Cosa devono fare i semplici credenti se un papa tradisce il suo mandato?
24 Settembre 2016
L’errore non è nell’intelletto, ma nella volontà: e ora la Neochiesa negherà la divinità di Cristo
26 Settembre 2016
Cosa devono fare i semplici credenti se un papa tradisce il suo mandato?
24 Settembre 2016
L’errore non è nell’intelletto, ma nella volontà: e ora la Neochiesa negherà la divinità di Cristo
26 Settembre 2016
Mostra tutto

Voce del verbo esultare

Io esulto; tu esulti; egli esulta; noi esultiamo; voi esultate, essi esultano: voce del verbo esultare, intransitivo. Il quale è formato da ex più saltare (nel senso di ballare, danzare gesticolando) e significa provare grande allegrezza; raggiare; tripudiare alla notizia di; essere allegro; essere felice; gioire; godere; entusiasmarsi; essere euforico; essere ebbro di gioia; gongolare. Così il vocabolario.

Nella storia della letteratura, è un verbo che s’incontra nei poemi epici, quando la vittoria arride ai guerrieri sotto le mura della città nemica; quando gli esploratori raggiungono la meta desiderata, o i navigatori superano un difficile braccio di mare; quando i campioni vincono una gara sportiva. Non è un’azione che si incontra spesso, quella di esultare; è riservata a poche, solenni occasioni: in un poema come l’Iliade, che pure è tutto un risuonare di armi e un clamore di gesta guerresche, lo s’incontra qualche volta. Ma colui che si abbandona all’esultanza deve stare bene attento: perché essa deve essere proporzionata, anche nel giudizio altrui, alla difficoltà della prova che è stata affrontata; pena il ridicolo. Esultare per una impresa da poco, per aver superato un piccolo ostacolo, per aver trionfato di un nemico striminzito, sarebbe come segnare un autogol: farebbe cadere l’ombra del ridicolo su colui che esulta con troppa facilità. Si rischia di apparire non già come Ettore o Achille, giustamente fieri delle proprie imprese di valore, ma come il conte di Culagna della Secchia rapita di Alessandro Tassoni: buffi, grotteschi, patetici, millantatori. Infatti, non si esulta fra sé e sé; si esulta sotto gli occhi di tutti, ci si vanta del proprio successo e si inneggia alla propria vittoria; e, per ciò stesso, ci si espone al giudizio del pubblico. In un certo senso, esultare è un’azione che si basa sulla comunicazione: non si esulta da soli; o, se lo si fa, lo si fa solo mentalmente: ma i gesti, la mimica, le grida, questo è teatro allo stato puro, cioè una forma di comunicazione.

In altre parole, l’esultanza deve essere un’azione rara, quasi come l’oro: non si trova l’oro ad ogni pie’ sospinto, in ogni greto di torrente; e non si può esultare ad ogni minima occasione, perché, in tal caso, l’azione perderebbe valore, diverrebbe banale, ridicola. Questo, però, è precisamente quel che accade, quel che si vede continuamente, ad ogni passo, sempre più sovente: tutti che esultano, che si abbandonano a sfrenate manifestazioni di tripudio. Una squadra di calcio vince la partita: ed ecco che i giocatori balzano letteralmente l’uno nelle braccia dell’altro, si stringono, si baciano, urlano a squarciagola la loro felicità, stringono il pugno e agitano il braccio al cielo. Due giocatrici di tennis vincono un "doppio" ad un torneo, più o meno importante: ed ecco che gettano in terra la racchetta, si stringono, si avvinghiano, si rotolano per terra, si coprono il collo e il volto di baci appassionati, come due amanti che una lunga separazione abbia reso più ardenti e incuranti dell’universo mondo. Uno studente ha superato l’esame di stato, si è diplomato, oppure si è laureato: ed ecco che lui, i suoi amici, i suoi parenti si abbandonano a manifestazioni di gioia incontenibile, straripante, furiosa, quasi che avesse piantato, lui per primo, lui solo, la bandiera in cima al Monte Everest, o nella posizione esatta del Polo Sud. Eppure, i diplomi di liceo e le lauree universitarie, oggi, sono certo assai meno sudati che una o due generazioni fa: non c’è nemmeno da fare un paragone. Solo che i nostri genitori e i nostri nonni non esultavano a quel modo; non urlavano e non piangevamo di gioia a quella maniera; e i loro amici e parenti, era già tanto se trovavano il tempo di far loro i complimenti, di stringer loro la mano o festeggiarli con un abbraccio estremamente sobrio, del tutto simbolico, quasi sfiorandoli.

Che cosa è successo? Perché oggi la gente ha una tale facilità ed esultare? A giudicare dal fragore degli applausi, si direbbe che perfino i funerali siano divenuti delle occasioni di esultanza: esultanza di che cosa o per che cosa, non è ben chiaro, probabilmente, neppure a coloro che si spellano le mani ad applaudire, invece di tributare al morto un pensoso silenzio, e di rivolgere a Dio una preghiera per la sua povera anima peccatrice e bisognosa d’indulgenza. Però, intanto, si applaude: lo fanno tutti; che cosa si stia applaudendo, non si sa.

Per capire meglio questo fenomeno, bisogna partire da una considerazione e da una osservazione. L’osservazione è che i nostri nonni, appunto, non esultavano: conservavano, in ogni circostanza della vita, una certa quale gravitas da persone serie e moderate; un forte pudore dei propri sentimenti. L’esultanza è una forma di gioia; la gioia è un sentimento molto forte, che dice tante cose su colui che lo manifesta: dunque, manifestare ostentatamente, sguaiatamente, scompostamente la propria esultanza, è come mettersi nudi davanti a tutti, e ballare nudi per farsi ammirare. È una forma estrema di narcisismo, una totale mancanza di pudore. Inoltre, si esulta per le proprie vittorie, non per il successo di qualcun altro, di un amico, ad esempio: perciò è anche una ostentazione del proprio io, della propria vanità, del proprio orgoglio. Non si sa bene perché gli altri debbano sorbirsi questo spogliarello inverecondo, sovente non solo metaforico, che consiste nello sbandierare al massimo, nel gridare dai tetti, la propria gioia per aver avuto successo, per aver vinto. I nostri nonni ci avevamo insegnato che l’uomo di valore sa contenersi, ma moderarsi, sa controllarsi, anche e soprattutto nella lieta fortuna; e che ostentare le proprie vittorie è una cosa non bella, né giusta.

La considerazione è che, in una società — come la nostra — basata sull’apparire e non sull’essere, l’ostentazione di una cosa, ad esempio di un sentimento, è inversamente proporzionale al suo valore intrinseco, e, in particolare, alla fatica e ai sacrifici fatti per conseguire quel tale risultato. Quanta maggiore è stata la fatica, quanto più gravi i sacrifici, tanto più sobria sarà la reazione davanti al successo; quanto minore la fatica e tanto più lievi i sacrifici, tanto più ostentata sarà la vittoria. È la legge dell’apparire: una legge così forte e pervasiva, che quanti ne subiscono il potere neanche si rendono conto di mentire a se stessi, allorché gonfiano e ingigantiscono, ai propri occhi, le fatiche sopportate e i sacrifici affrontati, e si auto-rappresentano come degli eroi, mentre invece hanno ricevuto tutte le facilitazioni possibili, e il loro impegno è stato decisamente modesto. Ma riconoscere una cosa del genere, equivarrebbe a riconoscere la propria mediocrità, la propria piccolezza: e il nano vuol sempre apparire un gigante; sempre: fa parte della sua natura; quanto più e nano, tanto più s’immagina di essere diventato un gigante. È la vecchia favola della rana e del bue.

La società dell’apparire è anche, necessariamente, la società della menzogna. Mentono tutti, sistematicamente; e il bello è che ciascuno sa che la menzogna regna universale e sovrana: ciò non toglie che ognuno continui a mentire, come se gli altri non vedessero la sua menzogna, e come se le menzogne fossero diventate, chi sa come, altrettante verità sacrosante. Tutti sanno che i mulini non sono più bianchi e che i prodotti alimentari non sono più quelli sani e naturali di una volta; però tutti quanti, e per primi gli industriali che ne curano la produzione e il commercio, fingono di credere, e pretendono di far credere a tutti, che i mulini sono tornati bianchi e che i loro prodotti sono sani e nutrienti come quelli del nonno. Tutti mentono e tutti sanno di mentire, ma, nello stesso tempo, tutti rifiutano di credere alla propria menzogna, e fingono di non vedere le menzogne altrui, Tutti sanno — basta dare un’occhiata a internet — che il seno dell’attrice tal dei tali è completamente rifatto; lei, però, nega la cosa, e intanto lo ostenta, scoperto, per farne ammirare la perfezione e anche, guarda un po’, la "naturalezza": e quel che fa lei, fanno tutte le altre. Il pubblico, i lettori di gossip, sanno che non è così; nondimeno, non c’è quasi più una donna di spettacolo che non si rifaccia chirurgicamente il seno, le labbra, il viso, il naso, i polpacci, e Dio sa cos’altro. Tutti sanno che quei corpi sono pieni di silicone, che sono fasulli, che sono costruiti; ma tutti lo negano e giurano il contrario. La menzogna è palese, eppure va avanti; e l’ipocrisia dominante riesce a far procedere le cose in questo modo, come se nulla fosse. In un mondo sano, l’evidenza della menzogna squalificherebbe il mentitore; cioè, nel nostro caso, farebbe passare la voglia a quelle signore di continuare a rifarsi, e le indurrebbe ad accettare i segni naturali dell’età: insegnerebbe loro, magari, come sapevano fare le loro madri e le loro nonne, a puntare sul fascino, che dura molto più della bellezza legata alla giovinezza, perché può mostrare anche le rughe e farne addirittura un elemento interessante. Tutto questo, però, sarebbe saggezza; e la saggezza è figlia della sincerità: dunque, una cosa impossibile nella società della menzogna. Abbiamo costruito un labirinto di menzogne dal quale non sapremmo più uscire, neanche se lo volessimo (e non lo vogliamo). Qualcuno s’immagina un impiegato di banca che dica, onestamente, al vecchio cliente: «Guardi, veda un po’ lei: ma sappia che tutti questi prodotti finanziari che le proponiamo, sono nel nostro interesse, non nel suo; siamo costretti a proporli, a nostra volta: però non si fidi»? No, è una cosa impensabile.

Esultare con troppa facilità, dunque, è cosa poco bella e, sovente, disdicevole: primo, perché rappresenta uno sfogo incontrollato di narcisismo, che potrebbe infastidire gli altri, e, soprattutto, che mette a nudo la nostra piccolezza, la sproporzione che esiste fra i meriti che pensiamo di avere, e il nostro valore effettivo, generalmente modesto; secondo, perché crea una spirale inflazionistica, che, come tutte le manifestazioni della società consumista, richiede dosi sempre maggiori, via, via che ci si abitua ad un simile stile; e allora, se si esulta in maniera scomposta e pacchiana per un diploma, per una vittoria sportiva (con tanto di pubbliche dichiarazioni, nelle quali si mettono in piazza, bellamente, i propri sentimenti e gli affetti più intimi, magari con la scusa di dedicare alla persona amata la propria medaglia), che cosa si dovrebbe fare per il successo in un concorso statale, o per un matrimonio, o per un grosso avanzamento di carriera? Bisognerebbe forse tappezzare la città con le proprie fotografie, con il proprio nome, o noleggiare delle automobili munite di megafoni, che vadano su e giù per le strade, a pubblicizzare la nostra gioia; oppure, ancora, acquistare — avendone la possibilità — una pagina intera di un giornale quotidiano, e mettere nero su bianco, per la gioia dei lettori, il tripudio che si agita nel nostro cuore? E perché non noleggiare un aereo da turismo che passi sopra la città a bassa quota, o che sorvoli una spiaggia affollatissima, per far sapere a tutti, ma proprio a tutti, che la buona sorte ci ha baciati in fronte, e che noi siamo ebbri di esultanza?

Difatti, queste sono cose che già si fanno: e la dicono lunga sul grado di banalità, di ostentazione, di narcisismo che abbiamo raggiunto nella gestione pubblica dei nostri sentimenti privati. La gioia è, o dovrebbe essere, il più privato di tutti i sentimenti: perché gioire di qualcosa significa anche rivelare al mondo il nostro più intimo segreto. Ma siamo sicuri che la cosa giusta da fare sia comunicarlo, o meglio, gridarlo e sbandierarlo a tutto il mondo? Non sarebbe più giusto condividere la nostra gioia con pochissimi amici e con i nostri familiari, che ci conoscono, ci apprezzano, ci stimano e sanno se abbiamo fatto dei sacrifici, oppure no, per raggiungere quel determinato traguardo? Che cosa può importare agli altri, agli estranei, a quelli che non ci conoscono, quel che abbiamo fatto ed i risultati che abbiamo raggiunto? Ma, soprattutto, perché dovrebbero essere interessati allo spettacolo della nostra esultanza scomposta e pacchiana? La mancanza di autocontrollo e di senso del limite, l’ostentazione, il narcisismo, l’assenza di pudore e discrezione, sono tipiche espressioni dell’animo infantile: sono i bambini che si comportano così. Ma gli adulti non sono bambini; al massimo, sono dei bambocci, cioè degli adulti rimbambocciti. Non c’è nulla di cui gloriarsi, dunque. L’esultanza pubblica ed esagerata non è che la confessione pubblica ed eloquente dello stato di rimbambimento generalizzato che affligge la nostra società. Lo aveva capito bene lo scrittore polacco Witold Gombrowicz: si legga il suo romanzo Ferdydurke per esserne convinti. Il libro venne pubblicato nel 1937: prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale. Sono passati circa ottant’anni: eppure, quanta verità in esso! Abbiamo avuto anche dei profeti laici di questo tipo, ma non li abbiamo compresi. E siamo scivolati nella palude del ridicolo; quel ridicolo che avremmo potuto benissimo risparmiarci. Ci consoliamo riflettendo che, se tutti si rendono ridicoli, nessuno appare ridicolo: miserabile consolazione, e, oltretutto, falsa. In un mondo siffatto, può darsi che nessuno appaia ridicolo: ma essere ridicoli, questo non potrebbe togliercelo di dosso neppure il Demiurgo di Aristotele. Almeno, se il concetto di verità non è stato archiviato anch’esso, una volta per tutte.

Tuttavia, c’è un terzo motivo per cui dovremmo imparare ad esultare un po’ meno, a controllarci nella buona fortuna, ad astenerci dalle clamorose manifestazioni, ed ostentazioni, del nostro tripudio. Si dice — lo racconta lo storico greco Polibio — che Scipione Emiliano, davanti alle rovine di Cartagine, finalmente presa e distrutta dai Romani, invece di gioire, invece di tripudiare, invece di esultare, sia scoppiato in pianto. La ragione è che, in quel momento, anziché assaporare la fine della guerra da lui condotta vittoriosamente contro quella città, non poté fare a meno di pensare che lo stesso amaro destino, prima o dopo — magari in un futuro così lontano, che a stento lo si sarebbe potuto immaginare, come un realtà fu — avrebbe subito il medesimo destino. Chi oggi trionfa, domani cadrà: tale è la legge delle cose umane. Chi di spada ferisce, di spada perisce, avrebbe detto Qualcuno. Più in generale: tutto ciò che ha un inizio, avrà anche una fine; tutto ciò che sorge, dovrà tramontare; tutti coloro che oggi vincono, domani saranno vinti. È il Qoelet, il libro forse più pensoso e severo dell’Antico Testamento, a ricordarci la grande massima che, nella vita terrena, tutto è vanità. Non dovremmo scordarcene mai…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Sam Mgrdichian su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
Hai notato degli errori in questo articolo?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.