensano alla carriera, al successo, all’arte, all’impresa, alla palestra, allo sport; le donne immigrate pensano a far nascere i figli e ad accudirli. Di fatto, siamo noi europei ad esserci allontanati da uno schema culturale che è sempre esistito anche nel nostro continente, e che vedeva nella maternità il compimento della realizzazione piena dello statuto sociale e psicologico della donna; siamo noi che, da un paio di generazioni circa, abbiamo cambiato idea su cosa significhi essere donna e su quale sia la vocazione naturale della donna.
Grazie alla cultura femminista, da circa mezzo secolo le donne europee (e quelle americane ancora prima di loro) si sono persuase che rimanere incinte e mettere al mondo dei figli è una subdola strategia adottata dal maschio-padrone per tenerle sottomesse, e che il matrimonio è una trappola sociale dal quale bisogna guardarsi, se non si vuole finire come le nonne di un tempo: rassegnate, stanche, svuotate, precocemente avvizzite, vecchie a quarant’anni come scarpe da gettar via, divenute inutili a se stesse e agli altri, ritratto vivente della desolazione e dell’amarezza. A partire da quel momento le donne europee, anche se non lo sentivano, anche se non lo avevano mai desiderato fino ad allora, hanno incominciato a struggersi per competere con l’uomo sul suo stesso terreno; per avere accesso a tutte le professioni e a tutti i mestieri praticati dall’uomo, da quello di camionista a quello di paracadutista, da quello di architetto a quello di guardia forestale, passando per quello di atleta professionale, compresa la boxe, il lancio del peso e la lotta libera. Tutto come l’uomo, per non essere da meno dell’uomo (il film Soldato Jane insegna). Tutto come l’uomo, per dimostrare a se stesse, e soprattutto all’uomo, che qualsiasi pretesa di superiorità maschile è totalmente infondata, persino negli ambiti più tradizionalmente maschili. Il campionato di braccio di ferro? Anche la donna. L’alpinismo d’alta quota, il lancio col parapendio? Anche la donna. Il reporter di guerra, l’ufficiale di marina? Anche la donna.
La maternità, in questa nuova disposizione dell’animo femminile, conosce il puto più basso della sua storia. Mai come oggi essa è stata screditata, ignorata, disprezzata. Essendo la palla al piede che ha impedito alle donne, per secoli, di ottenere il posto che spetta loro nella società, solo le più arretrate, le più deboli, le più sottomesse, hanno continuato a porselo come un traguardo importante, In pratica, delle traditrici della causa dell’emancipazione femminile. Se fosse stato per loro, le donne sarebbero ancora sottomesse al dispotismo maschile, come lo sono state per generazioni. Ma, per fortuna, a pensarla ancora così è solo una piccola minoranza di donne arretrate.
Condivisibili, in questo senso, ci sembrano le riflessioni svolte a suo tempo dall’insigne biblista francescano Anselmo Mattioli (in: Cara Mamma…, a cura di Padre Mariangelo da Cerqueto, Perugia, Edizioni Frate Indovino, 1989, pp. 81-82):
Tanti sono, oggi, i desideri di vita e di intraprendenza che vibrano e s’intrecciano nell’animo di ogni donna, quanti sono quelli che brillano nell’animo di ogni uomo. Nella conquista della parità dei così detti diritti (legittima, s’intende) ogni donna ama e vuole essere attivamente presente in ognuna delle professioni e della arti che sono state, per un lungo passato, proprie dell’uomo, o almeno più largamente proprie dell’uomo. La donna intende essere là ovunque è l’uomo. E numerosi sono diventati anche per la donna gli ideali da raggiungere, come sospirata meta di una sua piena realizzazione. L’uomo persegue le vie diverse dell’arte e s’impegna a creare delle seducenti rappresentazioni? La donna non intende mancare. L’uomo si affatica nei più svariati campi della ricerca scientifica, e, se la fortuna gli arride, vi coglie onori e successi. La donna non intende più stare a guardare. Dovunque esiste un lavoro che offra guadagno, là vorrà ormai essere presente anche la donna, e molto più, là dove si raccoglie ammirazione, prestigio e gloria. E questo, perché dalla assoluta parità dei diritti si è passati facilmente all’idea di una necessaria parità di ruoli. Non sorprende, quindi, che in questa corsa verso la piena assoluta parità di ruoli con l’uomo, abbia subito e continui a subire un profondo offuscamento il ruolo più strettamente femminile. Quello della maternità. L’orgoglio di essere madre, ha, cioè, sotto molti aspetti, subito un tracollo. Le cifre sulla denatalità nei paesi più industrializzati, la mancanza o la scarsità di bambini nelle famiglie, e quindi nella società, il progressivo aumento di uomini e donne della terza (quarta) età sono cifre note a tutti.
Non è qui, certo, il momento di aprire un dibattito, a livello sociologico e umano, per chiarire se il discredito verso la maternità sia o non sia da porsi tra le componenti che agitano e tormentano il mondo moderno, e quindi tra le cause che stanno all’origine delle forme più aberranti del pensiero e della vita di oggi.
Quel che conta rilevare è che agli occhi di quella sana antropologia, che fu raccolta già dalla Bibbia, ed è diventata patrimonio di tutto il pensiero cristiano, la maternità appartiene ai più alti gradi della dignità della donna. È da pochi mesi uscita (11 ottobre 1988) la grande Lettera Apostolica "Mulieris dignitatem", nella quale Giovanni Paolo II ha messo in luce e stabilito i tratti più veri ed autentici della dignità della donna, e della sua varia presenza nel mondo odierno. Vari e solenni sono gli aspetti presi in considerazione, e tra questi non manca, appunto, quello che esalta la donna come datrice di vita. Qui, in questo ruolo, in realtà, già la Bibbia vide, ammirò e celebrò una delle più alte espressioni della donna. Il nome dato dai sapienti alla "prima" donna, a Eva, volle essere un omaggio di venerazione alla donna in genere, come colei che è più vicina al mistero della vita (Gen., 3, 20). In ebraico, il nome di Eva è Háwáh, che è la forma più arcaica del verbo "essere" o "vivere"(háyyáh). Non sono difatti più attendibili le altre ipotesi avanzate da alcuni, nel passato, a questo proposito. E il motivo per cui alla donna, più che all’uomo appartiene l’idea e la realtà della vita, è che la donna è "madre". è qui, nella maternità, che si realizza il nome di Eva: "l’uomo (Adamo) chiamò la moglie Eva (Háwáh) perché essa fu la madre di tutti i viventi" (Gen., 3, 20)., Con il nome di Zoè ) Vita), la prima antica versione greca della Bibbia (la così detta Settanta) tradusse in greco il nome di Eva, e un’altra antica versione greca, quella di Simmaco, lo tradusse con quello di Zóogónos, "datrice di vita".
Fu così, sullo sfondo di questo ruolo di datrice di vita, che come ogni donna gioì sempre di una gioia immensa di trovarsi feconda e madre, altamente soddisfatta e orgogliosa dei suoi figli, così’, al contrario, ogni donna sterile e priva di prole non riuscì mai, anche se circondata dalle affettuose attenzioni del marito e non priva di un notevole benessere economico, a scrollarsi di dosso un senso di incolmabile tristezza.
Da donna datrice di vita a donna mascolinizzata, viriloide, proiettata a tutto campo verso il mondo della competizione sociale, e liberata, finalmente, dal fardello della maternità; libera, anche sessualmente, di prendersi tutto il piacere che vuole, con chi vuole (preferibilmente con altre donne, secondo la dottrina femminista più radicale, così da recidere per sempre ogni tipo di "dipendenza" dal maschio; con uomini oppure sia con donne che con uomini, nella versione più "liberale" e pragmatica del femminismo), senza dover temere alcuna gravidanza indesiderata; e libera, anche in caso di gravidanza, dall’obbligo di portarla avanti, grazie alla legislazione abortista che perfino i cattolici d’Europa hanno, in gran parte, voluto e preteso, la donna della fine del ‘900 e del principio del terzo millennio guarda con un sorriso di condiscendenza (o di segreta invidia) l’album ingiallito della nonna, con quelle immagini piene di bambini, di figli e nipoti, e con quell’incomprensibile sorriso stampato sul viso di coloro che, in base all’assioma portante dell’ideologia femminista, avrebbero dovuto essere delle creature frustrate, infelici, profondamente umiliate e offese dalla barbara abitudine del maschio di metterle ripetutamente incinte. E invece, vallo a sapere perché, quelle benedette nonne guardano l’obiettivo del fotografo e sorridono. Sorridono! Ma di che cosa? Vallo a sapere; senza dubbio, come riflesso condizionato della loro sottomissione.
Sta di fatto che la denatalità dell’Europa, unita al concomitante fenomeno della immigrazione straniera (e a quello, non meno significativo, anche se meno appariscente, della emigrazione degli europei, soprattutto giovani laureati in cerca di una professione adeguata, e anziani stanchi di sopravvivere a fatica con la loro modestissima pensione), sta provocando una rapida trasformazione del quadro etnico, sociale e culturale del nostro continente: sempre meno europeo, sempre meno identitario, sempre meno radicato nel suo passato e nella sua tradizione, e sempre più meticciato dal basso, nonché insidiato, dall’alto, da un’ideologia gnostico-massonica mirante alla radicale sovversione del retaggio cristiano (vedi l’orripilante cerimonia d’inaugurazione, svoltasi il 1° giugno del 2016, della Galleria di base del San Gottardo, in Svizzera). Tempo due o tre generazioni, e l’Europa, così come si è definita nel corso di mille anni di storia, sarà soltanto un ricordo sbiadito, che la cultura dominante vorrà far dimenticare in fretta: proprio come le fotografie ingiallite delle nostre nonne, cariche di bambini e nondimeno, inspiegabilmente, serene e sorridenti. Eppure, se questo è un futuro che non vogliamo, né per noi, né, soprattutto, per i nostri figli, bisogna che ci scuotiamo in fretta e ci rendiamo conto dei veri termini del problema.
È chiaro, infatti, che il crollo demografico non è che il riflesso di un vuoto esistenziale, di un impoverimento culturale e di uno sradicamento spirituale, che partono assai da lontano, per lo meno dall’illuminismo del XVIII secolo, se non prima ancora, con il libertinismo del secolo XVII, o con l’avvento dell’economia capitalista, nel XVI; ed è altrettanto chiaro che tutto ciò ha avuto molto a che fare con il processo di secolarizzazione e con il rifiuto, sempre più aspro, della religione cristiana che ha accompagnato gli ultimi quattro o cinque secoli, e che si è tradotto, in pratica, in un rifiuto della stessa civiltà e della stessa identità europea. Come separare, infatti, il cristianesimo dall’Europa? Come rendere l’Europa non più cristiana e post-cristiana, senza recidere le sue radici vitali, la linfa stessa che la mantiene in vita? È evidente che non è possibile: pertanto è giocoforza dedurre che quanti hanno voluto la scristianizzazione, lo hanno fatto nella piena consapevolezza che, così facendo, avrebbero condotto la civiltà europea verso il tracollo, e i popoli europei verso il progressivo suicidio demografico. Abbiano più volte indicato in quale direzione vadano cercati gli autori di un simile disegno, che è stato pianificato a tavolino e studiato fin nei particolari, e niente affatto il risultato di una tendenza spontanea e "naturale" della nostra società.
In questa sede, ci preme sì evidenziare il ruolo decisivo che, nel suddetto suicidio, che è stato morale prima ancora di essere demografico, ha avuto la cosiddetta cultura femminista, ancor oggi sbandierata come altamente meritoria per l’emancipazione della donna e carica di meriti storici, dato che, senza di essa, la donna sarebbe ancora relegata nel triste ruolo di madre e di moglie e non avrebbe potuto godere delle meraviglie della parità con l’uomo. E ci piace porre una domanda, l’unica domanda onesta che sia giusto porre alla donna dei nostri giorni: se davvero ritenga di essere più felice, più realizzata, più fiera di sé, di quanto non lo fossero le nonne dei vecchi album fotografici di famiglia. Perché, se per caso la risposta fosse dubitativa, o addirittura negativa, allora varrebbe la pena di domandarsi se il gioco sia valso la candela, e se la donna "emancipata" moderna non sia stata che lo strumento volontario, ma inconsapevole, di una nuova e raffinata sudditanza…
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