La radice della difficoltà di credere è la superbia della civiltà moderna
29 Giugno 2016
Una classe dirigente immemore e arrogante sta costruendo una società senz’anima
1 Luglio 2016
La radice della difficoltà di credere è la superbia della civiltà moderna
29 Giugno 2016
Una classe dirigente immemore e arrogante sta costruendo una società senz’anima
1 Luglio 2016
Mostra tutto

Tempus fugit…

Tempus fugit, il tempo fugge via, e ci scivola fra le dita, senza che ce ne accorgiamo: pare che sia passato un attimo, e invece è trascorsa la nostra intera vita, e non c’è più tempo per fare tutto quel che volevamo fare, per realizzare i sogni della nostra giovinezza: ecco, è finito, lo abbiamo consumato tutto quanto, e ormai è troppo tardi per qualsiasi cosa…

Virgilio lo aveva colto ed espresso da par suo, con uno lampo di potenza inimitabile, pur nella sua apparente compostezza ed armonia, e nella sovrana, impeccabile levità del verso Sed fugit interea fugit irreparabile tempus (Georgiche, III, 284): ma intanto fugge, irreparabilmente fugge il tempo, con quel fugit che, ripetuto due volte, sembra scandire impietosamente la marcia inarrestabile del tempo, che finirà solo quando noi stessi ne saremo del tutto consumati, come una candela che si spegne, e converte in fumo la sua fiamma vitale.

E, di fatto, molte perone vivono letteralmente nell’ossessione del tempo che fugge; sono come attanagliate da un’inquietudine, da un’angoscia vera e propria, che le spinge sempre avanti, le pungola senza pietà, avanti, avanti, senza tregua né riposo, senza pace né sollievo, come se una bestia selvaggia le inseguisse, le premesse da vicino, le incalzasse continuamente, minacciando di azzannarle ad ogni passo; come se un segreto senso di colpa, un silenzioso rimprovero, ordinassero loro di non fermarsi mai, pronti a rinfacciare la più piccola sosta o incertezza.

Seneca, con il suo De brevitate vitae, ha provato a contrastare quella forza, a esorcizzare una simile inquietudine; però non si può dire che sia servito a molto: o i suoi lettori sono stati sempre pochi, oppure, pur apprezzando gli argomenti del filosofo romano, pur ammirando la sua calma saggezza e la sua critica puntuale, se pur pacata, dell’inutile agitarsi e dell’inutile voler fare molte, troppe cose, come se la quantità fosse tutto ciò che conta, non fossero tuttavia riusciti a trasformare in linfa e sostanza vitale i precetti di quell’aureo libretto.

Del resto, non son cose che si apprendono dai libri. Il segreto del tempo ritrovato non ce lo può insegnare Seneca, e nemmeno Marcel Proust: il tempo dei filosofi è troppo astratto, e quello dei poeti, troppo soggettivo. Nessun lettore può trovare la risposta che cerca sfogliando tra le pagine dei libri: quel libro non è mai stato scritto, né mai lo sarà. Il solo libro che conti davvero, l’unico dal quale si possa imparare qualcosa, è il libro della nostra stessa vita. E, davanti alle sue pagine ancora bianche, siamo tutti ugualmente principianti e impreparati: tutti dovremo procedere per tentativi, e nessuno ci potrà insegnare scorciatoie d’alcun tipo. E pertanto, nel corso dei nostri tentativi, ci sembrerà di perdere molto, troppo tempo; morderemo il freno, imprecheremo e ci faremo dei vani rimproveri, dicendoci che avremmo dovuto prendere l’altra strada, giunti a quel tale bivio.

La verità, però, è un’altra: e cioè che senza errori, senza sentieri sbagliati, senza perdite di tempo, non s’impara nulla, tanto meno si trova la via giusta. La via giusta non è mai quella che ci mostrano gli altri, ma solo quella che abbiamo riconosciuto come tale: gli altri ci possono aiutare, ci possono dare la conferma, ci possono perfino sembrare gli autori dell’indicazione decisiva; però, se a un certo punto abbiamo deciso di ascoltarli, di seguire i loro consigli, vuol dire che era giunto il momento, e che noi eravamo cresciuti abbastanza da riconoscere la strada. Se così non fosse stato, neanche la guida più esperta del mondo avrebbe potuto esserci d’aiuto.

In realtà, non vi è che un’unica guida: Dio; e le persone che vengono a mostrarci il cammino, o a sostenerci nei punti più difficoltosi, sono mandate da Lui; tutto è grazia nella Sua mente, nel Suo disegno mirante a ricondurci a Lui: e siamo stati dotati di tutti gli strumenti necessari, naturali e soprannaturali, per portare a buon fine il nostro viaggio. In teoria, è impossibile che ci perdiamo, e, quindi, è impossibile che perdiamo tempo; in pratica, quel che spesso facciamo è di chiudere gli occhi e gli orecchi davanti ai suggerimenti che ci vengono dall’alto, con il risultato di complicare a noi stessi le cose e di ficcarci in situazioni sbagliate e fallimentari, solo per il gusto di dire no.

Gli esseri umani, con la loro anima immortale, con la loro intelligenza, con la loro volontà e con la loro innata aspirazione alla verità, sono mirabilmente organizzati per dire e per giungere al fine della loro più profonda aspirazione: trovare la via, e, con ciò, trovare anche il senso della propria vita: perché perdere tempo non è altro che smarrire l’una e l’altra cosa. Essendo anche dotati di libertà, possono, tuttavia, dire no alla verità, e perdersi lungo strade sbagliate, ben sapendo che sono tali, ma senza trovare in se stessi la forza per spezzare l’incantesimo maligno che li tiene avvinti a ciò che è per il loro peggio.

Tempus fugit, dunque, dice l’antica saggezza: ma è proprio vero? È proprio vero che il tempo ci sfugge inesorabilmente, che ci lascia sempre indietro, che siamo condannati a perdere la rincorsa dei nostri sogni, delle nostre più profonde aspirazioni? È proprio vero che, se avessimo più tempo a disposizione, molto più di quanto ci è dato normalmente, riusciremmo a fare chi sa quali cose, a raggiungere chi sa quali mete, le quali, invece, ci restano inaccessibili per la mancanza di tempo? È proprio vero che siamo vittime di un problema quantitativo, di una penuria di anni, di giorni, di ore, di minuti, quasi una beffa permanente del destino?

Noi non lo crediamo. Diremo di più: ci sembra che questo somigli molto ad un alibi precostituito, volto a giustificare in anticipo il fatto che mancheremo la cosa più importante della nostra vita, cioè la scoperta e la conquista del suo significato. Anzi, più che la scoperta, il riconoscimento: perché si tratta non già di scoprire qualcosa che potrebbe rimanerci ignoto, ma di riconoscere qualcosa che, di fatto, è già sotto i nostri occhi, solo che noi non lo sappiamo riconoscere. Non lo vediamo neppure, perché siamo troppo impegnati a lamentarci della scarsità di tempo a nostra disposizione, e a rimproverarci per non aver fatto buon uso di quello che ci era stato accordato. Tuttavia, se è vero che attardarsi con cento cose frivole o secondarie equivale a una perdita di tempo, è pur vero che, parlando in termini assoluti, il tempo non è mai perduto: anche il fatto di perderlo ha un senso, è una tappa necessaria. Qualcuno avrà bisogno di fermarsi più a lungo, a qualcun altro basterà assai meno. Siamo umani, e perciò fallibili; cerchiamo il meglio, ma, spesso, ci aggrappiamo al partito peggiore: e così differiamo il momento della verità. E questo, si, è un peccato; un peccato nel senso religioso, cattolico del termine: cioè un allontanarsi da Dio.

Se puntiamo all’essenziale, non perdiamo mai tempo: perché l’essenziale è la verità, e la verità è presso Dio, la verità è Dio. Per capirlo, tuttavia, c’è bisogno di tempo; cioè, paradossalmente, di perdere tempo. Nessun essere umano possiede una saggezza così grande da comprendere una simile evidenza, e da metterla in pratica senza frapporre alcun indugio, evitando una qualche dispersione di tempo. Così come non esiste una maniera, in un sistema fisico, per trasformare tutta l’energia in lavoro, ma inevitabilmente qualcosa, di quella energia, andrà perduto, provocando un progressivo aumento di entropia, cioè di disordine, allo stesso modo è impossibile che una persona comprenda subito, senza alcuna incertezza, che esiste una sola maniera di non perder tempo: abbandonare il proprio Ego, con tutto l’inutile bagaglio di brame e di paure, e lasciarsi guidare dalla sola voce che, in mezzo al coro delle voci fatue e discordanti, ha l’accento della verità.

Non dobbiamo rammaricarci poi troppo di quella "perdita", perché, senza dubbio, era necessaria. Ciascun essere umano ha i suoi tempi e li deve rispettare, secondo la sua natura, ma anche secondo la sua capacità di apprendere dai suoi stessi errori. Ecco: il solo tempo veramente perso (il timp piardut, come dicono i Friulani) è quello in cui reiteriamo gli stessi errori, rifiutandoci d’imparare alla scuola della vita. Non dobbiamo sentirci automaticamente in colpa per il fatto di perdere del tempo, ma solo per il tempo che abbiamo perso in maniera realmente colpevole: come uno studente che non deve rimproverarsi se, pur essendosi impegnato al massimo, non ha superato un esame, mentre ha motivo di rimproverarsi se non ha voluto studiare quanto era necessario.

Reiterare sempre gli stessi errori indica uno squilibrio, una disarmonia profonda, che può nascere da cause assai diversificate, ma che, in ultima analisi, ha pur sempre una medesima radice: l’incapacità di essere docili davanti alla pedagogia della vita, accompagnata dalla superbia di voler dare torto ai fatti per poter dare ragione alla nostra pigrizia. Non stiamo parlando d’una pigrizia fisica: una persona può essere materialmente assai attiva, eppure pigra spiritualmente e moralmente. Anzi, è diffusa proprio questa sindrome: l’iperattività mirante a mascherare la pigrizia interiore.

Siamo sempre molto bravi ad ingannare noi stessi, quando si tratta di proteggere la nostra pigrizia. Ci fabbrichiamo perfino dei sensi di colpa, allo scopo di poterci crogiolare nell’inerzia, e non fare nulla di ciò che andrebbe fatto. È come se dicessimo, agli altri e anche a noi stessi: Eh, come potete aspettarvi qualche cosa da me, che sono così mal ridotto? Non vedete come soffro, come sono lacerato dai sensi di colpa? Lasciatemi in pace; siete ben crudeli, se non capite che nessuno può esigere che io faccia qualcosa, straziato come sono dai rimorsi. Non c’è che dire, una bella commedia. Il fatto è che, a volte, c’immedesimiamo in essa così tanto, da crederci con ogni nostra fibra: e così ci ammaliamo. Di disperazione. E la disperazione è la malattia mortale, come insegnava il buon vecchio Kierkegaard.

La disperazione assume due possibili forme: il voler essere se stesso e il non voler essere se stesso. Se l’io vuole essere se steso, non ci riesce, perché l’io aspira all’infinito, e l’io finito non potrà mai riuscire a raggiungere e a realizzare l’infinito. Ma anche se sceglie di non essere se stesso, l’io piomba nella disperazione, perché rifiuta ciò per cui è stato costituito, ciò che è il suo statuto ontologico. Si direbbe che l’io sia preso in trappola, che non vi sia scampo per esso; e invece la via d’uscita esiste, ed è il "salto" nella fede. Scegliendo Dio, l’io ritrova se stesso e lo realizza pienamente; laddove, sia scegliendo se stesso assolutamente, sia rifiutando assolutamente di essere se stesso, non trova altro che angoscia e disperazione senza sbocco. Rifiutando Dio, l’io si smarrisce nel peccato, perché la disperazione è il peccato: cioè il rifiuto di esser quel che è chiamato ad essere, ma con l’aiuto di Dio e non con il suo misero orgoglio di creatura finita.

Della malattia mortale della disperazione, si può anche morire: fisicamente o spiritualmente. Fisicamente, col gesto del suicida; spiritualmente, con quella forma lenta e vile di auto-distruzione, che consiste nel lasciarsi morire alla speranza. Ma alla speranza di che? Non di fare questo o quello: ciò sarebbe sempre un indugiare nel regno della quantità, mentre l’unica cosa che conta è puntare all’essenziale; e l’essenziale non è nella quantità, nel numero, nella ripetizione. Non è nemmeno nella magia dell’attimo, come credono e sostengono tutti gli epicurei da strapazzo e tutti i sensuali che camuffano la loro sensualità dietro la filosofia dell’azione. L’azione è sempre il mezzo, mai il fine. Non si scala una montagna, rischiando la vita, per godere le emozioni irripetibili dell’attimo: non sarebbe una cosa seria; mentre la vita è una cosa seria. Si scala una montagna per cercare e per trovare se stessi: questo sì. L’unica azione importante, l’unico viaggio necessario è quello che porta alla luce il senso della nostra chiamata.

La chiamata è individuale, ciascuno ha la sua, con le proprie strade; ma il senso è universale: fare della nostra vita una risposta al richiamo di Dio. Il richiamo di Dio è l’amore. Il senso della nostra vita è amare. Ci sono mille modi di amare, ma l’amore è uno solo, che si manifesta attraverso innumerevoli volti e situazioni. Noi crediamo che si tratti di volti diversi e di amori diversi, ma, alla fine, scopriamo che l’amore è uno solo: farci una cosa sola con l’amore di Dio per noi. Si può amare viaggiando o restando, studiando o lavorando, sposandosi o pronunciando i voti religiosi; si può amare questa o quella persona, questo o quell’ideale, ma c’è un solo Amore, che li comprende tutti: l’amore di Dio per noi e il nostro per Lui. Certo, ci sono anche amori sbagliati: e sono quelli che ci allontanano dalla nostra verità interiore, che rafforzano il nostro Ego (magari per sottrazione: come nel caso del masochista, desideroso di lamentarsi eternamente) e ci sottraggono alla vista lo splendore dell’Amore vero. Più che amori sbagliarti, sono illusioni d’amore: talvolta sono illusioni necessarie, per imparare a distinguere l’oro vero da quello falso; altre volte, sono inutili perdite di tempo: e qui torniamo al tema iniziale. In questo senso, il tempo è prezioso e va usato bene.

Il tempo che ci avvicina alla verità, tuttavia, non è mai sprecato. La natura umana è fatta in modo tale che ben difficilmente sa vedere la verità di primo acchito, e ancor più raramente sa procedere verso di essa per la via più breve, che è pure, almeno all’inizio, la più faticosa. Vi sono anime dalle profondità abissali, che colgono subito la luce della Verità, e vanno dritte alla meta. Una bambina di sei anni e mezzo, Antonietta Meo (1930-1937), morta in ospedale fra dolori atroci, sembra essere giunta d’un balzo a quelle vette sublimi, lasciandosi indietro, e di molto, fior di filosofi e teologi. Il suo diario e le sue letterine, pieni d’errori infantili, attestano ch’ella era giunta, per le vie misteriose della Grazia, alla verità dell’amore: cioè alla strada dell’unione mistica dell’anima col suo Creatore.

Fonte dell'immagine in evidenza: sconosciuta, contattare gli amministratori per chiedere l'attribuzione

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
Hai notato degli errori in questo articolo?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.