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Vangelo e lotta armata: un connubio possibile?

Che rapporto c’è fra Vangelo e lotta armata? Un cristiano può partecipare alla lotta armata, o anche solo approvala? Un sacerdote può benedire le armi di una delle due parti in lotta?

Abbiamo pensato di esaminare un po’ la questione partendo dal punto di vista di un missionario cattolico che si è trovato "in situazione", cioè ad operare in Paesi nei quali vi erano, e vi sono, gravi ingiustizie sociali e nei quali infuriava, o infuria, la guerriglia fra gli eserciti di "liberazione" e le forze governative. Abbiamo scelto per questo scopo un libro di Renato Kizito Sesana (Kizito è il nome di uno dei martiri ugandesi, beatificati da Paolo VI), un sacerdote nato a Lecco nel 1943 e molto attivo anche sul fronte giornalistico. Come il mitico Alex Zanotelli, anche Renato Sesana, missionario comboniano, e direttore, per un periodo, della battagliera rivista Nigrizia, si pone come un personaggio carismatico. Ha trascorso molti anni in Africa, passando da un Paese all’altro, e sempre a contatto immediato con la gente, con i più poveri; si è molto adoperato per migliorare le condizioni di vita di quelle popolazioni; è stato anche infangato da alcune accuse di violenza sessuale su minori, poi cadute perché rivelatesi del tutto infondate, il che la dice lunga su quanto la sua presenza abbia dato fastidio a chi ha interesse affinché le cose, dal punto di vista sociale, rimangano così come sono sempre state. Tutto questo rappresenta un capitale di credibilità, di serietà, di dedizione, che incute rispetto: è impossibile avvicinarsi a uomini simili senza provare stima e rispetto per la loro dedizione. Ci sembra pertanto di grande interesse ascoltare la sua opinione sul rapporto fra Vangelo e lotta armata, dato che di queste cose egli un poco se ne intende; il sottotitolo di uno dei suoi libri, infatti, reca la dicitura: Un prete fra i guerriglieri.

Dice, dunque, don Sesana nel libro-intervista firmato insieme al giornalista Stefano Girola, che gli faceva le domande, e, in questo caso, che gli chiedeva se avesse mai percepito un conflitto fra il messaggio nonviolento del Vangelo e la scelta di schierarsi attivamente a favore dei movimenti di liberazione africani (da: Renato Kizito Sesanas-Stefano Girola, La Perla Nera. L’altra faccia dell’Africa sconosciuta, Milano, Edizioni Paoline, 2002, 166-168):

… Mi parve che in questa gente [cioè i militanti dei movimenti di guerriglia], oltre purtroppo all’accettazione della violenza come unica via per resistere alla violenza coloniale e a quella razzista, ci fosse anche un forte desiderio di riscatto, di cambiamento, di redenzione. In un certo modo rappresentavano la parte migliore dell’Africa, ossia la volontà di uscire da una situazione negativa. Poi magari cadevano in pesanti contraddizioni, ma era innegabile che vi fosse una tensione positiva in molti movimenti di liberazione. Quindi ho cercato di capire, e per fare questo ho iniziato a frequentarli. Da allora la mia vita di prete e missionario è stata notevolmente marcata dai rapporti con i movimenti di liberazione: prima quelli della Guinea Bissau, Angola e Mozambico, poi, nei primi anni del mio ministero in Zambia, con quelli di Rhodesia e Sudafrica, infine con quello del Sudan. Certo in queste situazioni un prete si trova a disagio. A me è capitato, agli inizi degli anni Settanta, di camminare per giorni nelle paludi della Guinea Bissau con una scorta di militari, e ancora, fino a poco tempo fa, di andare a celebrare una messa in un villaggio sperduto dei Monti Nuba accompagnato da un gruppo di militari armati fino ai denti. Nel sud del Sudan, sei anni fa, mi trovai in una situazione in cui per tre giorni ho avuti ai miei ordini, per fini umanitari, un contingente di 30 guerriglieri….

C’è una contraddizione. Come posso annunciare l’Amore quando sono protetto che sono professionisti se non dell’odio, almeno della violenza? Innanzitutto evito di usare un linguaggio violento. Non mi riferisco all’esercito governativo come "il nemico", come altri usano fare. Parlo di un atteggiamento prima di rispetto e poi di amore verso tutti, di superamento delle divisioni, dell’esempio di Gesù. Leggo il Vangelo. Faccio il possibile perché la mia presenza sia colta da tutti come una presenza di pace. È insufficiente? Forse. Ma la parola del Vangelo è forte e agisce da sola. L’alternativa, cioè che in quella situazione mi metta a fare proposte dettagliate per adottare una metodologia nonviolenta, o peggio ancora a rimproverare la gente o accusare i leader di praticare la lotta armata, i sembra un po’ ipocrita: che cosa ho fatto io, che cosa abbiamo fatto noi, il mondo che io rappresento agli occhi dei Nuba o dei Sud Sudanesi, per rendere la nonviolenza possibile?

Noi, come Chiesa, nelle situazioni concrete di oppressione non siamo stati capaci di portare avanti proposte non violente. Basti pensare alla storia europea di questo ultimo secolo, alla nostra connivenza con l’oppressione coloniale. Io farei volentieri un discorso sulla non violenza, ma non posso pretendere di renderla così un’opzione praticabile in questo momento storico: è un processo che necessita di una maturazione molto lunga. Non mi sento in diritto di dare lezioni a nessuno. Mi dispiace, ma io non riesco — in un contesto in cui c’è chi ha visto le mogli, le madri, i figli uccisi, torturati, stuprati, schiavizzati, umiliati — andare da questa gente e dire: "Voi sbagliate a reagire con la violenza, dovreste porgere l’altra guancia". Mi sento di dirlo come scelta mia personale e come proposta evangelica, ma questo è ben diverso dal dare un giudizio negativo sulle scelte concrete fatte dai Nuba, per esempio. Per me si tratta di offrire una testimonianza fraterna, non accusatrice, non da chi insegna a chi impara; una presenza che faccia pensare, susciti degli interrogativi; poi le risposte e la pratica devono venire da loro.

Prima di giudicare gli altri bisognerebbe provare a condividere la loro vita: fare il maestro dall’esterno mi sembra un atteggiamento insopportabile. Io posso dare una testimonianza personale importante: non prenderò le armi, mai, anche perché non ne sono capace, sono contrarie alla mia natura e questo deve essere evidente ai militari che mi conoscono.

Posso anche dire di essere disposto a morire piuttosto che prendere in mano un fucile, ma ciò può suonare un’affermazione retorica. Queste sono cose che si insegnano solo con l’esempio, e solo se le circostanze mi netteranno in quella situazione concreta potrò poi far parlare i fatti.

Bisogna giungere infine che la teoria e la pratica della nonviolenza, almeno a livello ecclesiastico, sono ancora spetti elitari che si sono sviluppati in tempi relativamente redenti, anche in Occidente. Fino a pochi anni fa una coscienza diffusa e comune in questo senso non c’era. Il missionario deve, in tutto, come prima cosa, camminare con la gente, essere al loro fianco. Solo dopo molto cammino insieme può affinare il modo in cui dà la sua testimonianza , e poi eventualmente incominciare a fare delle proposte; ma solo dopo che la gente lo ha sentito "suo", parte della propria storia e vita.

Non dobbiamo dimenticarci che troppa violenza nel mondo è avvenuta e avviene in nome della religione, anche della religione cristiana. Ci sono diverse teorie che cercano di spiegare il perché: da chi fa notare che l’idea del sacrificio è centrale in quasi tutte le religioni, o che l’idea della lotta tra il bene e il male serve di base per combattere e distruggere chi viene percepito come nemico della propria religione. L’Africa è stata vittima per secoli di una violenza che veniva giustificata su basi religiose. Il re portoghese Enrico il Navigatore mandava le sue navi mercantili sulle coste dell’Africa con l’accompagnamento di bolle papali che lo autorizzavano a conquistare, dominare politicamente, ridurre in schiavitù, convertire con la forza le popolazioni che avrebbe incontrato. È una storia che non deve impedirci di guardare avanti ma che non possiamo pretendere di ignorare.

Don Sesana si è laureato in Scienze Politiche all’Università di Padova nel 1977. Per chi ha buona memoria, erano gli anni in cui, in quella facoltà, insegnava il professor Antonio Negri: il clima politico era caratterizzato da una vera e propria ubriacatura "rivoluzionaria", operaista e barricadiera: nel 1978 venne rapito e ucciso Aldo Moro, nel 1979 scoppiò il "caso 7 aprile". Negri, come molti altri teorici e cattivi maestri del’estrema sinistra, veniva dalle file del cattolicesimo progressista. Crediamo che una parte di quelle idee si sia riversata in una parte del movimento missionario comboniano, e non solo in quello, e che esse abbiano contribuito ad orientarlo sempre di più in senso politico, immanentistico, militante; e ciò a detrimento dell’autentica ispirazione cristiana, che si colloca al livello della vita spirituale e che vede, semmai, nella ricerca della giustizia sociale, un riflesso della sola rivoluzione che si possa e si debba fare in termini cristiani: quella interiore, consistente nel superamento dell’uomo vecchio, centrato sul’amore di sé, e nella nascita dell’uomo nuovo, centrato nell’amore per Dio.

Diversamente, riesce difficile capire come mai la questione della giustizia sociale gli appaia come una questione che si possa considerare staccata dall’orizzonte della rinascita spirituale in Cristo, e come mai egli parli dei movimenti di guerriglia come l’estrema risposta, in ultima analisi comprensibile e giustificabile, davanti alla prevaricazione economica e sociale, quasi che Gesù Cristo non si fosse mai trovato a tu per tu con simili questioni e quasi che la Palestina del I secolo prima dell’era cristiana fosse stata una specie di Svizzera dell’antichità, pacifica e benestante. Gesù visse in un tempo e in un luogo caratterizzati da contrasti sociali fortissimi e da un alto grado di oppressione economica, politica e sociale. Egli stesso ne parlò apertamente con i suoi discepoli, per esempio quando gli venne chiesto di esprimere un parere sulla repressione sanguinosa che il procuratore Ponzio Pilato aveva condotto contro alcuni Galilei che si erano ribellati all’autorità romana, forse in occasione di una ricorrenza religiosa (Luca, 3, 1-5): In quello stesso tempo si presentarono alcuni a riferirgli circa quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva mescolato con quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola, Gesù rispose: "Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quei diciotto, sopra i quali rovinò la torre di Siloe? E li uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo.

Già per il solo fatto di porre i due episodi, la repressione militare di Pilato e la disgrazia del crollo di un torre, a Gerusalemme, sullo stesso piano di ragionamento, avendo per fine quello di evidenziare il fatto che le vittime, in entrambi i casi, non erano più colpevoli davanti a Dio di chiunque altro (e contro la mentalità giudaica che, invece, in casi analoghi, vedeva un esplicito intervento divino per punire i peccatori), fa capire, di riflesso, che cosa Gesù pensasse dei movimenti di guerriglia, di liberazione, di indipendenza, eccetera, i quali, del resto, fiorivano tutto intorno a lui, al punto che alcuni suoi discepoli, come Giuda (non il futuro traditore), come Simone (non Simon Pietro) e come Tommaso, provenivano dalla setta degli Zeloti o Zelatori, partigiani della lotta anti-romana propensi all’assassinio politico come specifica arma di lotta. Gesù non volle mai aver nulla a che fare con simili movimenti: accoglieva coloro che, da essi, volevano passare alla sua sequela, ma dopo aver messo bene in chiaro che il suo regno non è di questo mondo, e che bisogna dare a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio. Se c’è una cosa che risulta assolutamente evidente nella predicazione di Gesù, è la sua fermissima volontà di non tollerare che ad essa si mescolassero elementi di natura estranea, politica o sociale, per quanto, in se stessi, legittimi, o, comunque, ben comprensibili nelle loro motivazioni; e che non si snaturasse il senso della sua predicazione del Regno di Dio in termini puramente umani e immanenti.

Quanto al rapporto fra Vangelo e lotta armata, si sa che il cristianesimo non esclude la possibilità della guerra: la Chiesa ha sempre distinto fra "guerra giusta" e "guerra ingiusta", ritenendo giusta, cioè moralmente legittima (e non buona in se stessa!) quella difensiva contro una ingiusta aggressione, così come è giustificato il singolo individuo che reagisce, anche con la violenza, per difendersi da una grave e immediata minaccia alla propria vita: purché si tratti di una minaccia, appunto, "ingiusta", Non lo è, per esempio, nel caso che si tratti di un assassino, o magari di un mafioso, inseguito dalle forze di polizia, le quali legittimamente, se egli non si vuole arrendere, minacciano di fare ricorso a dei mezzi estremi contro di lui. La distinzione fra i due tipi di guerra è stata particolarmente discussa e chiarita da san Tommaso d’Aquino, la cui autorità, anche in questo campo, fa testo. Colpisce, però, nel ragionamento di padre Sesana, il fatto che egli non faccia mai riferimento a tale distinzione, bensì si appelli ripetutamente al concetto di "nonviolenza", presentandolo come qualcosa di ovviamente inerente al Vangelo. Le cose, però, non stanno così. Il concetto di non violenza, o meglio, di lotta nonviolenta (satyagraha) è un concetto gandhiano e non cristiano; e, se è vero che Gandhi si è largamente ispirato sia a Tolstoj, sia, prima ancora, a Thoreau, né l’uno, né l’atro di costoro rappresentano il pensiero della Chiesa cattolica su questo punto. Colpisce, pertanto, che un prete cattolico, il quale si è trovato, per molti anni, a vivere e operare in situazioni di guerra endemica, o di guerriglia, citi ripetutamente la nonviolenza, ma non citi il pensiero della Chiesa cattolica.

D’altra parte, si tratta veramente di un terreno minato, anche se la maggior parte di coloro che discutono il problema del rapporto fra Vangelo e lotta armata fanno finta di non vederlo. San Tommaso parla della guerra fra due stati e non di quella cosa, ben diversa, che è la guerra civile, ossia una guerra che lacera dall’interno una determinata società, che non distingue nettamente la figura giuridica del soldato da quella del civile, e che, di conseguenza, si presta alla perpetuazione, pressoché inevitabile, di atrocità d’ogni genere ai danni della popolazione civile, effettuate con particolare crudeltà proprio per la natura di conflitto interno, che oppone i membri di una stesa comunità, sulla base di motivazioni sociali, o religiose, o politiche, che ciascuno valuta da se stesso (tanto è vero che sono possibili, e persino frequenti, dei rovesciamenti di fronte), mentre, nella guerra tradizionale, i membri di un esercito eseguono gli ordini dei superiori in base a motivazioni di ordine internazionale, che essi non sono chiamati a discutere, tanto meno ad approvare o disapprovare, attenendosi invece al criterio dell’obbedienza e della disciplina gerarchica, e in base a dei codici di comportamento che, almeno in teoria, sono stabiliti internazionalmente. Le guerre e guerriglie di cui parla don Sesana sono tutte ascrivibili alla tipologia delle guerre civili; l’imperialismo, il colonialismo, il razzismo, cui egli fa riferimento come a delle ovvie categorie di riconoscimento della causa "sbagliata", sono, invece, categorie ideologiche, soggette ad una molteplicità di punti di vista e, pertanto, anche di valutazioni morali discordanti. Per fare un esempio, è opinabile il fatto che i guerriglieri indipendentisti dell’Angola o del Mozambico fossero moralmente legittimati ad uccidere – sempre da un punto di vista cristiano – quando il loro nemico era l’esercito coloniale portoghese, visto che, giunti al potere, essi hanno mostrato una estrema immaturità politica, per non dire peggio, e inaugurato lunghi anni di feroci guerre intestine, nel corso dei quali è probabile che gran parte della popolazione civile abbia rimpianto i tempi della dominazione portoghese (che non era, per inciso, una dominazione "razzista", perché il Portogallo, a differenza della Repubblica Sudafricana, non teorizzava una superiorità della razza bianca e considerava come suoi cittadini sia i bianchi, che i neri e i mulatti).

La ragione per la quale la Chiesa cattolica preferisce evitare di esprimersi in maniera definitiva e non ambigua riguardo alla questione del rapporto fra Vangelo e guerra civile, è che essa ingombra i suoi armadi con un grosso scheletro: quello della guerra civile europea che divampò all’interno della Seconda guerra mondiale, nelle retrovie dei fronti di combattimento "ufficiali". Dalla Francia alla Jugoslavia, dall’Italia alla Polonia, e, prima di tutte, in Spagna, nel 1936-39, la Chiesa e le comunità cattoliche si sono trovate immerse in guerre civili nel corso delle quali i singoli credenti, i singoli pastori e le singole Chiese nazionali adottarono scelte diverse, sotto la spinta di molteplici fattori. In Croazia, come è noto, alcuni francescani furono coinvolti nella politica di sterminio degli ustascia contro la popolazione serbo-ortodossa. In Slovacchia, i cattolici andarono addirittura al potere, con monsignor Tiso, all’ombra dell’alleanza con la Germania hitleriana. Si trattò di scelte drammatiche, fatte sotto l’incalzare di circostanze drammatiche, che sarebbe irrealistico voler giudicare a tavolino, come se quei cattolici fossero stati perfettamente liberi di scegliere. E che dire del clero italiano, il quale, per vent’anni, nel suo complesso, approvò il fascismo italiano, o, quanto meno, non vi si oppose, e poi, dopo il 25 luglio 1943, cambiò sostanzialmente indirizzo? Nell’Italia settentrionale, sotto il regime della Repubblica Sociale, questo rovesciamento di fronte (basti dire che la Santa Sede non volle mai riconoscere il governo di Salò a livello diplomatico) comportò contraddizioni gravissime: alcuni preti rimasero fedeli alla vecchia impostazione, identificando il fascismo con la Patria in pericolo, e rimasero al fianco dei fascisti, sino alla fine, subendo poi una sanguinosa repressione (si pensi alla fucilazione, senza processo, di don Tullio Calcagno, il direttore del giornale Crociata Italica; ma si pensi anche all’assassinio del seminarista quindicenne Rolando Rivi, la cui colpa era di vivere in una zona "rossa", dove i partigiani comunisti volevano distruggere ogni segno della presenza cattolica, quale premessa alla imminente rivoluzione e alla conquista del potere); mentre tanti altri sacerdoti e vescovi si schierarono, più o meno velatamente, dalla parte dei partigiani. Nel maggio del 1945, il fatto che una parte non piccola del clero potesse vantare tali benemerenze resistenziali, tornò utile alla Chiesa cattolica, per aver voce in capitolo nella fase del dopoguerra e per far valere una rinnovata autorevolezza, voltando definitivamente pagina dopo la parentesi fascista e i patti Lateranensi, sicché Pio XII decise – secondo noi, saggiamente – di non esacerbare ulteriormente la divisione degli animi e di concentrare l’attenzione dei credenti sul processo di ricostruzione, morale e materiale, del Paese. La questione della guerra civile, così, non diede luogo a una chiara e approfondita riflessione dottrinale, da un punto di vista cattolico, perché tutti avevano qualcosa da farsi perdonare: la Chiesa, di aver sostenuto Mussolini, e sia pure fra incertezze e riserve, durante il ventennio, poi di averlo "scaricato" per un calcolo di convenienza politica; i preti di sinistra, per aver partecipato alla guerra civile ed essersi macchiati le mani, almeno idealmente, con il sangue dei fratelli che combattevano dall’altra parte della barricata; i comunisti, per aver ammazzato alcune migliaia di cattolici, e alcune decine di preti e religiosi, così come, del resto, avevano già fatto in Spagna, teatro nel quale si erano preparati a replicare in patria le loro prodezze (e infatti Oggi in Spagna, domani in Italia, era stato il loro motto nel 1937), salvo poi collaborare con De Gasperi nella nascita dell’Italia democratica del 1945. Però, se questa linea di prudenza fu consigliata dalla opportunità di non accentuare le già gravissime divisioni interne, il prezzo che venne pagato fu il mancato chiarimento di una questione morale importantissima, e cioè: è lecito, ad un cristiano, e, a maggior ragione, ad un religioso, partecipare a una guerra civile, o anche solo appoggiarla idealmente, pur sena partecipare in prima persona alle uccisioni?

Questa mancanza di chiarezza, questa ambiguità, sarebbero esplose, nel corso degli anni Sessanta, all’interno del clero latino-americano, nel corso delle numerose insurrezioni e lotte di guerriglia che incendiarono quei Paesi, sulla scia della rivoluzione castrista a Cuba. In Colombia, padre Camilo Torres fece la scelta di unirsi ai guerriglieri e andò sulle montagne, rimanendo ucciso in uno dei primissimi scontri con le forze governative. La scelta di quel sacerdote venne disapprovata dalla Chiesa, a livello ufficiale, ma il suo esempio continuò a pesare sulla psicologia dei cattolici e del clero stesso; ci sembra difficile negare che la stessa teologia della liberazione rechi in se stessa un riflesso della teoria marxista della lotta di classe, la quale, a sua volta, dà per scontato che la causa "buona" sia quella dei proletari, e quella "cattiva" sia la causa (e la classe) dei borghesi. Non è che molti missionari, compresi alcuni comboniani delle missioni africane, hanno subìto un analogo processo psicologico, laddove danno per scontato che le lotte di guerriglia contro il potere politicamente scorretto (il colonialismo, il razzismo) siano moralmente legittimate, da un punto di vista cristiano, mentre non sarebbe legittimo schierarsi sul fronte opposto? In termini ancora più espliciti: non è che missionari come don Sesana hanno confuso il Vangelo con il Manifesto, e pensano che una guerriglia di sinistra sia buona e legittima, anche se, deprecabilmente, fa ricorso alle uccisioni (e non è ipocrisia, questa?), mentre un regime di "destra" merita comunque di essere combattuto e spazzato via, anche se, disgraziatamente, moriranno molti civili innocenti?

Ma c’è un altro aspetto, nel discorso di don Sesana, che interpella la nostra attenzione. Egli parla con convinzione delle colpe dell’Europa, dei suoi torti, passati e presenti, nei confronti degli Africani; della incoerenza dei cristiani europei rispetto alla nonviolenza, e, quindi, del fatto che non hanno la necessaria credibilità per dire agli Africani che la lotta armata è un male. Ci sembra che in questo complesso di colpa (a senso unico: pare che solo gli Europei abbiano sfruttato l’Africa; nemmeno una parola sullo schiavismo degli Arabi, ancor più crudele di quello dei Portoghesi cattolici; né sulle atrocità degli Africani contro gli Arabi, ad esempio nel genocidio di Zanzibar, o contro gli Europei, come nel caso dei Mau-Mau del Kenya, i quali uccisero donne e bambini inglesi in maniera efferata), sia la chiave per capire molti altri passaggi del suo ragionamento. Per predicare il Vangelo integralmente (nonviolenza compresa, come la intende lui; pace cristiana, secondo noi), pare che occorra essere "puri"; altrimenti, non si ha il diritto di mettere il becco nelle questioni altrui. Ma, a parte il fatto che sarebbe sempre buona norma non immischiarsi nelle guerre civili altrui, essere "puri" è auspicabile, ma non è condizione irrinunciabile per annunciare il Vangelo: nemmeno Gesù l’ha preteso dai suoi. Non ha detto loro: Siate perfetti, se volete annunciare il Vangelo; bensì: Andate e predicate il Vangelo, pur sapendoli imperfetti (ma esortandoli a esserlo)…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Christian Lue su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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