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31 Agosto 2016Lutero, a sentire i suoi estimatori (sempre più rari, tranne che in Italia, dove le mode estere durano in proporzione inversa alla loro solidità effettiva nei rispettivi Paesi d’origine), avrebbe avuto il "merito" storico di rinnovare il cristianesimo, di eliminare gli abusi, di restituire freschezza e profondità alla fede; sarebbe stato un grande maestro di interiorità.
Le cose, in effetti, stanno esattamente all’opposto: il significato storico della sua "riforma", che si dovrebbe chiamare semmai rivoluzione (perché le riforme restaurano l’esistente, non mirano a distruggerlo, o, almeno, non intenzionalmente) è stato quello di alleviare o togliere tutto ciò che, in esso, è troppo duro, troppo esigente, impone troppi sacrifici, troppe rinunce, e metterlo, così, al livello dell’uomo medio, cioè del mondo: insomma di normalizzarlo, appiattendolo e livellandolo al ribasso, togliendo lo scandalo della Croce, proclamando i "diritti" della natura, salvo poi purificarsi mediante il pentimento.
L’atteggiamento di Lutero nei confronti del sacerdozio; la sua netta avversione, per non dire il suo odio, nei confronti della vita consacrata, e particolarmente del celibato ecclesiastico; le sue stesse scelte di vita, come quella di gettare la tonaca e sposarsi con una ex monaca, lei pure smonacata, Katharina von Bora, in omaggio alla comoda dottrina del "sacerdozio universale dei credenti", è, al riguardo, ancora più eloquente di tutti i suoi scritti e le sue enunciazioni teoriche.
Lutero non credeva alla santità (infatti nel protestantesimo non ci sono santi); non credeva che l’uomo possa innalzarsi al livello della vita divina, se non per opera esclusiva di Dio, che agisce su di esso come un burattinaio nei confronti del burattino: ma, quanto a se stesso, l’uomo non può far nulla, non vuole far nulla, perché è pigro, miserabile, cattivo, impenitente. In verità, l’odio di Lutero è diretto essenzialmente contro le opere: gli sembra inverosimile che l’uomo possa fare qualcosa di buono, e giudica intollerabile una teologia che lo presupponga. L’unica giustificazione che si può dare di questa sua autentica nevrosi è che il clero cattolico, purtroppo, aveva fatto mercato delle opere: bastava pagare, e si poteva ottenere quasi tutto, comprese le indulgenze. Ma dalla critica a un errore, o a una serie di errori, di genere pratico, Lutero (che era un pessimo teologo, perché sapeva ragionare solo intermini di bianco e nero, senza alcun senso delle sfumature e delle distinzioni) passò arbitrariamente alla critica radicale, fanatica e unilaterale, della dimensione spirituale: e affermò che non ci si può salvare dalla perdizione per mezzo di alcuna opera, ma solo con la fede. Egli agì esattamente come un medico, il quale, per combattere le emicranie, prescriva a tutti i suoi pazienti una pronta e inesorabile decapitazione: le emicranie scompariranno dalle statistiche della malattia, però scompariranno, evidentemente, anche i pazienti. Non c’era bisogno di un teologo per formulare una simile teoria: bastava un macellaio.
Il sacerdozio, dunque. Per Lutero, essendo impossibile la santità, la cosa migliore è sposarsi: infatti, non sposandosi, si "arde", e, ardendo, si è più che mai lontani da Dio. A parte l’aspetto sgradevole di questa concezione del matrimonio, visto come un brutale sfogatoio di pulsioni carnai incoercibili, ma, tutto sommato, sporche, o, quanto meno, poco nobili, resta la svalutazione totale della vita celibataria e della verginità; resta la sfiducia radicale nei confronti della capacità, per un religioso o una religiosa, di rimanere casti e rivolgere interamente a Dio, e a Dio solo, le proprie energie ed i propri pensieri. In questa concezione, la vita consacrata viene ad essere svalutata e disprezzata e la vita matrimoniale viene innalzata al di sopra di essa, come più perfetta, appunto perché più "naturale". Infatti il prete celibe, per Lutero, è una specie di individuo anormale, patetico e potenzialmente pericoloso per se stesso e per la società, perché incarna un modello di vita che egli ha deciso essere "impossibile" e "irrealizzabile".
Ora, la dottrina cattolica va (o forse bisognerebbe dire: andava) proprio nella direzione opposta. La vita consacrata sta un gradino più in alto di quella matrimoniale, appunto perché la perfezione sta nel lasciare ogni cosa e ogni cura terrena, figli compresi, per rivolgere l’anima unicamente a Dio e al prossimo (ma in forma del tutto disinteressata, cioè nell’amore di carità descritto da san Paolo). Oggi quasi nessun teologo cattolico e quasi nessun prete o vescovo cattolico hanno ancora il coraggio di dirlo, mentre lo dicevamo, e a testa alta, fino a qualche decennio fa (diciamo fino al Concilio Vaticano II): la vita del sacerdote e quella del religioso — o della religiosa — sono intrinsecamente migliori e più perfette di quella dell’uomo o della donna sposati, perché, sebbene entrambi — l’ordine sacro e il matrimonio — siano dei Sacramenti, pure è migliore e più perfetto quello, dei due, che avvicina più direttamene a Dio, rispetto a quello che vi giunge per una via più lunga e più malcerta. Oggi non osano più dirlo, perché temono di apparire superbi, e, più ancora, perché hanno finito per fare proprio, tacitamente e non apertamente, quindi con ipocrisia e cattiva coscienza, il punto di vista luterano; salvo poi lamentarsi per il crollo delle vocazioni religiose;. E non si rendono conto, a quanto apre, che quel crollo è dovuto anche al fatto che i teologi e i preti, per primi, hanno smesso di credere che la loro scelta sia stata più perfetta, e migliore, di quella di sposarsi: evidentemente, non sono convinti di aver scelto la parte migliore, e rimpiangono, forse, qualche cosa che non hanno fatto, le esperienze che non hanno vissuto: l’amore coniugale, la paternità e la maternità. Benissimo: tuttavia, se le cose stanno così, non devono poi meravigliarsi che i seminari si svuotino e che, ormai, un solo sacerdote sia costretto ad occuparsi almeno di due o tre parrocchie, affannandosi dall’una all’altra, spesso ricevendo poco o nessun sostegno dalle famiglie e dalle comunità dei "fedeli". Chi comprerebbe una lavatrice o un’automobile – ci sia perdonato il paragone appartenente rozzo e frivolo — da un venditore che, in casa propria, abbia una lavatrice di altra marca, e in garage un’automobile di tutt’altra produzione, rispetto a quella che egli reclamizza presso il pubblico? Ciò che facciamo, e la coerenza con cui lo facciamo, sono fattori decisivi per fare di noi dei modelli credibili di un certo stile di vita, oppure no. Chi non ha fiducia in se stesso, non potrà mai ispirare fiducia negli altri; chi non si ama veramente, non riuscirà ad ispirare un vero amore in chicchessia; e chi non è convinto di aver fatto la scelta migliore, non potrà mai convincere alcuno che la propria vocazione ed il proprio orientamento di vita siano da considerarsi preferibili a quelli di chiunque altro, ispirato da motivazioni completamente diverse.
Scriveva, in anni non sospetti, padre Cornelio Fabro, un grande teologo che, non appartenendo alle file dei preti "progressisti", è stato messo in ombra da vivo, e dimenticato subito dopo la morte (da: C. Fabro, L’avventura della teologia progressista, Milano, Rusconi Editore, 1974, pp. 266-270):
A suo avviso [di Kierkegaard], il pastore nel protestantesimo è uno "spostato", l’esistenza del pastore è dal punto di vista cristiano una cosa fuori posto: […]
Di qui procede anche il giudizio aspro di Kierkagaard su Lutero e sul matrimonio, che alle volte egli blandamente interpreta comma una protesta contro le esagerazioni dell’ascesi monastica e che perciò approva come "atto di risveglio" e come gesto simbolico di sfida all’ordine stabilito, ma poi e più spesso lo accusa come responsabile della confusione in cui la Riforma ha precipitato l’uomo. Luteo infatti ha ridotto il cristianesimo a eudemonismo, rifiutando l’imitazione di Cristo e combattendo il concetto di verginità, e così ha riportato il cristianesimo al giudaismo. Lutero neppure capisce quello che poteva essere il significato del suo gesto: "Invece di questo, Lutero si mette a capo di tutto quel brulicame di uomini prolifici, di questi stalloni, i quali, fidandosi di Lutero,credono faccia parte del vero cristianesimo lo sposarsi" (dal "Diario" di Kierkegaard).
Non sorprende allora che alla fine il giudizio di Kierkegaard su Lutero e sulla "svolta antropologica" da lui prodotta nel protestantesimo diventi nettamente negativo e quello sul cattolicesimo invece nettamente positivo. Egli infatti fa l’elogio del clero celibe e del cattolicesimo, che esige dai suoi preti il celibato come garanzia dell’autenticità della loro missione e della trascendenza e libertà del cristianesimo. Il celibato infatti costituisce l’ideale della vita dello spirito ed è necessario nei puti critici per la storia del genere umano, specialmente quando si tratta di far riaccettare il cristianesimo. Quando il non sposarsi sarà inteso n senso giusto, la religione avrà sempre bisogno di uomini celibi, specialmente ai nostri temi, e questo spinge Kierkegaard ad auspicare niente meno il ristabilimento degli antichi Ordini religiosi"… per avere ancor dei preti, ossia uomini che attendano unicamente alla predicazione". […]
Ecco perché Kierkegaard denunzia alla fine che il mondo ha vinto in Lutero in quanto si è assunto il programma di "rendere la vita più facile" e di "togliere i pesi". Che cosa ha fatto in sostanza il protestantesimo, abolendo il chiostro, se non buttarsi in braccio alla mondanità e alla politica?Mentre i cattolici pregano la Vergine madre di Dio, il protestantesimo non ha forse messo sul trono la donna terrena? E non ha abolito la canonizzazione cattolica degli asceti e dei martiri per canonizzare i titolari della corporazione dei filistei?In sostanza, il protestantesimo ha ribassato sull’esigenza cristiana e non mostra più che il cristianesimo è l’assoluto e il "paradosso" che dà scandalo: perciò il protestantesimo è eudemonismo dal principio alla fine eliminando l’ascesi, il celibato, il martirio. E si è giunti al punto, osserva amaramente Kierkegaard con uno stile degno di san Pier Damiani, che nel protestantesimo la religiosità si identifica con la propagazione della specie, con il matrimonio. Lutero pretendeva che era impossibile vivere casti fuori del matrimonio, ma perché? perché gli uomini erano diventati così dissoluti e sensuali. Ma la Riforma diventa allora una cosa curiosa, specialmente quando si deve strombazzare ai quatto venti il gran progresso cristiano che si dice essa sia…
E queste cose doveva venircele a dire un protestante, vissuto, per giunta, più d’un secolo e mezzo fa! Come sono patetici certi cattolici, certi teologi modernisti e certi preti e vescovi progressisti, i quali guardano con aperta ammirazione e malcelata invidia a Lutero e alla sua "riforma", non rendendosi conto che Lutero non ha fatto per nulla "progredire" il cristianesimo, bensì lo ha fatto regredire al livello del giudaismo. Nel protestantesimo, infatti, si torna, anche se per una via opposta, alla mentalità dell’Antico Testamento: per i Giudei la salvezza viene dalla minuziosa osservanza della Legge, dunque da una assolutizzazione delle opere; per Lutero, essa viene dalla totale fede in Dio, senza le opere, le quali, di per sé, sono diaboliche: in entrambi i casi, quel che si toglie è la Croce di Cristo (e, di riflesso, anche quella dei suoi seguaci), il suo valore di Redenzione, e la nascita, con essa, di una umanità rinnovata, capace di rapportarsi a Dio in maniera veramente filiale, cioè con la chiara coscienza dei suoi limiti creaturali, ma anche con la certezza che, mediante la Grazia divina, essa può tornare a guardare con fiducia e amore anche a se stessa.
Quella che sta avvenendo nella Chiesa cattolica, da alcuni decenni a questa parte, è una sottile, strisciante protestantizzazione del cattolicesimo, di cui la sfiducia o la disistima verso il celibato ecclesiastico è solo una delle manifestazioni, peraltro assai significativa. A parte i discorsi in lode di Lutero che ci tocca sorbirci, sempre più spesso, dal pulpito delle chiese cattoliche, è sufficiente osservare come i cattolici, in genere, guardano oggi alla vocazione religiosa, e specialmente alla vocazione claustrale. Fino a trenta o quarant’anni fa, una figlia che annunciava di volersi fare monaca di clausura era motivo di orgoglio per i suoi genitori e per tutta la sua famiglia, mista a una sorta di timore reverenziale. Essi pensavano, quasi increduli: Possibile che proprio a noi sia capitata una fortuna così grande, un mistero così insondabile, come quello di una chiamata radicale, assoluta, senza condizioni, da parte di Dio; e che nostra figlia si sia "arresa" ad essa? E concludevano che la loro figlia, morta per il mondo, si era scelta la parte migliore; e che grazie alla sua vita monacale e alle sue preghiere, particolarmente gradite a Dio, anch’essi, ora, avrebbero goduto, di riflesso, della speciale Grazia divina toccata a lei. Oggi, invece, un simile evento, peraltro divenuto rarissimo, provoca facilmente disagio, sgomento, perfino angoscia, quando non un aperto rifiuto e una sorta d’indignazione: Come! Credevamo di averle dato una buona educazione: e guarda un po’ cosa ci combina questa pazza. Bisognerà accompagnarla dallo psicologo…
Teologi modernisti e preti progressisti, cattivi pastori del gregge che vi è stato affidato, non capite che su di voi ricade una buona parte di responsabilità per questo radicale cambiamento di mentalità?
Fonte dell'immagine in evidenza: Image copyright © Archivio Luciano e Marco Pedicini