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Salendo la ripida montagna boscosa, soltanto per pregare Maria

Che fare? Che fare? Questa la domanda, anzi, la preghiera che usciva dal petto dell’uomo ancora giovane, ma già stanco e deluso dalla vita, che scrutava con occhi ansiosi la statua della Madonna, in cima alla montagna, in quella limpidissima mattina al principio di settembre, dopo aver percorso un lungo e faticosa sentiero solitario in mezzo alla natura selvaggia, nella vasta foresta di pini e di betulle, ad Arbonne, all’estremità occidentale dei Pirenei francesi, quasi in vista dell’immensità dell’Oceano Atlantico.

Nell’aria indugiava un magnifico profumo di resina, e il mondo intero pareva immerso in una pace sospesa, stupefatta, in quel luogo appartato e che pareva uscito allora dalle mani del Creatore, come nel primo giorno, immensamente lontano dal tumulto delle città e dal groviglio della folla in perenne agitazione. Un impulso improvviso lo aveva afferrato, alcune ore prima, uscendo all’alba dalla locanda; aveva alzato gli occhi verso l’alto e aveva scorto quell’antico edificio in cima alla montagna, che si stagliava contro il cielo azzurro. E così proprio lui, che mai aveva rivolto un pensiero o una preghiera a Maria, la Madre di Gesù, e che aveva dissipato i suoi anni migliori fra gozzoviglie, facili amori e propaganda volterriana e irreligiosa; lui, che tanto aveva fatto soffrire la sua giovane sposa, con i continui tradimenti e la crudele insensibilità; l’anarchico militante, che aveva girato il Paese per tenere conferenze e convincere il pubblico dell’inesistenza di Dio e della necessità di liberarsi per sempre dal sentimento religioso e, con esso, dalla Chiesa cattolica, adesso era lì, smarrito, trepidante, in attesa di qualcosa, come un bambino. Non era un uomo insignificante, un’anima tiepida: era un uomo dalle forti passioni, dalla viva intelligenza; un intellettuale raffinato, che, dopo un’infanzia estremamente difficile e sfortunata, si era fatto un nome come elegante poeta simbolista, e pubblicato le sue poesie, pervase da un fortissimo senso del mistero e della natura, su alcune prestigiose riviste letterarie.

Si chiamava Adolphe Retté, era nato a Parigi il 25 luglio 1863 e sarebbe morto a Beaune, in Borgogna, l’8 dicembre 1930); aveva cercato confusamente la sua strada, dedicando cinque anni della sua vita al servizio militare; poi, conquistato dall’ideale anarchico, si era trasformato in una specie di commesso viaggiatore della rivoluzione, pur non smettendo di dedicarsi alla poesia: le sue raccolte Cloches en la nuit, del 1889, e Una belle dame passa, del 1893, rivelavano una delicata e profonda sensibilità, un incanto quasi fanciullesco davanti all’enigma della vita, e uno struggente desiderio di trovare una risposta, di individuare una strada da percorrere. Come si disse per J. K. Huysmans, il capofila di tutti i decadentisti francesi, la sua esistenza si stava avvicinando a una svolta, oltre la quale non gli restava che tirarsi un colpo di pistola, oppure gettarsi ai piedi della Croce. La sua dolce sposa era morta, lasciandolo solo, o, piuttosto, libero di sprofondarsi sempre più nel disordine morale; le difficoltà economiche lo attanagliavano; la schiavitù sensuale nei confronti di un’altra donna, per la quale non poteva provare né stima, né amicizia, né tenerezza, lo umiliava; il suo carattere intransigente gli faceva sentire tutti i limiti e l’insostenibilità della sua condizione interiore. Probabilmente, i rimorsi lo perseguitavano, come fantasmi silenziosi.

La svolta era incominciata una sera, al termine di una delle sue conferenze sull’anarchismo, in un piccolo centro di provincia. Quando ebbe terminato di parlare, alcuni artigiani gli si erano avvicinati e, dopo essersi complimentati con lui, avevano voluto rivolgergli, quasi esitanti, una domanda: Ma allora, se Dio non esiste, come ha avuto principio il mondo? Lo guardavano con la massima attenzione, con una aspettativa quasi spasmodica: certamente si attendevano una parola di chiarificazione, su questo punto decisivo, da quel giovane intellettuale che sembrava sapere tutto, comprese le ultime scoperte della scienza; da lui, dallo scrittore parigino, colto e intelligente, avrebbero appreso la verità e tacitato i loro dubbi. Egli li guardò a sua volta e provò un indefinibile senso di turbamento. Ebbe l’impulso di confonderli con un discorso irto di paroloni, in modo da rassicurarli sul fatto che Dio non esiste, ma senza darne una vera dimostrazione, per il semplice fatto che non poteva; ebbe, insomma, la tentazione di fare come don Abbondio con Renzo, quando tentò di confondergli le idee con il suo latinorum. Ma era una persona intellettualmente onesta: quegli uomini aspettavano da lui una parola di verità, ed egli comprese che non avrebbe mai potuto ingannarli o prendersi gioco di loro. Rispose pertanto, con la massima franchezza: No, non lo sappiamo; nessuno lo sa, nemmeno gli scienziati. Essi parvero sorpresi, increduli: possibile? Come si può negare l’esistenza di Dio, e subito dopo riconoscere che non si sa come sia nato il mondo? Pensavano che volesse tenerli in sospeso, o che non li ritenesse all’altezza di una risposta approfondita; allora egli sciolse ogni dubbio, ribadendo che non c’era una risposta alla loro domanda: questo, almeno, glielo doveva. A degli esseri umani che cercano la verità, non è lecito rispondere con una menzogna. Si separarono con un certo disagio: loro delusi, lui pensieroso e turbato sin nel profondo.

E adesso, eccolo nella foresta dei Pirenei, lontano da tutto, con l’anima lacerata da spinte contrastanti, ma già con la vaga sensazione che un po’ di luce si stia facendo strada in mezzo alle tenebre fitte, e già con un vago senso di sollievo, con una letizia indefinita, con un principio di serenità quale non aveva mai provato prima. Egli è sempre stato il cantore della foresta, come si vede nelle raccolte La Forêt bruissante, del 1896, e Dans la Forêt, del 1903; ma la foresta, per lui, era stata — finora – quella famosa di Fontainebleau, non lontano dalla capitale, percorsa da migliaia di turisti; mentre questa, nell’angolo più sperduto della Francia, immersa in una solitudine e in una pace senza tempo, è tutta un’altra cosa. Qui, forse, egli potrà trovare quel che va cercando con tanta nostalgia…

Così Adolphe Retté ha narrato quella sua indimenticabile esperienza, sia fisica che estremamente intima, nel libro autobiografico Dal Diavolo a Dio (titolo originale: Du Diable à Dieu, histoire d’une conversion, Parigi, A. Messein, 1907; traduzione dal francese di Leopoldo Cassis, Modena, Edizioni Paoline, 1961, pp. 118-12, passim):

Il giorno dopo l’arrivo, cioè il 2 settembre, mi alzai all’alba e, sicuro di non venir contristato da nessuna carovana di tal genere [cioè di chiassosi turisti], raggiunsi la foresta, i cui frondeggi spiovono con mormorio solenne fin quasi alla soglia dell’albergo, dove ero alloggiato.

Col cuore inondato da una gioia radiosa, salutai i pini e le betulle, che fiancheggiano il sentiero in agili colonnati, pieni di armonie sospirose, di raggi sonnecchianti sui muschi e di tenui ombre.

Me ne andavo contento, aspirando il profumo delle resine e dei succhi, cogliendo qua e là un gambo di erica, tutto commosso dalle carezze di cui il fogliame spiovente mi lambiva la fronte. — O Natura silvestre, dove circola il soffio di Dio, mi apparisti materna e consolatrice!

Giunsi a pie’ della roccia di Cornebiche… Mi fermai di botto, scorgendo sulla vetta il piccolo oratorio sormontato dalla statua della Madonna delle Grazie.

Veduta dal basso, se ne distinguono appena le forme, ma la conoscevo bene, poiché mille volte mi ero seduto sul basamento per ammirare lo splendido paesaggio, che si scorge dall’alto della collina. Tosto mi venne l’idea di salire verso l’oratorio; poiché al gaudio, che traboccava dall’anima, s’aggiungeva, più intenso che mai, quel sentimento del divino, che da parecchi mesi dominava la mia vita interiore. Fin allora non mi ero mai rivolto mai alla buona Madre; ma incontrandola all’improvviso nella foresta, presentivo che bisognava parlarle e che ella sarebbe stata un’ausiliatrice presso il Signore Iddio. Senza esitare, intrapresi la scalata alla roccia. […]

Il sentiero s’inoltra sotto una buia volta di pini, serrati gli uni sugli altri; poi esce fuori in una radura; quindi comincia a inerpicarsi in mezzo a betulle ritorte e ad arenarie dai contorni rudi e scoscesi. Si incespica contro le radici; si sdrucciola sulle foglie aghiformi di pino secco, che coprono la sabbia; talvolta si cade. D’altronde, è bene ricordare che più si va innanzi e più la salita diventa ardua: certuni vi rinunziano e, giunti a mezza strada, tornano sui loro passi.Dopo si traversa un burrone, riempite da uno sviluppo di felci altissime, riarse dal sole, e di sterpi spinosi. In fondo alla cavità si ergono massi enormi, che sembrano sbarrare il passaggi: ci domandiamo come superarli: ma ecco, scorgiamo un andito rinchiuso, dove il sentiero s’insinua. Si sale; si sale sempre con maggior fatica, perché gli sterpi ci si aggrappano addosso per impedirci di avanzare; perché cespi d’erica si gettano fra i piedi per trattenerci, perché perfidi muschi nascondono la strada. Si sale ancora e si dà di cozzo contro un primo albero caduto, che ostruisce completamente il cammino formando in alto una specie di arco di ponte, donde si staccano lunghe schegge. Non c’è da esitare: l’unico modo per passare consiste nell’avventurarvisi sotto, camminando carponi.

Vinto finalmente le’ostacolo, ci troviamo circa a mezza costa. Quindici passi più su, ecco un secondo albero caduto; ma questo viene scavalcato senza troppe difficoltà. Il paesaggio circostante comincia a manifestarsi nella sua grandiosità. Per qualche centinaio di metri, il sentiero segue il fianco della roccia come una cornice; ci si riposa un po’ e si ripiglia lena, perché resta ancora da fare un rude sforzo.

Infatti, subito dopo, il sentiero ricomincia a salire quasi verticalmente o gira su se stesso a zig-zag, poco adatti all’ascesa. Si supera un terzo albero caduto e, alcuni passi più in là, si urta contro un quarto. Questo è formidabile; i rami morti lo fanno irto a guisa di erpice, che impedisce del tutto di passarvi sopra; mentre al disotto, fra il tronco e il suolo, rimane uno spazio così minimo, che si crede di non riuscire ad inrtrodurvisi. Si resterebbe scoraggiati, se non si avesse la ferma volontà di giungere alla vetta. Finalmente ci si risolve: strisciando, col viso quasi a terra, si scivola sotto il tronco, la cui corteccia ci pialla la schiena. Poi ci si raddrizza e, contenti di esser rimasti vittoriosi una volta di più, si ricomincia ad arrampicarsi sul pendio quasi a picco. Si giunge finalmente a una piccola grotta, che s’incava sotto una roccia mostruosa; è utile sostarvi qualche minuto e sedersi per raccogliere lo spirito. Indi il sentiero serpeggia fra arboscelli, i cui rami ci sferzano; svolta a destra fra due massi di quarzo, e a un tratti finisce sulla cima. È un’ampia spianata, lastricata di ricce a livello del suolo, una delle quali s’incava davanti all’oratorio in una specie di pila naturale, che contiene quasi sempre acqua piovana. Qua e là sorgono grossi cespi di ginestre, di teneri pini, di esili betulle; ma v’è un ampio spiazzo vuoto, in mezzo al quale s’innalza l’oratorio. Questo è una torre rotonda , alta circa sette metri e sormontata da una statua – insignificante dal punto di vista artistico — della Vergine col Bambino. La torre è costruita di frammenti di arenaria, uniti con cemento. In una parola, un edificio logoro, la cui nudità armonizza con le rocce cupe e con le vegetazioni selvagge, che la circondano. Due aperture laterali e un atrio, munito d’inferriata, permettono di vederne l’interno. Si scorge per altare un cubo di travertino, poggiato su tre massi di arenaria, che vorrebbero essere una specie di gradini. […]

Nondimeno, appena tutto ansante toccai la vetta in quella splendida mattina e contemplai la statua della Madonna, sì bianca e calma nella vastità dell’azzurro senza nuvole, che il sole impregnava d’un fulgore d’oro etero, mi sentii l’anima rapita da un entusiasmo irresistibile.

Giunsi le mani e, voltandomi alla Madonna santa, le dissi: – Ecco: qualche cosa mi ha comandato di venire a Voi e son venuto… Voi, che finora non ho mai invocato; Voi, a cui i fedeli alzano gli occhi nelle afflizioni, pregate il Figliuol vostro di additarmi ciò che ora debbo fare.

Poi mi sedetti sopra una roccia e presi la testa fra le mani, ripetendo: – Che fare? Che fare?

Che fare? è la domanda che tutti dovremmo farci, a un dato momento della vita. La si può porre in termini materialistici e rivoluzionari, come il russo Černiševskij, e, dopo di lui, da un altro russo, V. I. Ulianov, detto Lenin, autori rispettivamente di un romanzo e di una importante opera politica che recano quel titolo. Oppure la si può porre in maniera spirituale, come domanda dell’anima che cerca l’Assoluto: per chi cerca l’Assoluto, qual è la cosa da fare, subito, ora, senza più frapporre indugi ? Senza dubbio, qualcosa si deve fare: non si può far finta di nulla e seguitare a trascinare i giorni, dopo che l’anima è stata da un presentimento di beatitudine. Non siamo padroni del tempo, neppure dell’istante: domani stesso, potremmo non esserci più. E, allora, sarebbe irrimediabilmente tardi…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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