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2 Ottobre 2016Le isole del Mar Mediterraneo — e anche alcune altre isole sparse nei diversi continenti — recano tracce di piccoli elefanti, impropriamente chiamati "elefanti nani", che vissero nel Pleistocene e che giunsero dall’Africa quando esistevano ancora dei collegamenti terrestri diretti fra esse e questo continente, prima dell’ultima glaciazione (di Würm, fra 80.000 e 10.000 anni fa). In realtà, non è mai esistita una specie di elefante nano, bensì vi furono alcune specie di elefanti del genere Palaeoloxodon, famiglia Elephantidae, di piccole dimensioni, fra loro più o meno imparentati, ad eccezioni di quello della Sardegna (Mammuthus lamarmorae), che discendeva dal Mammut, e, forse – ma la cosa è controversa e, pare, non confermata -, l’elefante di Creta (Elephas creticus). Vivevano in Sicilia, in Sardegna, nell’arcipelago di Malta, nelle Baleari, nelle isole Cicladi, a Creta, a Cipro, nel Dodecaneso. Fuori del Mediterraneo, sono stati rinvenuti resti e scheletri di elefanti nani nell’Arcipelago indo-malese (Flores e Celebes, o Sulawesi), a nord della Siberia (isola di Wrangel), al largo della California (Channel Islands).
Le specie più comuni erano Palaeoloxodon Falconeri e P. melitensis; il ritrovamento più cospicuo è avvenuto in una grotta in località Spinagallo, presso Avola, in provincia di Siracusa, nella Sicilia sud-occidentale; ma anche in alcune grotte delle non lontane isole maltesi (ad esempio a Ghar Dalam, la Grotta Oscura) vennero fatti importanti ritrovamenti. Questi piccoli pachidermi, alti alla spalla da 90 cm. a 1,10 m., giunsero dall’Africa e poi rimasero nelle isole mediterranee quando il livello del mare tornò a salire e i collegamenti terrestri s’interruppero definitivamente (peraltro, è dimostrato che gli elefanti e i mammut nani sapevano anche nuotare in mare aperto: fu in tal modo che questi ultimi (Mammutus exilis) raggiunsero, dalla terraferma del Nord America, l’isola di Santa Rosa, nelle North Channel Islands, al largo della odierna città di Santa Barbara. Non poterono più spostarsi, ma, quasi certamente, non ne avrebbero avuto motivo: si erano ben adattati al nuovo ambiente insulare e vi prosperarono fino all’arrivo della glaciazione o, forse, fino all’arrivo dell’uomo, che può averne affrettato l’estinzione.
La taglia della fauna delle isole tende a rispecchiare le dimensioni delle isole stesse (e qui intendiamo, ovviamente, "isole" in senso bio-geografico e non puramente geografico, cioè non necessariamente delle terre circondate dal mare, ma qualsiasi ambiente che sia isolato e privo di scambi interspecifici, come possono esserlo delle oasi nel deserto, o delle alte montagne, o le acque di un lago privo sia d’immissari che di emissari). Questa sembra essere ormai qualcosa di più di una semplice impressione, diciamo così, a spanne, del naturalista, ma si va configurando ormai come una vera e propria costante, se non addirittura come una "legge" — con tutte le cautele e i distinguo legati all’uso di questo termine — della biologia. Ci eravamo già occupati di questo interessante argomento in tutta una serie di precedenti lavori, fra i quali segnaliamo solo: Il cervo di Key sull’orlo della distruzione per la caccia e la distruzione della foresta tropicale, pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 21/07/2008; e La latitudine influisce sulla taglia degli animali?, pubblicato su Il Corriere delle Regioni in data 22/08/2015). Vogliamo ora tornare sulla questione, prendendo in considerazione un altro caso classico di "nanismo" insulare: quello relativo all’antica popolazione di elefanti che visse in Sicilia e sulle isole di Malta, e che venne scoperto dagli scienziati, grazie al ritrovamento di numerosi e significativi reperti fossili, solo nella seconda metà del XIX secolo, dunque in epoca piuttosto recente (sia in termini storici che geologici).
Ha scritto il prof. Pierluigi Ambrosetti, già ordinario di Paleontologia presso l’Università di Perugia (all’interno del saggio di R. Fairbridge, Le isole; in: A.A.V.V., Grande Enciclopedia Fabbri della Natura, Milano, Gruppo Editoriale Fabbri & C., 1979, vol. vol. 9, pp. 110-112):
Scoperti a Malta nell’800, pubblicati da H. Falconer nel 1862 e da G. Busk nel 1967, i resti della più piccola forma di elefante sono oggi conosciuti soprattutto per il ritrovamento avvenuto nella grotta di Spinagallo, nei pressi di Siracusa. Praticamente ignorato dalla scienza il nome dato da Falconer, cioè "Elephas melitensis" (nome anzi usato in senso errato da Vaufrey nel 1929), anche noi continueremo ad usare, pur se non del tutto a ragione, quello dato da Busk, "Elephas falconeri". È questa forma che è diventata nel mondo paleontologico il più classico esponente di quelle forme endemiche affette da quel fenomeno di impiccolimento legato a segregazione biologica noto come "nanismo insulare". […]
Abbiamo già detto che l’elefante è diventato delle faune nane, ma non è l’unico; in Sicilia abbiamo anche l’ippopotamo nano ("Hippopotamus pentlandi"), in Sardegna un elefante filogeneticamente diverso da quello della Sicilia ("Elephas lamarmorai"), un maialetto, un piccolo megacero, tutti alti circa la metà delle specie da cui sono derivati. È inoltre una tendenza comune a tutti i grandi Mammiferi quella di subire, nelle isole, una piccola diminuzione di taglia (forme diminutive). Non dimentichiamo poi che in situazioni di prolungata insularità non si realizza sempre e solo il fenomeno dell’impiccolimento, ma si può avere anche l’opposto, forme presentanti un aumento notevole delle dimensioni rispetto a quelle dei loro ascendenti, fimo a raggiungere il doppio in altezza. Questo "gigantismo" si è prodotto soprattutto a carico di micromammiferi ed il caso più noto è quello del ghiro gigante della Sicilia ("Leithia melitensis"), un "Gliridae" di dimensioni doppie di quelle dei ghiri continentali (ma a loro non direttamente imparentato).
Torniamo ora a Spinagallo, ed ala sua fauna fossile: nel 1956, all’epoca della pubblicazione dello studio effettuato da V. Vialli, di "Elephas falconeri" erano conosciuti in tutto poche decine di molari ed una decina di ossa degli arti, tutte frammentarie, e praticamente nulla del cranio.
Dal 1958 al 1960 B. Accordi e R. Colacicchi effettuarono nella grotta di Spinagallo il recupero di una immensa quantità di resti fossili, fra cui era massicciamente rappresentato "Elephas falconeri" accompagnato da "Leithia melitensis, "Leithia cartei", numerosi Uccelli, alcuni Rettili, Anfibi e Pesci. Nel orso del relativo studio pubblicato nel 1968 dallo scrivente, sono emersi interessanti dati, che riguardano particolarmente l’elefante.
È stato accertato che erano conservati nella grotta i resti di oltre cento individui, comprendendo sia adulti che giovani e neonati, con qualche resto riferibile a stadi fetali. Considerato il grande numero di resti a disposizione, è stato condotto uno studio statistico che ci permette oggi di conoscere in ogni dettaglio lo sviluppo ontogenetico, cioè le trasformazioni morfologiche delle parti scheletriche nel passaggio dallo stadio infantile alla senescenza, di "Elephas falconeri". Sappiamo con quale ritmo sostituiva i denti, possiamo riconoscere su base osteologica i maschi dalle femmine., queste ultime più numerose dei maschi, come avviene nei branchi selvatici attuali (o meglio della fine dell’800, essendo oggi l’elefante un perseguitato in via di estinzione); le femmine erano poi, da adulte, sprovviste di zanne ed erano un po’ più piccole (massimo 90 cm contro 1,10 m del maschio medio adulto). Da considerazioni sui dati emersi da quello studio, sappiamo oggi che il ritmo vitale era per quelle popolazioni lo steso degli odierni elefanti, con però una più elevata mortalità giovanile, forse causa prima della loro estinzione. Nulla è emerso per supporre ad una forma di nanismo patologico.
Non sappiamo se l’uomo conobbe queste popolazioni siciliane; a Spinagallo furono recuperate alcune ossa fossili annerite, che prima C. Cortesi e poi G. Belluomini, dell’Istituto di Geochimica di Roma, hanno riconosciuto come bruciate: in una grotta è difficile immaginare la presenza del fuoco se non legata a quella dell’uomo.
Quando sono vissuti questi elefanti nani? Dai dati offerti dallo studio stratigrafico della grotta d Spinagallo e del suo riempimento fossilifero già nel 1968 erano stati riferiti alle ultime fasi del ciclo tirreniano o alle prime fasi del glaciale würmiano; oggi G. Belluomini ci fornisce un’età, basata sul processo di racemizzazione degli aminoacidi, collocata attorno ai 70.000 anni fa, il che costituisce una bella coincidenza fra dato stratigrafico e dato cronologico, non sufficiente ancora però per farci accettare questo dato come definitivo.
Potrebbe a questo punto sorgere legittima una domanda: ma come hanno fatto gli elefanti ad arrivare in Sicilia ed in Sardegna? Attorno a cinque milioni di anni fa, alla fine del Miocene o già nel Pliocene basale, la rottura degli ultimi resti delle connessioni continentali fra Italia ed Africa portò a conclusione il processo di formazione del Mare Mediterraneo, con un aspetto abbastanza simile a quello odierno; a testimoniare sia l’esistenza di questi antichi ponti intercontinentali, sia le fasi successive dell’apertura del grande bacino marino, rimangono le faune fossili delle isole del Mediterraneo,, in particolare delle Baleari, della Sicilia e della Sardegna. Abbiamo infatti qui rappresentati lontani parenti delle antilopi, del rinoceronte nero, degli ctenodattili, tutte forme ancora oggi viventi in Africa e mancanti nell’Europa. Per quel che riguarda la Sicilia, pur separata dall’Africa, rimase ancora unita all’Italia e, forse con fasi alterne di unione distacco, dobbiamo giungere a circa 700.000 anni fa per assistere alla sua separazione dalla nostra penisola. Tra i resti fossili che possono provare ciò citiamo la presenza, in Sicilia, sia degli elefanti imparentati con "Elephas antiquus", che di megaceri, tute forme che caratterizzano le faune del Quaternario medio sia italiano che europeo. Un ultimo momento di unione fra la Sicilia, che era rimasta fino a poco prima ancora unita a Malta, e l’Italia vi fu verosimilmente quando ‘uomo paleolitico superiore giunse nell’isola accompagnato da "Equus hydruntinus", un asinide oggi scomparso.
Riassumendo. Non è mai esistito un elefante nano, perché il nanismo, in biologia, è una condizione patologica, una degenerazione dell’organismo; e quindi esso può riguardare singoli individui o singoli gruppi strettamente imparentati, ma non caratterizzare una intera specie o una intera popolazione. Esistono specie animali caratterizzate da una taglia più piccola del normale, intendendo, per "normale", quella della specie affine, o delle specie affini, maggiormente diffuse; ed esiste la teoria seconda la quale i piccoli ambienti geografici tendono a favorire una riduzione graduale della taglia corporea, anche per facilitare le possibilità di sopravvivenza (un animale più piccolo ha bisogno di una minor quantità di cibo, almeno fra le specie di grosse dimensioni; il discorso si capovolge per gli animali di taglia molto piccola, i quali sono costantemente impegnati nella ricerca di cibo, proprio come quelli molto grandi). Un altro fattore che può determinare il rimpicciolimento di una specie è il venir meno della concorrenza, cosa che si verifica appunto quando un’isola rimane definitivamente separata dalla terraferma, e un animale immigrato può trovarsi ad occupare delle nicchie ecologiche che prima erano di altri. Però si tratta di un meccanismo di cui non sono ben note le dinamiche, e di una teoria che attende ulteriori verifiche: infatti, si è osservato che l’isolamento geografico e il venir meno della competizione interspecifica può provocare l’effetto opposto sulla taglia degli animali, vale a dire il gigantismo. Valga per tutti l’esempio degli Uccelli non volatori, come il Moa gigante della Nuova Zelanda (Dinornis maximus), o come Diatryma dell’Europa e del Nord America, o come Phorusrhacus longissimus dell’Argentina, il più impressionante di tutti, soprannominato "uccello del terrore": tutte queste specie avevano finito per occupare delle nicchie ecologiche normalmente occupate da predatori mammiferi, modificando le loro abitudini di vita, la loro alimentazione e tentando addirittura, a un certo punto, di candidarsi al dominio delle terre emerse, nella fase di trapasso dall’età dei grandi Rettili, ormai estinti a quella dei Mammiferi, ancor non affermatisi pienamente.
Bisogna essere, pertanto, molto cauti nel sostenere che la dimora prolungata in un ambiente geograficamente ristretto comporta, come processo naturale e pressoché scontato, una tendenza e quasi una "legge" verso il rimpicciolimento corporeo. In realtà, i fattori da tener presenti sono svariati — la presenza o l’assenza di altre specie concorrenti, in modo diretto o indiretto: la concorrenza può non essere solo di tipo alimentare -; le condizioni generali di suolo, di clima, di condizioni ambientali; le modifiche che può subire la catena alimentare, per cause molteplici; la durata dell’isolamento e le caratteristiche della connessione tra la flora e la fauna; eventuali eventi geologici atti a modificare più o meno stabilmente l’equilibrio complessivo dell’ecosistema. Alcuni di tali fattori possono favorire un aumento, altri un rimpicciolimento della taglia corporea delle specie di recente immigrazione. Il fatto che l’elefante nano sia sopravvissuto in Sicilia e sulle isole di Malta, mentre non se ne trovano tracce nell’Italia continentale, dimostra che fra queste terre esisteva una connessione e che essa si conservò quando ormai anche il distacco dall’Africa era divenuto definitivo; stesso discorso per la Sardegna, ove sono state trovate, insieme alle testimonianze fossili di Mammuthus lamarmorae, anche quelle di Palaeoloxodon melitensis, presente in Sicilia: evidentemente, queste due isole maggiori del Mediterraneo rimasero unite fino all’ultimo da "ponti" di terra che poi scomparvero, al tempo dell’ultima glaciazione. Né è del tutto da escludere, per la ragione detta prima, che vi sia stato un passaggio a nuoto dall’una all’altra, quando però le distanze reciproche non erano quelle attuali, assolutamente insuperabili anche per un mammifero con buone attitudini al nuoto, ma decisamente più brevi e, magari, quando la traversata era facilitata dalle vette montuose emerse in forma di piccole isole intermedie, come i sassi sporgenti dall’acqua nel letto di un torrente in regime di magra.
Non sappiamo se l’uomo abbia avuto familiarità con questi animali, se li abbia cacciati e se sia stato l’autore, o uno degli autori, della loro estinzione. Gli indizi in senso favorevole ci sarebbero: oltre alla coincidenza cronologica, le ossa annerite dal fuoco, e la stessa concentrazione di scheletri nella caverna di Spinagallo, suggeriscono che gli uomini primitivi si nutrissero di questi piccoli elefanti e che utilizzassero alcune grotte per accumularvi le ossa spolpate, se non addirittura per allevarli a scopo alimentare. C’è poi l’ipotesi che proprio dal cranio dei piccoli elefanti siciliani sia nata la leggenda dei Ciclopi, uomini giganteschi muniti di un occhio solo, perché tale vaga rassomiglianza con un teschio umano, dotato di un unico foro oculare, effettivamente esiste. Una cosa del genere è stata ipotizzata per la nascita della leggenda del drago di Klagenfurt, in Carinzia; come scrive Guido Ruggeri in La Terra prima di Adamo (Milano, Mondadori, 1968, p. 13):
In Austria, nel cuore della Carinzia, sta la città di Klagenfurt il cui nome significa guado dei lamenti. Narra una leggenda che in antico un terribile drago aveva insidiato per lungo tempo un guado presso la città, passaggio obbligato per i viaggiatori di transito. Nel Medioevo questa leggenda era ritenuta pura verità perché del drago era stato ritrovato il cranio, a quanto sembra nell’anno 1335. Sulla piazza principale di Klagenfurt fu inaugurato, nel 1636, un monumento al drago rappresentato con la lunga coda ritorta, ali da pipistrello e fauci spalancate nell’atto di lanciare fiamme; fatto notevole, la testa del mostro era stata modellata sul vero cranio. Esso esiste tuttora, in ottimo stato, nel museo della città, però è, semplicemente, ciò che resta di un grande rinoceronte coperto di peli, vissuto in Carinzia in tempi ben più remoti di quelli del drago presunto.
Anche qui, tuttavia, crediamo sia necessario procedere con estrema cautela prima di avventurarsi in conclusioni precipitose. Che la leggenda di Polifemo sia sorta dal ritrovamento dei resti di Spinagallo, è certamente possibile, e, forse, addirittura probabile. Non ne abbiamo tuttavia le prove e nulla vieta di pensare che Omero si sia ispirato a credenze diverse, forse più antiche; forse, addirittura, riferibili ad un ambito geografico completamente diverso. In fondo, noi non abbiamo affatto la certezza che l’epopea del "ritorno" (nostos) di Ulisse abbia quale scenario le coste e le isole del Mediterraneo. Come è noto, alcune teorie recenti tenderebbero a spostare completamente il contesto geografico dal Mediterraneo all’Europa settentrionale, e precisamente al Mar Baltico. In precedenza, alcuni studiosi avevano sostenuto che il contesto geografico originario dell’Odissea doveva essere ricercato nel Mar Nero. Ricordiamo ciò allo scopo di tener sempre presente che una teoria non può mai spiegare un’altra teoria; per spiegare una teoria, ci vogliono dei fatti, e non ulteriori teorie. Perciò, o si riuscirà a dimostrare, in maniera incontrovertibile, che l’ambientazione originaria dei viaggi di Ulisse era proprio il Mediterraneo; oppure bisognerà limitarsi a ipotizzare che il rinvenimento casuale del cranio di uno, o più, dei piccoli elefanti della Sicilia, o di Malta, abbia ispirato la leggenda dei Ciclopi; ma rassegnandosi a restare entro l’ambito delle semplici ipotesi: verosimili fin che si vuole; soddisfacenti, fin che si vuole, per i nostri gusti e le nostre preferenze intellettuali: ma sempre e solo ipotesi, sempre e solo teorie.
Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Vidar Nordli-Mathisen su Unsplash