
Ormai solo un bagno di umiltà ci può salvare
27 Agosto 2016
Perché la fede è diventata così difficile, oggi
27 Agosto 2016Ricciardetto, al secolo Augusto Guerriero (Avellino, 16 agosto 1893-Roma, 31 dicembre 1981): un nome che suscita ricordi e sentimenti contrastanti nelle persone di oltre cinquant’anni; perché è stato un giornalista famoso, particolarmente interessato alla storia, e ha collaborato con riviste allora assai conosciute fra gli appassionati, come Storia Illustrata, di Arnoldo Mondadori; ma, soprattutto, per la sua rubrica fissa sul settimanale Epoca, nella quale, oltre a rivisitare pagine importanti della storia nazionale, europea e mondiale, affrontava, anche in chiave di prospettive future — e, sovente, con una eccezionale capacità d’intuizione — le problematiche future, e intrattenendo un intenso colloquio con i suoi lettori, per molti dei quali egli era divenuto una presenza familiare, oltre che una specie di fratello maggiore e una figura in qualche modo carismatica.
Bisogna dire, per la generazione odierna, che Ricciardetto è stato, insieme al suo amico Montanelli, il simbolo di un giornalismo di alto livello, molto professionale, molto critico, molto documentato; un giornalismo che ha fatto onore al nostro Paese, che ha contribuito a tenere acceso l’interesse per la politica fra i cittadini che amavano la lettura, e che ha perfino svolto un qualche ruolo di moderazione e di pacificazione nei momenti più drammatici della nostra storia nazionale, come gli anni di piombo (da lui giustamente definiti "guerra civile"). Tralasciando il periodo delle due guerre mondiali e del fascismo, sul quale il discorso sarebbe troppo complesso (ma non è detto che, una volta o l’altra, non vi ritorneremo sopra), egli è stato uno di quei giornalisti che sentivano con molta forza la passione per l’impegno civile e che hanno gettato un ponte fra l’opinione pubblica e le grandi questioni politiche, sociali, culturali, e in tal modo hanno dato un contribuito alla crescita e alla maturazione di essa, con sincerità e coerenza, senza indulgere a facili demagogie o a discutibili compromessi. Con Montanelli ruppe l’antica amicizia appunto per una divergenza squisitamente politica: quest’ultimo era contrario al compromesso storico, lui no; ma la stima reciproca, crediamo, non venne perciò meno. Non erano uomini da saltar sul carro del vincitore di turno, né l’uno né l’atro; intransigenti e un po’egocentrici, questo sì. Come lo fu Oriana Fallaci e come lo è, oggi, Massimo Fini. E non ce ne restano ancora molti, di quella stoffa: si è fatta avanti una pletora di scribacchini e pennivendoli più che disposti a mettersi al giogo del migliore offerente, e il giornalismo italiano è sprofondato nella palude del conformismo e peggio. Ci sarà una ragione se le valutazioni internazionali sulla libertà di stampa mettono l’Italia agli ultimi posti della graduatoria, accanto o perfino più indietro di parecchi Paesi africani e latinoamericani.
Ora, la domanda che seguitiamo a farci, noi che abbiamo letto Ricciardetto con passione, e l’abbiamo apprezzato — sia pure poco più che bambini, ossia con un limitato senso critico — come esperto di questioni politiche, diplomatiche e militari, ogni volta che ci vengono fra le mani (e succede spesso, specialmente nei mercatini dell’usato) i suoi libri di argomento teologico e religioso, Quaesivi et non inveni, del 1973, e Inquietum est cor nostrum, del 1976, sorge in noi una domanda, senza alcun malanimo, semmai con affetto ed un certo rammarico: non poteva continuare a occuparsi di politica estera? Era un buon giornalista e un discreto studioso di politica estera; ma negli ultimi anni della sua vita gli venne la fissazione di esplorare il campo della teologia. Benissimo: non è mai troppo tardi. Tuttavia, se un autodidatta dovrebbe sempre essere cauto e prudente nelle sue "scoperte" e nelle sue affermazioni, specie se, per tutta la vita, si è occupato di tutt’altre cose, questo è vero a maggior ragione per chi si accosti alle problematiche teologiche e religiose: ci vuole senso della misura e tanta, tanta umiltà. Il campo di studi prescelto, infatti, è doppiamente delicato: perché non si possiede una base culturale specifica e perché esso, più di qualsiasi altro, richiede, a chi vi si accosta, un di più di spirito d’umiltà, avendo per oggetto delle verità le quali, per definizione, eccedono le capacità di comprensione della sola ragione.
Facciamo queste riflessioni perché, leggendo e rileggendo, anche a distanza di tempo, le pagine in questione, non vi abbiamo trovato affatto quel minimo di umiltà, che è assolutamente necessaria per accostarsi a siffatte problematiche. La nostra impressione è che egli si sia avvicinato alle questioni religiose, forse anche per le sue vicende personali e il declinare della sua salute, sicuramente in buona fede, ma con la mente e l’anima ingombre di pregiudizi: pregiudizi laicisti, razionalisti, scientisti e positivisti; pregiudizi del secolo XIX e del principio del XX, ormai largamente superati, anche da parte degli studiosi non cattolici e non religiosi, nella seconda metà del Novecento. I suoi autori preferiti, a quanto risulta, erano Loisy, Renan e l’allievo di questi, Guignebert; si nota pure la sua dichiarata simpatia per Rudolf Bultmann e la "storia delle forme"(Formgeschichte): e anche questo è un capitolo assai datato della riflessione teologica novecentesca.
Guignebert, ad esempio, da Ricciardetto citato sovente come la massima autorità in materia di critica neotestamentaria, era un signore che definiva in questi termini la sua posizione di studioso nei confronti dei Vangeli: I Vangeli sono scritti di propaganda, destinati a organizzare e autenticare, rendendola verosimile, la leggenda rappresentata nel dramma sacro della setta ed a conformarla alle consuetudini della mitologia dell’epoca. Leggenda, mitologia: il racconto evangelico non è storia, ma propaganda, in accordo con gli altri miti religiosi delle altre religioni. Peccato che un mito, per formarsi, abbia bisogno di millenni, e una leggenda, di qualche secolo almeno: mentre il testo più antico del Nuovo Testamento che parla di Cristo, della Redenzione e della Buona Novella, la Prima lettera ai Tessalonicesi di san Paolo, è stata datata al 53: meno di vent’anni dopo la morte di Gesù! In vent’anni scarsi, è certo che non si formano né leggende, né, meno ancora, dei miti: se non altro per la semplice, semplicissima ragione che i testimoni dei fatti in questione sono ancora quasi tutti vivi e vegeti, li ricordano benissimo e quindi, se qualcuno si azzardasse a modificarli in senso leggendario e mitologico, immediatamente vi sarebbe una reazione, specie da parte degli avversari, i quali avrebbero buon gioco nel convincere di menzogna e falsificazione i seguaci di quella certa setta. Da ciò si vede bene che, nel 1970, prendere a modello di scienza teologica e di critica neotestamentaria uno storico come il Guignebert (1867-1939), dalle idee tipicamente ottocentesche, dopo che erano state fatte scoperte archeologiche fondamentali, come quella dei manoscritti di Qumran (avvenuta fra il 1947 e il 1956), che il francese ovviamente ignorava, è di per se stessa una cosa altamente discutibile, per non dire assurda, che si può spiegare solo con una tenacissima incrostazione di pregiudizi anticattolici e irreligiosi.
La nostra impressione è che Ricciardetto credesse di stare cercando la verità della fede, ma, in effetti, stava facendo qualcosa di profondamente diverso: non cercava, ma pretendeva di mettere avanti sue "certezze", prima ancora di "ascoltare" la Rivelazione cristiana. Situazione inevitabile, del resto, quando l’approccio a Dio si pone su di un piano esclusivamente razionale, anzi, razionalistico: così come è inevitabile che, a tali condizioni, il più e il meglio restino fuori, fatalmente esclusi. Egli non voleva sentire le ragioni di Dio; voleva imporre a Dio, al Dio dei Vangeli e della Tradizione, le sue; e siccome la cosa non funzionava, allora si arrabbiava e s’inquietava: se la prendeva con le "lentezze" e le "cautele" della Chiesa, deprecava che essa non adottasse, in blocco, il punto di vista di Loisy, Renan, Guignebert e Bultmann: era dispiaciuto perché essa non si suicidava. Oggi, probabilmente, sarebbe contento, vista la tardiva ma micidiale rivincita che il modernismo si sta prendendo nel cuore stesso della Chiesa, del Magistero, della stessa pastorale di papa Francesco. O forse no; perché, da uomo onesto e intelligente, se avesse assistito a questa mutazione genetica, anche lui, forse, si sarebbe indignato e avrebbe dissentito.
Apriamo a caso il libro Quaesivi et non inveni, ed ecco che troviamo una delle cento possibili esemplificazioni di quanto abbiamo ora sostenuto, là dove egli parla della polemica relativa al Nuovo Catechismo olandese e alla questione, in verità centrale, del significato ultimo del sacrificio di Cristo sulla Croce e, perciò, della Redenzione (cit., Milano, Mondadori, 1973, pp. 68-70):
I TEOLOGI ROMANI: Dio amava tanto il genere umano, che mandò il Figlio suo nel mondo per redimerlo dal peccato. La somma di queste verità non può essere passata sotto silenzio da una Catechismo, tanto più accanto a una nozione travisata della "soddisfazione".
I TEOLOGI OLANDESI: Nel "Nuovo Catechismo, l’azione di Dio verso gli uomini (cioè l’amore redentivo, che si esprime nella passione e nella morte) rimane il principio supremo della Redenzione, e non l’espressione antropomorfica di un qualche dono dell’uomo, per quanto Figlio di Dio, allo stesso Iddio, il quale sarebbe placato da tale atto, e così placato, s’indurrebbe a conferire di nuovo la grazia agli uomini. Un siffatto modo di esprimere le cose, oltre che in contrasto con i principi teologici della trascendenza divina, renderebbe inaccettabile alla mentalità dell’uomo dei nostri giorni quella Redenzione che è stata realmente apportata da Dio nel Cristo Gesù.
LA CRITICA LIBERA: "La teoria della salvezza presentata da Paolo è un mito, un mito che nell’insieme ha qualche parentela con quelli di Osiris o di Attis, ma non somiglia ad essi sul punto capitale, e non è meglio di essi fondato in ragione e in esperienza" (Guignebert, "Le Christ").
Qual è il punto capitale sul quale il paolinismo si differenzia nettamene dai misteri orientali? L’idea della Redenzione. "I misteri sono fondati sulla storia di un essere divino e della sua passione, ma nessuno di essi presenta la passione del Dio come una espiazione del peccato degli uomini, come un riscatto, cime una redenzione" (Guignebert, "Le Christ").
"… Si tratta del valore mistico inerente alla morte di un essere divino-umano"[Loisy], morte che porta con sé la morte del peccato, e conseguentemente il riscatto dell’uomo. Nessuno che abbia letto gli Evangeli Sinottici sosterrà che tutto questo sia un insegnamento di Gesù… Siamo di fronte ad una rappresentazione che non si è potuta formare che sul terreno ellenistico, nell’ambiente dei Misteri, in funzione del mito del Dio immolato, del Dio che muore e risuscita. La teoria della Redenzione è il centro… ed essa nasce da una necessità fondamentale. Gesù aveva annunziato il prossimo avvento del Regno di Dio. Il Suo sogno era stato brutalmente infranto dall’intervento della forza romana. I Suoi discepoli, terrorizzati, si erano dispersi. Sembrava che tutto fosse finito. Ma coloro che avevano creduto in Lui e lo avevano amato, dopo un po’ di tempo, rianimarono la speranza che Egli aveva messo loro nel cuore. Il loro amore e alla loro fede Lo fecero rivivere. A questo punto, bisognava spiegare perché Egli fosse morto, perché avesse subito quella prova sconcertante. Essi credettero che la morte corrispondesse al disegno di Dio, il quale, con la Resurrezione, aveva consacrato Gesù Suo Messia. Ma quando la speranza apostolica si trasferì sul terreno greco, quando Gesù da profeta e restauratore d’Israele si trasformò nel Salvatore assoluto, bisognò coordinare il dramma del Golgota con questa nuova rappresentazione. E allora nacque — probabilmente in Antiochia — la spiegazione, che Paolo non ha inventata, ma che noi conosciamo da lui: il Signore è morto perché lo ha voluto: è morto per la redenzione dell’umanità".
Così Guignebert spiega perché la nuova religione si sia caricata non solo del concetto di Redenzione, con la sua grandiosità mistica e la sua profondità commovente, ma della realizzazione drammatica della redenzione per mezzo della Croce e sulla Croce. Ho dovuto riferire questo lungo testo di Guignebert perché altrimenti il pensiero della critica sarebbe riuscito oscuro. Il lettore può misurare quale timido progresso il Catechismo rappresenti sull’ortodossia. Sì, esso non accetta la teoria di Anselmo di Canterbury della "soddisfazione". "Il Padre non aveva bisogno della sofferenza come sostituzione di castigo." Lo credo bene"! Ma (è sempre il Catechismo che parla) "Dio aveva bisogno della Sua vita quale sostituzione di amore". Non capisco niente. Capisco solo che siamo ancora le mille miglia lontani dalle conclusioni della critica e dalla ragione.
Tutto qui. Come si vede, Ricciardetto non formula alcun ragionamento; non esprime neppure una opinione sua, ma si limita ad adottare, in toto, le opinioni di Renan e Guignebert, vecchie e superate sia sul piano filologico che su quello storico. Sul metro di esse, giudica e condanna le opinioni della Chiesa cattolica. Quelle del Catechismo olandese gli paiono lievemente più accettabili, proprio perché critiche verso la Tradizione; ma, ovviamene, il progresso, per lui, date le premesse, è quasi insignificante. Ci si chiede perché abbia dedicato tanto interesse a questi temi, visto che non aveva né la pazienza d’indagare per suo conto, né l’autonomia di pensiero per arrivare a una sua idea. Non stupisce che non abbia trovato: non cercava davvero. In compenso, forse ha impedito di entrare a qualcun altro, seminando dei dubbi, là dove non sapeva nemmeno individuare un proprio percorso…
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