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Freud ha aperto la via al più fatale attacco che possa colpire al cuore la civiltà

Sigmund Freud, con quella pseudo-scienza e cattiva filosofia che va sotto il nome di psicanalisi (e che, sul piano pratico-operativo, si manifesta come una particolare forma di magia nera), ha aperto la strada — forse intenzionalmente, forse no; ma ciò è del tutto secondario — a un attacco devastante contro la civiltà europea e, attraverso di essa, contro la civiltà mondiale; anzi, si può dire che nessuna civiltà al mondo avrebbe potuto uscire indenne da un simile attacco, che ha messo in crisi, probabilmente in maniera irreparabile, le fondamenta stesse della convivenza umana, del concetto di legge naturale, nonché della teoria e della pratica della legge positiva.

La legge naturale esce pressoché distrutta dalla teoria degli istinti distruttivi, d’incesto e parricidio, che condizionano la psiche di tutti gli esseri umani; la legge positiva si riduce a una coercizione meramente esteriore, necessaria, ma non riconosciuta nella sua intima giustizia e validità morale, un semplice contrappeso meccanico al disordine assoluto che le pulsioni "naturali", se assecondate, produrrebbero; ma soprattutto, e cosa più grave di ogni altra, quel che esce irreparabilmente minato è insudiciato, agli occhi degli esseri umani, è l’incanto del mondo, insieme alla "pulizia" dell’immagine che essi hanno di se stessi. Grazie a Freud, un senso di vergogna intollerabile è entrato a far parte del patrimonio culturale e psicologico di ogni persona colta; e, anche se egli passa per l’uomo che ha rivelato la verità ai suoi simili circa se stessi, quel che realmente è accaduto è stato un’altra cosa: non il disvelamento della verità, ma la contaminazione della coscienza con l’idea di un subconscio indicibilmente brutto, osceno, inconfessabile: idea che, come un virus, si è attaccata alle persone di media cultura, che hanno letto Freud (sia pure superficialmente) o che ne hanno sentito parlare quanto basta per essersi convinte che la sua teoria, spacciata puramente e semplicemente per la realtà delle cose, dimostra in maniera incontrovertibile che l’uomo è non soltanto un animale, come insegnato da Darwin, ma un animale particolarmente malato, immondo e schifoso; una creature repellente, che sarebbe capace di compiere le azioni più turpi e abominevoli, perché ne ha l’oscuro desiderio fin da quando essa viene al mondo o, quanto meno, fin dai primissimi mesi di vita, allorché sta ancora succhiando il latte materno. Fortunate, allora, le persone incolte, che non leggono libri e non sono state contagiate dal virus del freudismo!

E poco importa che la psicanalisi freudiana non sia affatto scientifica, e che, spacciata come filosofia, cioè come visione generale dell’uomo e del mondo, sia assolutamente priva di basi, di ragionamenti, di dimostrazioni razionali (ma sarebbe più esatto dire che né il maestro, né i suoi seguaci, si sono mai posti minimamente il problema di dimostrare le loro asserzioni): presentata, apoditticamente, come la rivelazione coerente e definitiva della vera natura dell’uomo, ridotto a psiche, e, per giunta, a psiche patologica; e sostenuta con tanta arroganza e con tale compattezza, da ottenere l’effetto che chi non l’accetta viene automaticamente escluso dalla categoria delle persone colte e ragionevoli, e inoltre, suprema ironia, viene relegato nel Limbo delle persone incapaci di guardarsi dentro con onestà e verità, insomma come un malato che rifiuta d’ammettere la sua malattia e di confessare la sua oscura colpa. E oscura lo è davvero, visto che se un tale, per esempio, sostiene di non aver mai provato, né da bambino, né da adulto, la pulsione d’assassinare suo padre e avere dei rapporti sessuali con sua madre, si sente rispondere dallo psicanalista che il suo problema è proprio questa mancata ammissione, e che egli non raggiungerà mai la condizione di persona equilibrata e veramente adulta, fino a quando non troverà in se stesso il coraggio necessario per portare sino in fondo questa dolorosa, ma necessaria presa di coscienza della realtà.

Osservava Danilo Castellano, decente di Filosofia morale presso l’Università di Udine, nel suo saggio La razionalità della politica (Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1993, pp. 83-86):

Forse è difficile dire se uno degli scopo principali di Freud sia stato quello di minare radialmente le fondamenta stesse della convivenza civile. Una cosa, però, è certa: egli — come ha osservato, ad esempio, von Hayek — "ha aperto la via all’attacco più fatale di quella che è la base di ogni civiltà".

Le tesi sono note. Converrà, tuttavia, al fine d’intendersi meglio, richiamarne alcune, le principali.

1) Freud afferma che ci sarebbe uno stato anteriore a quello civile nel quale la libertà individuale sarebbe massima. Questa libertà subirebbe limitazioni dall’incivilimento, che, tuttavia, non riuscirebbe a cambiare la natura umana. Per questo l’uomo difenderà sempre la sua esigenza di libertà individuale contro il volere della massa.

2) Ne consegue un rapporto conflittuale tra individuo e società cui andrebbe addossata gran parte della colpa della nostra miseria. L’uomo, infatti, secondo Freud, "diventa nevrotico perché è incapace di sopportare il peso della frustrazione che la società gli impone affinché egli possa mettersi al servizio dei suoi ideali civili". Per essere felici, dunque, bisogna abolire o almeno ridurre di molto le pretese della società. La civiltà, quindi, è un male dal quale è necessario liberarsi. Essa, infatti, è la "modificazione del processo vitale che si produce sotto l’influsso di un compito assegnato dall’Eros e stimolato dall’Ananke — la necessità reale — e questo compito consiste nel riunire uomini dispersi in una comunità i cui membri hanno fra loro vincoli libidici".

3) Se ne deduce la società non è una realtà naturale. Tanto è vero che la "vita umana associata è resa possibile a un solo patto: che più individui si riuniscano e che questa maggioranza sia più forte di ogni singolo e tale da restare unita contro ogni singolo".

4) L forza della maggioranza che si impone sul singolo e si oppone al potere del singolo si chiama "diritto". Questo, pertanto, altro non sarebbe che un potere maggiore contrapposto ad un potere minore, che viene definito "forza bruta" solamente perché non riesce a imporsi. Tra la violenza ed il diritto non ci sarebbe, dunque, altra differenza se non quantitativa.

5) L’ordine e la giustizia sarebbero "flatus voci" in quanto il primo, per Freud, altro non è che "una sorta di coazione a ripetere, che decide, mediante una norma stabilita una volta per tutte, quando, dove e come, una cosa debba essere fatta, in modo da evitare esitazioni e indugi in tutti i casi che si assomigliano"; la seconda è semplicemente "la sicurezza che l’ordine statuito non sarà infranto a favore di nessuno". Ora, se si riflette su queste tesi, non si può non cogliere il loro carattere non filosofico e, perciò, il tentativo di Freud di costruire un sistema ideologico privo di fondamento.

1a) Che ci sia uno stato anteriore a uno stato civile è un’affermazione dogmatica che non trova riscontro nell’esperienza. Solo per ipotesi esso può essere affermato. L’esperienza, infatti — come è stato giustamente osservato — "esclude la possibilità di concepire (…) uno stato in cui il singolo viva isolato e solitario, nonché d’intendere la socialità come il prodotto di una scelta volontaria". L’uomo, quindi, contrariamente a quanto sostiene un certo pensiero politico moderno, mai gode di una libertà assoluta e di un diritto illimitato o, con terminologia freudiana, di una libertà massima. La tesi secondo la quale l’uomo è illimitatamente libero è contraddittoria. La sua natura, quindi, il suo ordine metafisico e morale, rappresenta un limite ineliminabile. Sembra riconoscerlo anche Freud quando, contrariamente per esempio a Rousseau che assegnava al legislatore il compito di cambiare la natura umana, scrive che l’incivilimento non riesce a cambiare l’essenza dell’uomo anche se egli, per essenza dell’uomo, intende altro dalla sua vera natura.

2a) Solamente partendo dall’ipotesi che esista uno stato d natura anteriore a quello civile, si può sostenere che tra individuo e società ci sia un conflitto e che la società sia repressiva del vitalismo umano. L’esperienza (prescindendo, per ora, dalla concezione "vitalistica") dimostra il contrario. L’individuo, infatti, non solo nasce necessariamente "relazionato", ma esso ha bisogno della società per sopravvivere, nei primi anni di vita, e per realizzare se stesso in quelli successivi. La tesi che la società non sia naturale è di derivazione razionalistica. […] L’uomo, dunque, è "condannato" a vivere in società, la quale ungi dall’essere — come polemicamente scrive lo stesso Freud — la "via data all’uomo per giungere alla perfezione", è "la lotta per la vita della specie umana" […]

3a) Se la condizione per l’esistenza della società è data dal fatto che la maggioranza riesce ad imporsi sulla minoranza, si dovrebbe concludere che la convivenza civile è assolutamente artificiale. In "Il disagio della civiltà", tuttavia, questo non è chiaro. Sembra, infatti, che Freud si contraddica teorizzando un artificio naturalmente necessario. Com’è possibile, pertanto, ipotizzare lo stato di natura,cui sì’è accennato, o sostenere c, per essere felici, bisognerebbe trovare la via del ritorno alle condizioni primitive, cioè pre-civili? Non è, questa, un’utopia? Non solo. La coercizione non può essere costitutiva della società. Un insieme di individui, coatti a vivere insieme unicamente dalla forza, non costituirà mai una comunità di uomini liberi. Saranno o schiavi ubbidienti o ribelli irriducibili. E non certamente per le motivazioni ideologiche addotte dalla psicoanalisi.

4a) La concezione che Freud ha della società lo porta, coerentemente ma assurdamente, a sostenere che il diritto è la forza della maggioranza. La forza, però, è un fatto fisico. Da essa non può derivare né obbligazione morale né obbligazione giuridica. L’identificazione del diritto con la forza della maggioranza è, pertanto, una tesi irrazionale che lo stesso diritto positivo chiamato a prevenire o a dirimere controversie che, per il solo fatto di sorgere, dimostrano l’anelito umano alla giustizia. Il positivismo giuridico di Freud è assoluto. Esso legittima qualsiasi decisione e giustifica qualsiasi operato. Perché, per esempio, è lecito che la maggioranza si imponga sulla minoranza? […]

5a) Infine, concepire l’ordine come "una sorta di coazione a ripetere"e la giustizia come la semplice "sicurezza che l’ordine statuito non sarà infranto a favore di nessuno", dovrebbe portare a ritenere che qualsiasi ordine statuito sia perfetto (e ciò per Freud rappresenta già una difficoltà, poiché la perfezione di qualcosa può essere definita solamente in rapporto alla natura della cosa medesima )e immodificabile (e ciò dovrebbe portare a concludere che l’ordinamento giuridico avrebbe esaurito la sua finzione, poiché nulla deve essere ordinato dove tutto è già ordine). Ma ciò contraddice non solo le esigenze della sana ragione, ma anche i quesiti che nascono dalla quotidiana esperienza…

Danilo Castellano mette in luce con molta chiarezza le insormontabili aporie del pensiero politico freudiano e, più in generale, del suo pensiero filosofico, ammesso che vogliamo concedergli tale qualifica senza metterla, almeno, fra virgolette; anche se oggi va di moda fare finta che Freud, come del resto anche Darwin, sia stato non solo un vero filosofo, ma anche un grande filosofo; e, a tale scopo, si mette la sua immagine direttamente sulle copertine dei libri di testo di filosofia ad uso dei licei, in modo che agli studenti tale concetto sia ben chiaro, senza che qualcuno debba poi prendersi la briga di spiegarlo né, tanto meno, di giustificarlo; e che quegli studenti arrivino all’università senza la fastidiosa attitudine a porsi, e soprattutto a porre, delle domande che non piacciono all’establishment ideologico (ci era quasi scivolato dalla penna l’aggettivo culturale: ma, evidentemente, sarebbe fare troppo onore all’establishment, perché la cosiddetta cultura ufficiale, per il semplice fatto di essere tale, non è altro che pura e semplice ideologia: come lo è, per l’appunto, la psicanalisi freudiana, specie se spacciata per filosofia).

Insomma: Freud pretende di fare della filosofia; non gli basta curare (come pensa lui; ma al contrario di quel che crediamo noi) i paziento nevrotici o isterici, sulla base di una teoria che, di veramente scientifico, ha soltanto il nome; egli, dalla riflessione su quei casi, e partendo da assiomi non dimostrati né dimostrabili — primo fra tutti, l’esistenza di uno stato felice anteriore alla vita sociale -, si sente autorizzato a formulare una vera e propria Weltanschauung, una visione del mondo completa ed esaustiva, nella quale le sue personali convinzioni vengono automaticamente promosse al rango di verità oggettive, e dalla quale viene sistematicamente espunto tutto ciò che non si accorda con esse, o che rischia di mettere in crisi il suo bel (anzi, il suo brutto) castello di carte.

Forse a molti la cosa non è chiara, o non vi hanno mai riflettuto abbastanza, ma le conseguenze della errata e delirante "filosofia del diritto" di Freud sono devastanti, e tali che ci aiutano a meglio comprendere la schizofrenia della politica contemporanea. Da un lato, infatti, egli afferma che tutte le società nascono da un atto di coercizione, e che hanno dalla loro solo la forza del numero; dall’altro, che l’individuo deve sottomettersi alle leggi positive, ma sacrificando, con ciò, la sua personale aspirazione alla felicità, perché solo nella libertà assoluta — fuori dalla società, quindi! — egli può essere felice, così come lo era anteriormente alla nascita della società stessa. Dunque, un Rousseau fuori tempo massimo e un Bakunin spaventato di se stesso, che vorrebbe gridare: Né Dio, né Stato, ma si trattiene, conscio delle cattive pulsioni che albergano in lui, e del fatto che esse, qualora non vi fossero più né Dio, né Stato, potrebbero travolgerlo miseramente.

Tuttavia, che cosa succede se i suoi discepoli delle ultime generazioni rifiutano il "moralismo" del maestro e proclamano, in nome del diritto inalienabile alla felicità, la pratica di una libertà assoluta, e dunque la rivolta contro tutte le istituzioni? Succede quel che è successo nel 1968, e i cui effetti micidiali non hanno ancora finito di ripercuotersi sulla nostra società. Si può dire che tutte le fuorvianti e distruttive correnti ideologiche degli ultimi decenni, dal femminismo al massimalismo rivoluzionario, tanto velleitario quanto socialmente pericoloso, hanno tratto origine da lì: è come se fosse stato tolto il tappo dalla vasca e tutti i liquami, trattenuti e compressi, fossero fuoriuscirti con violenza inarrestabile. Il bene, la libertà, la felicità, bisogna cercarli fuori della società, e contro la società; nella società vi sono soltanto la tristezza, la noia la e repressione ("coazione a ripetere"). In fondo, non è la stessa cosa che hanno detto, tra gli scrittori, Pirandello, Svevo, Joyce, Kafka, e, tra i filosofi, Sartre, Foucault, Althusser, Derrida e tanti altri simili a loro? Gira e rigira, la cultura degli ultimi anni non è andata molto lontano da qui: ha seguitato ad avvitarsi su se stessa, in questo corto circuito infernale: vorrei essere felice, ma non posso, perché dovrei uscire dalla società; ma, se ne uscissi, la mia libertà assoluta si sgonfierebbe, come un palloncino bucato: e con chi potrei prendermela, allora? Su chi potrei rovesciare la colpa dei miei insuccessi, il rimorso per la mia infelicità? A chi addosserei la mia inadeguatezza, la mia pochezza, la mia pusillanimità? Certo, è più comodo avere sempre un alibi sottoman: l’alibi costituito dagli altri, che sono ottusi, insensibili, che non capiscono, eccetera. Senza contare che dalla società nessuno è mai veramente uscito: neppure Robinson Crusoe, con la sua Bibbia, i suoi animali, e, soprattutto, la sua attesa spasmodica e la sua speranza di essere salvato. Ed ecco la pianista di Elfriede Jelinek, ecco i sequestrati di Altona di Sartre, ecco il signor Norris che se ne va, di Christopher Isherwood; ecco l’esercito di scontenti, di frenetici, di rancorosi, di paranoici, di autolesionisti, di disperati, di drogati, d’invertiti, di squilibrati, di bugiardi, che intasano letteralmente lo scenario della narrativa contemporanea, ma che emergono anche dalle pagine della cronaca quotidiana, ciascuno col suo tristo momento di celebrità, se così vogliamo chiamarla, legata a un momento di follia, che è solo il punto d’arrivo in una vita di abituale (e, per solito, tranquilla) follia quotidiana.

Freud, il cattivo maestro per eccellenza, ci ha abituati a questo scenario di apocalittica desolazione: ci ha abituati a non aspettarci di più dalla vita, né da noi stessi. Ma non basta: ci ha abituati ad attenderci il peggio da noi stessi. In Totem e tabù, è arrivato a sostenere che tutte le religioni sono nate dal tabù dell’incesto e dal senso di colpa per l’uccisione del padre: e ha soggiunto, per buona misura, che quel parricidio (realizzato dai nostri antichissimi progenitori, ma, nella società moderna, represso dal Super-io e dalle leggi, solo inconsciamente desiderato) che quella è stata l’origine del vero peccato originale. Così non gli bastava fare il cattivo filosofo, ha voluto fare anche il cattivo teologo: e dall’analisi di alcuni casi clinici, di pazienti affetti da disturbi della psiche piuttosto gravi, ha voluto fare una legge universale. La sua "filosofia" è, ridotta in sintesi, tutta qua. Anche il suo pensiero politico: dove l’invidia e l’odio per il padre, e la pulsione sessuale per la madre, trovano sfogo nella rivolta sessantottina, che prosegue — in forme diverse — ancor oggi, contro la detestata "famiglia borghese", quintessenza di ogni vizio, di ogni malvagità e perversione.

Chi sa se Freud, oggi, sarebbe contento. Ha dato vita ad una trasformazione sociale e culturale che non ha eguali nella storia, perché ha inferto un colpo mortale alla nozione stessa del vivere sociale. Ma forse, se non fosse stato lui, sarebbe stato un altro: i tempi del Diavolo erano ormai maturi…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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