
Pregate sempre, senza stancarvi mai
3 Ottobre 2016
Che cos’è il miracolo
4 Ottobre 2016Uno degli argomenti più classici con i quali una certa cultura politica vorrebbe persuaderci del fatto che il concetto di Patria è ornai obsoleto, e che — oltretutto – è incompatibile con le identità locali, con l’amore per la propria regione, provincia o città, è che lo Stato nazionale risulta doppiamente anacronistico: al livello della globalizzazione, perché troppo piccolo per contare ancora qualcosa; al livello delle autonomie locali, perché la sua sola esistenza rappresenterebbe un ostacolo o, quanto meno, una potenziale minaccia nei loro confronti. Insomma lo Stato-nazione, troppo misero per opporsi ai giganteschi processi di ristrutturazione mondiale, sarebbe pur sempre troppo forte, troppo ingombrante, troppo accentratore, per poter coesistere con una rete di identità locali e con le autonomie che ne sono il naturale prolungamento amministrativo.
Vediamo, dunque, se queste due argomentazioni poggiano sopra una solida base, oppure no.
Lo Stato nazionale sarebbe troppo piccolo su scala globale per incidere, per contare ancora qualcosa, per poter rappresentare con sufficiente incisività i propri interessi vitali? Innanzitutto, bisognerebbe vedere di quale Stato nazionale stiamo parlando: perché gli Stati Uniti, la Russia o la Cina, evidentemente, non sono la stessa cosa della Svizzera o del Belgio (e, a rigor di termini, né gli uni, né gli altri, sono dei veri Stati-nazione, bensì degli imperi multietnici quelli del primo gruppo, e degli stati plurinazionali quelli del secondo). Certamente una grande potenza, come gli Stati Uniti, non è troppo piccola su scala mondiale; anzi, è grande abbastanza da poter esercitare una sorta di predominio globale, sia a livello finanziario ed economico, sia a livello politico e strategico. Piccoli stati come la Svizzera, o il Belgio, o il Lussemburgo, o la Slovenia, non hanno un peso politico e militare sullo scenario planetario; ciò non toglie che, se bene amministrati e governati con un minimo di saggezza, possano proteggere discretamente i loro interessi essenziali, o, quanto meno, evitare che essi vengano calpestati impunemente, magari, all’occorrenza, facendo appello ai maggiori organismi internazionali. Se, poi, risultano impotenti a fronteggiare situazioni specifiche, come, ad esempio, il flusso incontrollato di immigrati/profughi/invasori, principalmente islamici, ciò non dipende tanto dalle loro dimensioni, visto che nemmeno l’Unione Europea si è rivelata capace di farlo; e lo stesso può dirsi per gli stessi Stati Uniti d’America, praticamente impotenti a sorvegliare e rendere impermeabile la frontiera con il Messico. Stessa cosa per le grandi dinamiche finanziarie: una crisi del mercato mondiale può mettere in ginocchio la Svizzera, ma può mettere in ginocchio anche le maggiori potenze: dunque, non è un problema di dimensioni.
Restano gli Stati nazionali di medie dimensioni, fra i quali l’Italia: in genere, ex grandi potenze declassate dal suicidio dell’Europa nelle due guerre mondiali, non però fino al punto di essere divenuti ininfluenti. La Gran Bretagna, che ha conservato la sovranità monetaria pur aderendo all’Unione Europea (da cui, ora, si appresta ad uscire), mostra che uno Stato nazionale di medie dimensioni può conservare margini di autonomia anche a livello finanziario ed economico in un mondo sempre più globalizzato e dominato dalle grandi concentrazioni bancarie e assicurative. L’Italia, che, nonostante il deficit, possiede un grosso capitale di risparmio privato e una più che ragguardevole riserva aurea, ha conquistato una delle prime cinque posizioni economiche mondiali fra gli anni ’50 e ’70 del XX secolo: e, a dispetto delle ironie di uomini politici come il ministro Alfano a proposito della nostra vecchia "liretta", alla quale sarebbe ridicolo anche solo pensare di voler tornare, sta di fatto che quella "liretta" si impose al rispetto dei poteri economici mondiali e delle stesse "Cinque sorelle" del petrolio.
Che uno Stato nazionale delle dimensioni dell’Italia, o della Francia, o della Germania, sia, pertanto, un anacronismo nell’era della globalizzazione, è tutto da dimostrare. Può darsi che sarà così fra cinquanta o cento anni; ma, ora come ora, nulla permette di affermarlo, a meno di subire una sudditanza psicologica nei confronti di quei processi di concentrazione politica e finanziaria mondiale ai quali, in teoria, si pretenderebbe di cercare una risposta o una alternativa. Resta da vedere se esso costituisca una minaccia o una inevitabile limitazione alla valorizzazione delle piccole patrie locali, delle regioni, delle città; se è vero che, per il solo fatto di esistere, l’Italia non può che bloccare ogni idea di autonomia e di autogestione per le regioni che la compongono. Ora, che così non sia, lo dimostra la realtà di altri Stati-nazione d’Europa, a cominciare dalla Germania: non è l’esistenza di un forte Stato nazionale che impedisce la fioritura economica e l’autonomia amministrativa della Baviera. Il problema non è l’esistenza dello Stato-nazione in quanto tale, ma il fatto che esso sia impostato su di un sistema di governo centralizzato e burocratico, oppure no. E il centralismo è, molto spesso, il risultato di una debolezza, non di una forza, da parte dello Stato: così è stato per l’Italia subito dopo ‘Unità, quando i governi della Destra storica scelsero quella via proprio nel timore di vedere sgretolarsi rapidamente l’opera delle loro mani, sotto le molteplici spinte centrifughe. Quanto all’autonomia amministrativa e finanziaria, è chiaro che essa si trova in relazione con il sistema dei partiti, più che con la natura dello Stato-nazione: perché un sistema di partiti "leggero" e una gestione amministrativa efficiente e trasparente si può coniugare benissimo, come avviene — appunto — in Germania, con un alto margine di autonomie locali e un pieno sviluppo del federalismo. Di conseguenza, nulla vieta di pensare che lo Stato-nazione, non che rappresentare un intralcio e un anacronismo in tempi di globalizzazione e di identità locali, sia, al contrario, il necessario trait-d’union fra il livello della grande economia e della grande politica mondiale, e quello delle piccole patrie e delle autonomie locali.
Su questo tema, pagine illuminanti sono state scritte da Marcello Veneziani, un intellettuale libero dalla tradizione statalista e ottocentesca della cultura di sinistra, culminata nell’elefantiasi dello Stato-mamma e dello Stato assistenziale, che si regge sulle sue stesse contraddizioni ed è talmente sclerotizzato da non sopportare la più piccola modifica, pena il rischio che crolli l’intero sistema. Nello Stato assistenziale neomarxista oggi vigente (nella versione buonista e "misericordiosa" catto-comunista: quella, per intenderci, che fornisce di case e di denaro i cosiddetti profughi, e lascia andare a fondo milioni d’Italiani impoveriti dalla spirale perversa della crisi e della stessa globalizzazione), è impossibile licenziare un bidello o un vigile assenteisti, o un impiegato postelegrafonico disonesto, per l’immediata levata di scudi dei sindacati e per l’esistenza di una legislazione ispirata al marxismo e applicata con zelo da una pletora di magistrati di sinistra, del tutto indifferenti al bene della nazione, ma solo pietosi del singolo individuo, anche se non meritevole di pietà alcuna; così come è impossibile immaginare una riforma fiscale, una riforma della giustizia, o anche solo una riforma del codice stradale, per l’immediato insorgere di cento e cento poteri corporativistici, egoisti, ciecamente attaccati ai loro medievali privilegi di casta e alle inutili poltrone che ne rendono possibile il perpetuarsi. Tutta questa palude miasmatica fa capo ai partiti di massa, bacino collettore di tutte le corruzioni, di tutti i clientelismi, di tutti gli intrallazzi, e vera e propria sanguisuga del tessuto sociale e lavorativo ancora sano: un sistema che vive parassitando le attività produttive, cancellando il merito, ignorando i talenti e costringendo ad emigrare migliaia e migliaia di giovani laureati di valore, per poter assegnare cattedre, posti e relativi stipendi ai parenti e agli amici degli amici dei partiti.
Ma questa degenerazione, questa patologia, questa aberrazione dello Stato-nazione, non rappresenta l’essenza dello Stato-nazione: esso incarna un’idea ancor viva e vitale, quella di una comunità di cittadini unificati dalla lingua, dalla memoria, dalla tradizione, dalla cultura, dalla storia, dalla geografia, dalle leggi, dalla religione (o, comunque, dalla tradizione religiosa: e qui appare la miseria delle ideologie laiciste e materialiste, le quali, per odio antireligioso, negano e combattono l’identità e la tradizione cattolica del nostro Paese; quasi che una identità si potesse improvvisare, o cambiare come un vestito sporco).
Scriveva, dunque, Marcello Veneziani nel suo saggio di quasi tre lustri or sono, ma più che masi attuale, La cultura della destra (Bari, Laterza, 2002, pp. 29-36):
Adeguare l’Italia anormale a una, identificata col paradigma occidentale e moderno, ideologicamente interpretato. Questo l’imperativo per l’eutanasia di una patria. Compito di una cultura della destra è quello di demistificare i pregiudizi che sorgono intorno a questo dogma. Quali pregiudizi? Proviamo a declinarli.
Il primo dei pregiudizi recita: l’Italia è un paese con un’identità nazionale posticcia, debole e malcerta. Quest’interpretazione è succuba, magari senza averne de tutto consapevolezza, di una lettura neohegeliana (magari con retrogusto giacobino), come vuole la più forte tradizione culturale dell’Italia unita (dai fratelli Spaventa a Croce e Gentile, fino a Gramsci, all’italomarxismo e all’azionismo), secondo cui una nazione nasce dallo Stato, perché è lo Stato a formare i cittadini, educandoli alla nazione. Dunque si può parlare di identità nazionale solo a partire dal 17 marzo 1861, con la proclamazione dello Stato unitario. […] questa diffusa interpretazione, la lettura della destra dovrebbe invece opporre la lettura che Gioacchino Volpe contrappose a Croce: ovvero l’idea che il Risorgimento non segna la nascita della nazione italiana ma il nuovo "sorgimento" di un’identità nazionale pre-esistente e pre-politica che vuol farsi anche identità politica, istituzionale e statuale. Perché l’identità italiana, spiegava Volpe, precede di secoli lo Stato unitario, affonda le radici nella romanità e nel medioevo, per poi assumere forma letteraria e unità linguistica a partire dai grandi poeti e scrittori in lingua italiana (1927). […] L’unità italiana è culturale, linguistica e spirituale, prima che militare, politica e istituzionale. Esiste una "koiné" nazionale, maturata nel crocevia del cattolicesimo, dello spirito mediterraneo e della cultura rinascimentale, sulle solide basi della civiltà romana. […]
Il secondo corrente pregiudizio passa dalla precedente descrizione di un’identità nazionale fittizia alla prescrizione di un’Italia da rimuovere perché l’identità nazionale sarebbe una palla al piede nell’epoca globale. Viene così sancita una sorta d’incompatibilità fra italianità e modernità. Le vicissitudini di questi anni mostrano, al contrario, che in Europa e nella società globale si conta qualcosa se si è qualcuno, se si rappresentano interessi e sistemi coesi e se si conta su un solido sistema-paese […]La progressiva scomparsa dello Stato nazionale può essere al più una previsione di lungo periodo applicata impropriamente al nostro presente; attualmente è solo una congettura funzionale a interessi transnazionali e a volte transpolitici di tipo oligarchico. O, peggio, è un’arma usata da Stati nazionali egemoni rispetto ad altri più deboli. […] La differenza tra le oligarchie transnazionali e le classi dirigenti nazionali è dunque sostanziale:le prime configurano un potere di pochi finalizzato all’interesse di pochi, le secondo configurano un potere di pochi che deve però rispondere all’interesse di tanti. Dunque, l’identità nazionale (e la sua emanazione, il sistema-paese, lo Stato nazionale) non è una palla al piede nell’epoca della globalizzazione, ma un atto finora insostituibile per governare gli effetti della mondializzazione. […]
Il terzo pregiudizio riguarda le spinte secessioniste interpretate come una reazione all’invadenza dello Stato e alla pervadenza della nazionalizzazione. Insinuiamo il dubbio inverso: e se le spinte separatiste in Italia fossero fiorite, al contrario, sulla debolezza dello Stato e sull’evanescenza di una pubblica coscienza nazionale? E se fosse il deficit di autorevolezza dello Stato pi che il surplus di autoritarismo a generare le spinte verso la secessione? Non è l’eccesso di potenza dello Stato che spinge a perseguire la separazione, ma la sua flaccida obesità, il dilatarsi dello statalismo come una specie di bulimia dello Stato, una perdita di efficacia e di efficienza. La storia del nostro paese mostra che lo statalismo non nasce come una malattia dello Stato ma come una patologia della partitocrazia che occupa lo Stato e, tramite la sua dilatazione a dismisura, consolida e amplifica il consenso e il controllo della società, allargando anche il suo ceto di funzionari e conniventi. Quando lo Stato è invaso dai partiti nasce lo statalismo. […]
Il quarto pregiudizio stabilisce una netta incompatibilità tra le identità locali e l’identità nazionale, che dà luogo a un antagonismo radicale. Il punto debole di questo antagonismo è nella convinzione che identità nazionale si identifichi con centralismo e statalismo e che viceversa localismo si identifichi con rivolta anti-politica. Una nuova cultura della destra non può che confutare l’opposizione tra piccole patrie e patrie nazionali. Proprio l’avvento della globalizzazione mostra che il nemico delle identità e delle origini non è l’identità più grande o l’identità altrui, ma la negazione del principio di identità, il rifiuto delle origini e della tradizione. L’antagonista delle patrie locali è l’uniformità mondiale e non la differenza nazionale.[…] Oggi l’identità locale e l’identità nazionale si trovano oggettivamene dalla stessa parte, nel segno delle identità comunitarie, rispetto alla mondializzazione che on riconosce senso alle patrie. […]
Il quinto pregiudizio ritiene che l’amor patrio sia portatore di intolleranza e di aggressività verso l’altro., identificato nello straniero e oggi ancor più nell’immigrato. Anche questo pregiudizio si fonda sull’identificazione automatica tra amor patrio e nazionalismo, così come lo abbiamo conosciuto nel secolo scorso; ovvero una passione nazionale fondata sulla volontà di potenza e sull’esclusivismo. Ma non c’è nessuna ragione di credere che l’amor patrio debba necessariamente esprimersi in un primato aggressivo della propria nazione e in una negazione dell’altrui identità. […] La scommessa di una nuova cultura di destra è quella di riconoscere esistenza e dignità ai legami comunitari, religiosi e perfino etnici, per integrarli, fuori da ogni nazionalismo e fondamentalismo, nel nostro tempo. Nella convinzione che le società con un miglior rapporto con la propria identità sono in grado di accogliere e metabolizzare lo straniero meglio delle società con una debole e sfuggente identità.
E questo ci introduce all’ultimo pregiudizio corrente in tema di amor patrio: la convinzione che l’unico amor patrio ammissibile nel nostro tempo e compatibile con i valori umani sia separato da ogni legame di ordine religioso. Cresce la tolleranza verso ogni diversità laddove decresce il peso pubblico delle credenze religiose; cresce il senso di cittadinanza e la lealtà verso le istituzioni, se decresce il legame religioso e la lealtà verso la propria chiesa. Chi crede nella Verità e negli Assoluti non sarebbe disposto a rispettare l’altrui opinione e gi altrui valori. la storia delle società occidentali e più ancora dell’Italia negli ultimi trent’anni è la dimostrazione lampante che la scomparsa di un comune orizzonte religioso e civile non agevola la convivenza e la comunicazione più di quanto non la degradi e non la intristisca. L’esperienza dei regimi totalitari e delle ideologie immanentistiche, dal giacobinismo in poi, dimostra che l’ateismo militante, o comunque il rifiuto di una dimensione religiosa, può produrre fantasmi e orrori anche peggiori di quelli compiuti nel nome della fede o di dio. Viceversa, il reticolo della solidarietà civile si alimenta di quell’humus religioso e della comunanza di pratiche, valori e certezze religiose, rispetto alla vita e alla morte (non a caso religione deriva da "re-ligare" e allude al legame sociale, oltre che teologico). E deperisce quando, come nel caso italiano,la scristianizzazione alimenta l’egoismo e il familismo amorale, a fianco di un familismo virtuoso che è ancora vitale nella nostra società e affonda le sue radici proprio nella sensibilità religiosa…
Veneziani, dunque, passa in rassegna, uno dopo l’altro i sei principali pregiudizi esistenti nella cultura odierna contro lo Stato-nazione e contro la sua necessità storica, o la sua utilità, nella fase politica attuale: lo fa con molta acutezza e con molta libertà dai condizionamenti e dagli stereotipi del Pensiero Unico, cosa divenuta ormai piuttosto rara.
Giustamente, poi, egli fa notare quanto sia importante la tradizione religiosa, nel complesso di una data tradizione nazionale: diciamo pure che si tratta di un elemento essenziale, se non dell’elemento veramente essenziale. Sarebbe mai nata l’Europa, dalle ceneri della civiltà greco-romana, senza l’elemento vivificante e unificante del cristianesimo? E cosa sarebbe l’Europa, oggi, se fosse priva di quella traduzione? Ecco perché riescono più che sospetti l’accanimento, l’ostinazione, la testardaggine con i quali la cultura massonica e laicista, ormai imperante nel nostro continente, si propone, da almeno due secoli e mezzo, di estirpare completamente quella tradizione: perché una Europa senza più nemmeno il ricordo delle sue radici cristiane, sarebbe un continente votato all’autodistruzione. Oggi, che siamo alle prese con la sfida della immigrazione/invasione da parte di milioni d’individui di religione islamica, ben decisi a rimanere attaccati alla loro tradizione e ad impiantarla nel cuore dell’Europa, anche i ciechi — purché siano in buona fede — dovrebbero incominciare a vedere una semplice verità, finora rimasta apparentemente in ombra: che quando un popolo, o un gruppo di popoli, recidono con le loro stesse mani la tradizione religiosa che li ha formati, li ha cresciuti, li ha resi adulti, si mettono automaticamente sulla strada dell’auto-annientamento, e sono maturi per cadere sotto il tallone del primo venuto il quale abbia, invece, in forte senso di appartenenza religiosa.
Pertanto, alla domanda: Si può ancora amare la Patria, nell’era della globalizzazione? Non sarà una cosa anacronistica, sbagliata, e oltretutto un po’ patetica, qualcosa che ricorda il maestro del libro Cuore di De Amicis e le sue lezioni a quella classe torinese del 1881-82? E la risposta, dopo quanto abbiamo detto, è sicuramente: sì, la si può ancora amare, anzi, vi sono più ragioni per amarla e per volerla difendere, di quante ve ne fossero centocinquanta anni fa. In fondo, lo Stato-nazione e le realtà locali si trovano dalla stessa parte della barricata, minacciati entrambi, come di fatto lo sono, dai meccanismi spietati di una globalizzazione dominata dalla finanza internazionale. Non è inscritto nel loro DNA il destino di essere nemici: non è vero che lo Stato-nazione e le piccole patrie sono due realtà fra loro incompatibili. Entrambe fanno appello alle radici, alla tradizione, alla memoria; entrambe guardano al futuro, partendo dalla realtà presente, senza lasciarsi ipnotizzare dai meccanismi della globalizzazione; ed entrambe sono ricche di anima, laddove il paesaggio, materiale e spirituale, della globalizzazione, ne è sempre più sprovvisto.
Al deficit di anima, al crescente estraniamento, alla disumanizzazione che caratterizzano il mondo globalizzato, dove tutti mangiano hamburger da McDonald’s e bevono Coca-Cola, fanno da contrasto sia i singoli Stati-nazione, con la loro ricca tradizione nazionale, sia le mille e mille realtà locali, le piccole patrie, le autonomie locali, portatrici, a loro volta, di valori identitari quali il dialetto, l’artigianato, l’architettura rustica, la cucina, le cerimonie profane e religiose, il culto dei santi locali, le specificità dell’agricoltura, dell’allevamento, della pesca, con tutti i loro riflessi sociali e culturali.
E tutto questo ha un nome: si chiama Patria; che non è una parolaccia, inventata dai fascisti o dai nazisti, e quindi impronunciabile ai nostri giorni, ma è sempre esistita, ed ha una etimologia dolcissima: la terra dei propri padri…
Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Christian Lue su Unsplash