
Dov’è il tesoro dei cristiani, oggi?
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7 Agosto 2016Astórgous, vale a dire: senza cuore: tale è la condizione dell’uomo senza Dio, che rifiuta Dio, che adora falsi dei o che, addirittura, vorrebbe farsi il dio di se stesso, secondo la celebre espressione adoperata da San Paolo nella Lettera ai Romani.
L’Apostolo, dopo aver premesso che Dio si fa conoscere anzitutto per mezzo delle sue opere e che ha dato agli uomini il bene della ragione proprio per conoscerlo, amarlo e servirlo, constata che gli uomini non hanno voluto riconoscerlo e si sono rifiutati di adorarlo, per un abuso della ragione e per un intollerabile peccato di superbia (1, 18-25):
Si manifesta infatti dal cielo l’ira di Dio sopra ogni empietà e ingiustizia degli uomini, che tengono imprigionata la verità nell’ingiustizia; poiché ciò che è noto di Dio, è a loro manifestato, giacché Dio lo diede a conoscere. Le sue invisibili perfezioni, la sua eterna potenza e la sua divinità, appaiono fin dalla creazione del mondo, offerte alla considerazione per mezzo delle sue opere. E così essi non hanno scuse, perché, dopo aver conosciuto Dio, non lo glorificarono come Dio, né gli resero grazie; ma i loro ragionamenti divennero vuoti e la loro intelligenza stolta si ottenebrò. Vantandosi di essere sapienti, divennero sciocchi, cambiarono la gloria incorruttibile di Dio con immagini di uomini mortali, di uccelli, di quadrupedi e di rettili. Perciò Dio, lasciando che essi seguissero i perversi desideri dei loro cuori, li abbandonò all’impurità, di modo che essi disonorarono i loro corpi tra di loro, scambiarono la verità di Dio con la menzogna e adorarono e servirono le creature anziché il Creatore, che è benedetto nei secoli. Amen.
Tale la condizione degli uomini che, pur avendo conosciuto Dio, si sono rifiutati di rendergli la debita lode: sono diventati concupiscenti, lussuriosi, si sono accesi di desiderio per quelli del loro sesso, gli uomini per gli uomini e le donne per le donne: per san Paolo, dunque, il dilagare delle pratiche omosessuali, ossia il sovvertire le leggi sessuali della natura, è la tipica aberrazione di una umanità che si è ribellata alla legge della ragione naturale e non ha voluto riconoscere il vero Dio. Inoltre gli uomini sono divenuti pieni di malizia, invidia, omicidio, discordia, frode, calunnia, maldicenza, arroganza, falsità, ribellione ai genitori, invenzione di mali, millanteria, odio di Dio, insensatezza, slealtà, mancanza di misericordia e di affetto. Fino al’accusa più grave di tutte: l’incapacità di amare, che richiama le parole del profeta Ezechiele sul cuore di pietra degli uomini che sono lontani da Dio, e al quale Dio solo, se si ravvedono, può donare, in cambio, un cuore di carne, capace di provare veri sentimenti e, quindi, anche carità e misericordia per il prossimo e per se stessi (Ezechiele, 36, 26): Darò a voi un cuore nuovo, e porrò in voi uno spirito nuovo; toglierò il cuore di pietra dal vostro corpo e vi darò un cuore di carne.
La pratica dell’aborto volontario e quella dell’eutanasia legalizzata sono, fra tutte, quelle in cui maggiormente traluce la durezza di cuore e l’incapacità di amare dell’uomo che si è rifiutato di riconoscere Dio quale suo Signore e di adorarlo debitamente: nella spietatezza con cui egli elimina i nascituri indesiderati e sopprime i malati terminali per non assistere allo spettacolo della loro sofferenza, si consuma l’ingiustizia di una umanità che rifiuta di accettare il grande mistero della vita e della morte e che pretende di farsene arbitra suprema, al di sopra e al di fuori del piano divino. Ed è qui che essa tradisce la sua perversa volontà di auto-divinizzarsi, rubando a Dio le sue prerogative regali e ponendosi in capo la corona della signoria sul modo, essa che è fatta di creature, che devono tutto a Dio e che, senza Dio e contro Dio, non possono fare nulla, se non disseminare ovunque i frutti avvelenati della loro superbia e della loro follia.
Don Guerrino Pelliccia (1912-1991), storico e sacerdote paolino, ma di formazione benedettina, scriveva nella sua sintetica, ma efficace monografia L’eutanasia ha una storia? (Bari, Edizioni Paoline, 1977, pp. 124-126):
Fu davvero eutanasia quella dei Romani e dei Greci, tanto esaltati dagli umanisti del Rinascimento? Ascoltiamo una voce informata del tempo di Claudio. Paolo di Tarso, vissuto nella cultura ellenistica (greco-romana), oltre che rabbinica, chiamò Roma al tribunale della storia. La vide affinata nell’arte del parlare (retorica), esperta per la prudenza del governo, autorevole per il genio del diritto, per la saggezza militare, per la fortezza della pazienza, doti lodate anche dalla Bibbia. (cfr. 1 Maccabei, 8, 1-16). Per lui Roma era la sintesi del progresso e del vivere civile, la maestra dell’ecumene. Ma, ebbra delle ricchezze e del potere, era un mondo di contraddizioni, visibili nel degradante disprezzo della vita: dalla euforia suicida di un Petronio o di un’Arria, alla spietata eliminazione dei neonati o dei nascituri, dalla incostanza degli affetti coniugali all’ebbrezza libidinosa del sesso, all’anatema contro i vinti ("Vae victis!" di Livio) alla crudeltà delle crocifissioni, che Nerone trasformò in torce umane. Quel romano, colto e sensibile, non trovava altra espressione per bollare la degradazione dei romani se non dichiarando, con una lapidaria sintesi ad ignominia, "senza cuore" ("astórgous", "sine affectione"). Lo scrisse in una grande lettera con la quale annunciava la sua visita alla loro città (Romani, 1, 31).
Purtroppo sentimenti inumani agivano perfino sotto la copertura religioso-nazionalistica, quando gli ebrei, dimentichi del comando dell’amore universale, vivo anche nella legge mosaica e nei profeti, invocavano la vendetta contro i nemici, ad esempio contro quelli che li avevano deportati a Babilonia sulle rive dell’Eufrate, augurandosi lo sfracella mento dei loro bambini contro la roccia — "beato chi afferri e sfracelli i loro lattanti alla rupe!" (Salmo 137, 9).
Certo, non danno prova di generosa e cristiana partecipazione quei credenti, che, impressionati da agonie strazianti, non trovano più nella fede la forza per sé e per gli agonizzanti, e si augurano in cuore, con le parole, con l’invito al medico, di por mano alla "siringa". Presumono di anticipare i tempi di Dio e si consolano col dire: "È meglio che muoia!" (cfr. E. Morselli, "L’uccisione pietosa o eutanasia in rapporto alla Medicina, alla Morale ed all’Eugenica", Torino, Fratelli Bocca 1923, pp. 522). Ma è anche vero che per la morale cattolica è lecito al malato desiderare a morte come liberazione da un male grave, lungo ed estenuante, purché quel desiderio non comporti alcun atteggiamento di ribellione al divino volere, né si cerchi alcun mezzo per abbreviare la vita.
Un ultimo rilievo. L’apostolo Paolo, scrivendo ai Romani, dichiarava il completo fallimento dell’umanità, accomunando nel peccato circoncisi e incirconcisi (popolo israelitico e gentili o pagani). De cristiani si disse che erano il lievito del mondo, anzi, "essi sono nel mondo come l’anima nel corpo" (cfr. "Lettera a Diogneto").
Dopo tanti secoli di rinnovamento umano propiziato dal cristianesimo, anche per osmosi non sempre avvertita dalle culture, assistiamo, in molti campi, e, in particolare, circa il rispetto alla vita, ad una deplorevole involuzione di sentimenti, di idee, di pratiche. Dalla storia emerge, senza timori i smentita, che razze e popoli, via via che maturavano, hanno limitato, modificato, cancellato concezioni e pratiche eutanasiche, individuali e collettive. Il cristianesimo ha favorito quell’evoluzione ascendente, direttamente e indirettamente, sino a farle scomparire del tutto. Eppure, guardando a certi rigurgiti materialistici relativi alla sterilizzazione e alla eutanasia, T. Oliaro di Torino deprecava, nel 1936, come queste "pratiche antiche" venissero "rimesse in onore, se pure sotto una forma più moderna, ammantata d’eugenica, dai popoli anglosassoni e trovano simpatia nel pubblico" (Oliaro, "Il medico dio fronte all’eutanasia", in "Malati Medici Medicine", n. 4, aprile 1936, p. 13). […] Ultimamente V. Marcozzi, nel 1975, e S. Lener, nel 1976, denunciavano persistenti e aumentate mene, volte a diffondere l’idea dell’eutanasia, anzi la legalizzazione o, almeno, la depenalizzazione di essa. E purtroppo — notava il Marcozzi — l’idea eutanasia "è andata guadagnando terreno un po’ dappertutto" (Marcozzi, "il cristiano di fronte all’eutanasia", in "La Civiltà Cattolica" 1975, IV, pp. 322-336).
L’uomo antico, anteriormente al cristianesimo, era un uomo astórgous, senza cuore, e disperato, perché, alla lettera, privo di speranza: gli eroi greci, per esempio, erano animati tutti dalla stessa disperazione, perché sapevano che, per quante battaglie potessero vincere e per quanto potessero coprirsi di gloria, il loro destino era comunque segnato: sarebbero scesi nell’Ade e di essi, con il sovrapporsi delle generazioni, sarebbe scomparso anche il ricordo. Questo sottofondo di angoscia di morte e di disperazione attraversa, come un filo rosso, tutta l’Iliade, e accompagna gli eroi, sia greci che troiani, in ogni istante della loro vita, senza che possano mai sottrarvisi: tutto ciò che fanno, la guerra e la pace, l’avanzata e la fuga, il coraggio e la viltà, si svolge sotto la tremenda consapevolezza dell’annientamento finale che tutti li attende e tutti li divora, appiattendoli in un unico destino di oscurità ed oblio. E questa coscienza, che li rode in fondo all’anima, li rende sempre più bramosi di gloria e sempre più duri e spietati, addirittura belluini: Achille, dopo la more di Patroclo, diventa un demone della distruzione, che non si placa finché non ha arrossato di sangue le acque dello Scamandro e non ha massacrato senza alcuna pietà, tutti quelli che gli sono caduti sotto le mani, compresi quanti — come Licaone, figlio di Priamo – lo hanno supplicato in ginocchio di aver salva la vita, promettendo un lauto riscatto. Perfino sui morti si è accanito e non si è trattenuto dall’insultare i cadaveri, come nel caso di Asteropeo. Né la strage terribile provoca in lui, alla fine, un qualche senso di appagamento; subentrano solo la nausea, la stanchezza, e per stanchezza egli concede al vecchio re di Troia il riscatto del cadavere di Ettore, affinché gli siano resi gli onori funebri; ma la sua anima rimane esacerbata e disperata, e il dolore straziante per la perdita dell’amico è vieppiù incrudelito dalla coscienza che il prossimo a morire sarà proprio lui, e che nulla hanno gli uomini da sperare una volta discesi nell’Ade.
L’uomo moderno sta regredendo al livello spirituale e morale dell’uomo antico. Padrone di una tecnica, e perciò anche di una tecnica medica, enormemente più sviluppata, egli si è abbandonato ad una hybris ancora più grande: e così, ad esempio, in una società ove gli aborti si praticano a decine e centinaia di migliaia, ecco che delle donne di sessant’anni e più, oppure delle donne lesbiche, trovano il modo di avere dei bambini mediante la fecondazione artificiale; non per amore, come esse dicono, ma per sfidare i limiti posti dalla natura e per prendersi una rivincita sociale nei confronti del loro statuto di donne sterili, o perché anziane, o perché accese di passione per le altre donne invece che per l’uomo. Ed è la stessa società in cui le culle sono sempre più vuote, ma un numero sempre più grande di coppie rifiuta di generare dei figli, e decide piuttosto di allevare dei cani o dei gatti, sui quali riversa tutta la sua tenerezza, per i quali acquista i cibi migliori, e che porta dal veterinario ad ogni minimo disturbo fisico. Che cosa si può dire d’una simile società, se non che i suoi membri si sono induriti nel cuore, hanno sviluppato un cuore insensibile, di pietra, e sono incapaci di provare un vero sentimento di amore? Il giudizio nei suoi confronti è già stato pronunciato: si tratta di una società moribonda, destinata a scomparire, perché dominata dal cieco amor di sé che era proprio dell’uomo antico, insensibile davanti alle sofferenze altrui.
Qualcuno potrebbe obiettare che la preoccupazione di non far nascere un bambino, se non quando vi siano le condizioni migliori per la sua crescita; e il desiderio di abbreviare i dolori d’un malato terminale, donandogli una morte pietosa, sono manifestazioni di troppa sensibilità, e sia pure, forse, non ben consigliata, non però di durezza di cuore; ma consideriamo bene i fatti e non fermiamoci davanti alle apparenze. Davvero le madri che praticano l’aborto volontario sono mosse da troppa preoccupazione nei confronti del nascituro? Se prendessimo per buono un simile ragionamento, allora, coerentemente, dovremmo dire che il medico pietoso è quello che somministra una iniezione letale a tutti i suoi pazienti afflitti da malattie durevoli, o da gravi disordini psichici, o da incessanti difficoltà economiche. La stessa cosa vale nei confronti dell’eutanasia: chi crede di essere l’uomo, per mettersi al posto di Dio e decidere quando una vita non è più degna d’essere vissuta? No, non è per troppa sensibilità che la società moderna è divenuta abortista ed eutanasica, ma per rimuovere dal proprio cammino la pietra d’inciampo della vita, laddove gli uomini non hanno alcuna intenzione di lottare per difendere la vita quando essa è più fragile e minacciata, e mille scuse da addurre per sbarazzarsene. Mostrando, con ciò, di avere un cuore di pietra, non quello di carne donato loro da Dio: come è inevitabile che accada, quando essi scelgono di volgere le spalle a Lui…
Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash