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9 Ottobre 2016Marte, come si sa, è un corpo celeste notevolmente più piccolo della Terra, della quale è il pianeta più prossimo in direzione dell’esterno del Sistema Solare. La distanza minima dalla Terra si aggira sui 75 milioni di km.; ha un diametro equatoriale di 6.800 km., circa la metà di quello terrestre (che è di 12.700 km. circa), e la sua massa è poco più di un decimo di quella terrestre. In compenso ha due satelliti, mentre la Terra ne ha uno solo, la Luna; però, mentre la Luna è un corpo di proporzioni abbastanza consistenti (con un diametro di 3.470 km: più di metà di quello marziano, e una massa che è circa un ottantesimo di quella terrestre), i due satelliti di Marte sono veramente minuscoli: Deimos e Phobos, ossia il Terrore e la Paura, hanno un diametro medio che è rispettivamente, di 12,4 e di 22,2 km. Perciò, mentre nel caso della Luna si può parlare, più che di un pianeta con il suo satellite, di un sistema binario Terra-Luna, in cui la seconda esercita una attrazione non piccola sul corpo principale (e basti pensare al fenomeno delle maree), per quanto riguarda il Pianeta Rosso le cose stanno ben diversamente: le sue due lune, qualunque sia la loro origine, esercitano una influenza veramente minima sul loro pianeta.
D’altra parte, esistono delle stranezze significative, che hanno dato parecchio da pensare agli astronomi. Infatti Deimos e Phobos, scoperti dallo statunitense Asaph Hall, rispettivamente il 12 e il 18 agosto del 1877, hanno una forma alquanto irregolare, tutt’altro che sferica, e sono disseminati di crateri; Phobos è sette volte più massiccio e sei volte più luminoso del suo compagno. Circa la loro origine, le due ipotesi principali sono quella che si tratti di due asteroidi "catturati" da Marte (la fascia degli Asteroidi orbita fra Marte e Giove) e quella che siano il prodotto di una accrezione di materiali vaganti nello spazio, o, più verosimilmente, di materiali espulsi da Marte in seguito all’impatto con qualche gigantesco meteorite. È degno di nota il fatto che lo scrittore Jonathan Swift, nel suo celebre romanzo I viaggi di Gulliver, del 1726, descriva i due satelliti di Marte, che gli astronomi di Laputa, l’isola volante, conoscono e ne studiano il moto: e questo in un’epoca in cui la scienza nulla sapeva della loro esistenza (anche se Keplero aveva fatto una congettura al riguardo, senza alcuna specifica osservazione astronomica a sostegno), dato che i telescopi dell’inizio del XVIII secolo non era sufficientemente potenti per mostrare realmente le due lune di Marte. In genere gli studiosi odierni riferiscono questa circostanza come una mera stranezza o una curiosa coincidenza, ma la liquidano senz’altro, definendola un episodio assolutamente casuale. Più intrigante, allora, è il fatto che Phobos orbiti intorno a Marte a una distanza di neppure 10.000 km. dalla sua superficie (per la precisione, 9.380), mentre la distanza media di Deimos da Marte è di 23.460 km. L’estrema vicinanza di Phobos al suo satellite ha sempre incuriosito molto gli scienziati, fin dal momento della sua scoperta.
Ebbene, nel 1959 l’astrofisico Josif Samuilovic Šklovskij (1916-1985) se ne uscì con una ipotesi estremamente audace, che mise a rumore l’ambiente scientifico internazionale: ipotizzò, infatti, che Phobos non fosse un satellite naturale del pianeta Marte, ma che fosse di natura artificiale: vale a dire, costruito da esseri intelligenti per qualche loro scopo. Šklovskij era un personaggio piuttosto conosciuto a livello mondiale, anche, o soprattutto, perché era nota la sua apertura verso la possibilità dell’esistenza di altre creature intelligenti nell’Universo, e nel fatto che gli umani potessero stabilire delle relazioni con esse, per iniziativa dell’una o dell’altra parte. Egli riteneva che esistesse una prova eloquente dell’esistenza di una civiltà aliena: la dispersione di energia elettromagnetica, dovuta, a suo parere, alle comunicazioni extraterrestri. Il progetto S.E.T.I. (acronimo per Search for Extraterrestrial Intelligence) si sarebbe sviluppato quindici anni dopo, nel 1974, partendo da questa filosofia: ossia dalla convinzione che esistano delle civiltà in grado di comunicare mediante le onde radio, e che la nostra potrebbe mettersi in contatto con esse inviando, a sua volta, dei segnali destinati alle stazioni riceventi che fossero capaci di captarli.
Prima di proseguire, bisogna fare mente locale a proposito delle conoscenze terrestri riguardo al Pianeta Rosso. Da quando, nel 1877, l’astronomo italiano Giovanni Schiaparelli, dall’osservatorio di Brera, aveva notato delle "linee" quasi regolari che solcavano la superficie marziana, e ne aveva dato comunicazione al mondo, chiamandole, convenzionalmente, "canali", si era sviluppato un dibattito nella comunità scientifica, che raggiunse l’acme negli ultimi anni dell’Ottocento e nei primi del Novecento, fra quanti sostenevano il carattere naturale di tali formazioni geologiche, e quanti, invece, sostenevano, o, almeno, non escludevano, la possibilità che si trattasse, piuttosto, di manufatti dovuti all’opera di una civiltà evoluta, creata da esseri intelligenti. Quello che si sapeva allora, o quello che si riteneva di sapere, sull’atmosfera, sulla temperatura superficiale, sulla forza di gravità e sulla eventuale presenza di acqua allo stato liquido sul pianeta Marte, non permetteva di escludere categoricamente l’ipotesi più affascinante, quella della presenza di una civiltà altamente evoluta, che aveva realizzato i canali proprio per difendersi dal progressivo e inesorabile processo di desertificazione del pianeta. Così, l’idea di una civiltà marziana pateticamente in lotta contro il tragico destino di vivere su un pianeta morente, e che stava compiendo prodigi d’ingegneria per ritardare la fine inevitabile; oppure, e parallelamente, quella di una civiltà giunta alla disperazione davanti alla prospettiva dell’inaridimento totale del suolo, ma abbastanza evoluta sul piano tecnologico per progettare una eventuale migrazione in cerca di luoghi più ospitali in cui trasferirsi, il primo dei quali, con tutta evidenza, avrebbe potuto essere proprio la nostra Terra, attecchì presso una parte del pubblico. Essa divenne addirittura familiare dopo che furono dati alle stampe i libri di un astronomo statunitense, Percival Lowell, formanti la trilogia: Mars, del 1905; Mars and Its Canals, del 1906, e Mars As the Abode of Life [Marte come dimora della vita], del 1908; anche se va precisato che Lowell propendeva a credere che la civiltà costruttrice dei canali fosse vissuta in tempi remoti, e le sue gigantesche opere di canalizzazione testimoniassero non già la vita presente di quel pianeta, ma quella passata. In compenso, dell’argomento si impadronì la letteratura popolare del nascente genere fantascientifico: e i Marziani, più o meno pacifici, più o meno bene intenzionati nei confronti dei Terrestri, divennero, da quel momento, una presenza costante e largamente diffusa nell’immaginario collettivo.
Bisogna anche dire che, in quegli anni, molti scienziati, e non solo il pubblico dei non specialisti, parevano istintivamente portati a cercare nei pianeti più simili alla terra, delle condizioni di vita abbastanza paragonabili alle nostre, o non troppo diverse, quasi per reagire ad un senso di solitudine che l’allargamento degli orizzonti cosmologici pareva aver gettato negli animi di tutti. Nel 1915, per esempio, il chimico e fisico svedese Svante Arrhenius sostenne, nel suo libro Stjarnonas Öden, che la copertura nuvolosa del pianeta Venere – il pianeta "gemello" della Terra, e molto più simile ad essa di Marte – doveva essere formata da acqua condensata, proprio come le nuvole terrestri, e che, di conseguenza, una gran parte della superficie di quel pianeta doveva essere coperta da paludi caratterizzate da un clima caldo-umido, appunto per l’effetto-serra prodotto dalla costante copertura nuvolosa, oltre che per la maggiore vicinanza al Sole. Egli si spinse a paragonare la foresta pluviale che doveva esistere sulla superficie di Venere, invisibile ai nostri telescopi, alla foresta equatoriale africana nel bacino del Congo; e suggerì che, forse, essa era popolata da una fauna simile a quella vissuta sulla Terra al tempo dei grandi Rettili, particolarmente nel Carbonifero.
Quando lo scienziato russo di origine ebrea Josif Šklovskij se ne venne fuori con la teoria secondo la quale Phobos sarebbe una luna artificiale, la credenza nella civiltà marziana e quella nella eventuale abitabilità di Venere erano, entrambe, cadute da tempo nell’ambiente scientifico (anche se, ovviamente, sia l’una che l’altra sopravvivevano tenacemente, e anzi brillantemente, nella letteratura fantascientifica, tutt’altro che disposta a separarsi da immagini e situazioni così stuzzicanti per la fantasia dei lettori di romanzi popolari). Ciò non toglie che quel retroterra, diciamo così, psicologico, esisteva, e non era stato del tutto dimenticato neppure in alcuni ambienti scientifici, specie da quando i viaggi spaziali erano incominciati e i temi cari a Jules Verne tornavano prepotentemente di moda, anche nel cinema e alla televisione, parallelamente agli avvistamenti dei misteriosi, e sempre più inquietanti, Oggetti Volanti Non Identificati. Si faccia caso alle date: l’episodio dell’avvistamento di un "disco volante" da parte di Kenneth Arnold, che diede origine a una vera e propria psicosi da U.F.O., risale al 1947; la corsa allo spazio fra statunitensi e sovietici, al 1957. Sta di fatto che l’avventurosa ipotesi di Šklovskij trovò una sponda sensazionale, e probabilmente inattesa, proprio negli Stati Uniti, allora in feroce competizione con l’Unione Sovietica per la conquista dello spazio, e specialmente della Luna, allorché il dottor Fred Singer, consigliere speciale del presidente Eisenhower sugli sviluppi spaziali, e Raymond Wilson jr., direttore di Matematica applicata alla N.A.S.A., ripresero e rilanciarono l’ipotesi del russo e si spinsero ancora più in là; il secondo dei due studiosi, infatti, giunse ad affermare che Phobos potrebbe essere una colossale base che orbita attorno a Marte (citato da David Icke in Il risveglio del leone, Edizioni Macro, 2011, 2011, p. 484). Come abbiamo visto, alla fine degli anni Cinquanta e negli anni Sessanta esisteva il clima giusto perché una simile ipotesi trovasse spazio e venisse dibattuta nelle sedi più qualificate. Ma su cosa si basava, esattamente? In sostanza, gli elementi che originarono l’ipotesi di Šklovski erano soprattutto tre: primo, il fatto che la densità di Phobos, anche rispetto alla sua massa pressoché irrisoria, fosse debolissima, come se non fosse fatto di rocce, ma di materiali più leggeri; secondo, la presenza di un cratere, enorme per le piccole dimensioni della luna, denominato Stickney, come se Phobos fosse letteralmente cavo al suo interno; terzo, l’estrema vicinanza dell’orbita del satellite al suo pianeta (meno della metà della distanza di Deimos), che pareva suggerire una origine artificiale, come se la sua finzione fosse appunto quella di esercitare un costante monitoraggio della superficie marziana sottostante.
Oggi, in seguito ad osservazioni ravvicinate, rese possibili, in particolare, dal passaggio della sonda dell’Agenzia Spaziale Europea denominata Mars Express, lanciata nel 2003, siamo in grado di saperne di più, e si direbbe che l’ipotesi del professor Šklovskij sia da archiviare definitivamente. In effetti, è risultato che questa minuscola luna è realmente semi-cava; che la sua densità, estremamente bassa, è distribuita inoltre in modo disomogeneo, per cui, in certi punti, essa è quasi impercettibile; e che l’enorme cratere che la caratterizza pare il classico cratere da impatto, per quanto incredibilmente profondo: e, pertanto, non prodotto da escavazioni artificiali, come taluno aveva immaginato. Comunque, gli argomenti più forti, relativamente parlando, a favore dell’ipotesi artificiale, erano una diretta conseguenza della difficoltà di spiegare l’origine di Phobos in termini naturali. Gli scienziati erano, e sono tuttora, assai combattuti fra diverse teorie, come sopra abbiamo accennato; per cui l’ipotesi di una origine artificiale pareva una maniera elegante di tagliare il nodo di simili difficoltà. D’altra parte, il fatto che nemmeno allo stato attuale si sia approdati ad una spiegazione univoca e definitiva circa l’origine del satellite, lascia ancora aperta una sia pur minima finestra all’ipotesi artificiale. I critici più decisi di quest’ultima, non avendo, neppure essi, un argomento realmente decisivo e probante fra le mani, sottolineano una considerazione di ordine logico: a quale scopo una civiltà aliena avrebbe voluto "costruire" Phobos, quale satellite di osservazione? Si sarebbe trattato, dicono, di una impresa futile, illogica, estremamente dispendiosa e tecnicamente difficilissima, i cui vantaggi non sarebbero mai stati tali da compensare le spese e le fatiche. Da Phobos, infatti, la visuale su Marte risulta assai meno ampia e favorevole di quel si potrebbe immaginare: in pratica, a differenza di quel che accade per Deimos, da Phobos non si riesce a controllare tutta la superficie del Pianeta Rosso. E allora, perché compiere complicatissime perforazioni attraverso le fragili rocce del satellite creandovi degli impianti d’osservazione limitati e difettosi, oltretutto a rischio di disintegrare letteralmente un corpo celeste così piccolo e fragile?
È noto che, per alcuni, il pianeta Marte avrebbe ospitato una civiltà, attestata da manufatti fotografati dalle sonde Viking e Mariner, e perfino ciclopiche sculture, come le "piramidi" di Cydonia e la cosiddetta Sfinge. Se così fosse, si potrebbe ammettere, in via d’ipotesi, che essa abbia progettato e realizzato un grandioso satellite artificiale a fini scientifici. Sono solo teorie: le quali, però, ci ricordano quanto poco sappiamo (pur credendo il contrario) dello spazio a noi più vicino…
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