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La radice della difficoltà di credere è la superbia della civiltà moderna

Credere in Dio; credere alla possibilità di giungere alla Verità; credere alla possibilità di realizzare in se stessi la vita buona, di rispondere affermativamente alla chiamata alla santità rivolta a tutti gli uomini, nessuno escluso: tutto ciò, per l’uomo moderno, sembra divenuto impossibile, o comunque difficilissimo: i sedicenti cristiani ne parlano con un misto d’incredulità e scoraggiamento; gli altri, con un tono beffardo, d’ironia e quasi d’irrisione.

Partiamo dalla fede in Dio, cioè dalla fede che sorregge la fede in tutto il resto: nella verità e nella possibilità di raggiungerla; nella santità e nella possibilità di realizzarla. La fede in Dio, si dice, è diventata difficile, pressoché impossibile, perché la civiltà moderna ha demolite, una dopo l’altra, le credenze dei nostri progenitori, mediante il progresso della scienza: sicché noi non possiamo più credere come credevano loro, e, anche se lo facessimo, ci macchieremmo di una duplice colpa, intellettuale e morale: intellettuale, perché getteremmo nel cestino secoli di progresso scientifico, morale, perché mostreremmo di non avere il coraggio di guardare avanti, di accettare la nostra condizione di animali evoluti e intelligenti, i quali devono affrontare la realtà e vivere contando solo su se stessi, senza coltivare favole religiose per consolarsi della duplice, tragica scoperta del sapere moderno: che il mondo è senza senso, perché non è scaturito da un atto d’amore di Dio; e che la morte del corpo è la fine di tutto.

Si tratta, a ben guardare, di una specie di ricatto, anzi, di auto-ricatto; se io credo in Dio, se mi affido a Lui, se leggo il Vangelo con fede, e non come uno dei tanto documenti dell’umana illusione d’immortalità, vengo meno al mio stesso statuto ontologico di essere razionale, e mi rendo colpevole di vigliaccheria e diserzione: è come se abbandonassi il mio posto nella battaglia per la civiltà, come se voltassi le spalle al vero, e così regredisco allo stato infantile, in un mondo fittizio, alienato, popolato di creature invisibili, angeli e demoni, nel quale tento di rassicurare le mie paure e di tacitare i miei dubbi, il timore che ho di comportarmi da persona adulta e di assumermi le relative responsabilità. I miei amici, che siano persone colte oppure no, mi guarderanno con stupore e commiserazione, come si guarda un fenomeno anacronistico o un povero individuo spaventato, che si rifugia nelle infantili sicurezze di un tempo trascorso per sempre.

Nella società attuale, infatti, tutte le simpatie, tutta l’ammirazione, vengono riservate alle persone audaci, intrepide, le quali rifiutano teorie e "storielle" consolatrici, e che mostrano il coraggio di vivere la vita accettandola per quello che è: un tempo breve, limitato, fra il nulla del prima e il nulla del dopo: un lampo di luce, inspiegabile e irragionevole, nel buio dell’universo; una occasione tutta immanente di gioire, di conoscere, di amare, sempre con i piedi bene attaccati alla terra, sempre con lo sguardo rivolto in avanti, non troppo in alto, perché in alto ci sono le nuvole, e, oltre le nuvole, il cielo, e il cielo non è la nostra vera patria, la nostra unica patria è questa qui, che abbiamo sotto di noi: la terra, con tutte le cose che contiene, belle o brutte che siano, e che, del resto, sta in noi rendere brutte o belle, perché noi, e noi soltanto, siamo i giudici della nostra vita e gli artefici del nostro destino.

Le donne ammirano l’uomo audace, intrepido, che non china la testa davanti a niente e a nessuno, che è sempre sicuro di sé, che non teme l’Aldilà, perché crede solo nell’al di qua; gli studenti ammirano il giovane professore di filosofia, originale, anticonformista (anche se non lo è poi tanto quanto essi credono), che non mostra alcun rispetto per la tradizione e che parla come se non occorresse neanche prendesi il disturbo di dimostrare che Dio non c’è, e che pensa unicamente a come migliore la società, magari per mezzo di una rivoluzione; i bambini ammirano la mamma disinvolta e innamorata di sé, che non va in chiesa, ma in palestra, e il papà intraprendente, concreto, che bada al lavoro e al guadagno, poi si gode le vacanze esotiche, senza fisime spirituali e senza troppi scrupoli di coscienza; i giovani ammirano gli amici i quali non hanno paura di niente e di nessuno, disinvolti, sfacciati, che inseguono mille piaceri e si lasciano sedurre da mille richiami, mentre disprezzano le anime pensose, introverse, meditative, profonde, sensibili; i giovani preti ammirano i vescovi che parlano male della Chiesa, della gerarchia, della "repressione" sessuale, che deridono la credenza nel Diavolo e che nascondono a fatica un sorrisetto di superiorità quando si parla della Madonna, della sua intercessione, del suo ruolo di suprema mediatrice; e i giovani parrocchiani ammirano i preti d’assalto che hanno sempre in bocca la "liberazione" e la "giustizia sociale", che si gettano a capofitto in mille attività e non perdono mai tempo a pregare, perché pregare è una cosa poco utile e, per giunta, è una forma d’ipocrisia, perché vi si rifugiano quelli che non hanno voglia d’impegnarsi per cambiare in meglio la società.

Lo stesso tipo di atteggiamento esiste, ed è largamente diffuso, nei confronti del cinema, della televisione, della letteratura, dello sport, degli svaghi e del tempo libero: non sono apprezzati i film, i programmi, i libri, le persone che parlano del bene e che cerano di praticarlo, ma sono ammirati e ricercati tutti quei film, quelle opere, quelle persone e quei comportamenti che riflettono uno stile di vita materialista ed edonista, cinico e disilluso, dove l’importante è fregare il prossimo prima che sia il prossimo a fregare noi, e dove gli altri servono solo per il nostro piacere, per soddisfare la nostra vanità, per celebrare le nostre doti, vere o presunte, e gratificare e carezzare il nostro immenso, ipertrofico Ego. Un film che abbia come tema centrale la ricerca del bene, ad esempio, viene guardato con fastidio e malcelata ironia dalle giurie incaricate di assegnare i premi; e lo stesso vale per i romanzi, le poesie, i saggi, le opere d’arte, le opere musicali, il modo di comportarsi quando si è in vacanza o quando si gode del proprio tempo libero. Degne di ammirazione sono le persone le quali si fanno largo senza tanti complimenti (ad esempio, nell’ambito sportivo, quelle che assumono sostanze chimiche proibite, beninteso purché sappiano farlo con l’abilità necessaria per non essere scoperte), e afferrano al volo tutte le occasioni di piacere, di avanzamento e di carriera, perché quello che conta è il risultato, e, pur d’arrivarci, va bene qualsiasi mezzo.

Questo è il contesto generale in cui si inscrive la difficoltà della fede per l’uomo moderno. Dopo che legioni di filosofi, d’intellettuali e di romanzieri hanno sostenuto che l’unica realtà di cui possiamo disporre è quella materiale e contingente; dopo aver appreso, dai loro libri, che non vale nemmeno la pena di confutare la credenza in Dio, perché essa appartiene alla preistoria, e ad un filosofo moderno, ad esempio, non resta altro che trarre le conseguenze dalla non esistenza di tutto ciò che è trascendenza, e dalla convenzionalità di tutto ciò che era stato considerati sacro, è chiaro che la maggioranza delle persone finisce per introiettare l’idea che il discorso sia chiuso da un pezzo e che l’impossibilità di credere non sia affatto una anomalia, bensì, al contrario, che anomalo, e un po’ buffo, un po’ rétro, sarebbe il suo contrario, cioè rivolgere la propria fede a Dio. Ma è chiaro che gli effetti sono insiti nella premessa. Se si semina incredulità e disprezzo per la trascendenza e per il sacro, si raccoglieranno generazioni d’increduli e di cinici. Se si irride il bene da tutti i pulpiti e si tesse l’apologia del piacere ad ogni angolo di strada, nessuna meraviglia può esserci quando scopre il rovescio della medaglia: famiglie che si disgregano, rapporti di lavoro che si logorano, ansia ed angoscia che spingono milioni di persone verso la pace illusoria dei farmaci, delle cure psichiatriche, delle sette di esaltati che promettono di portare le persone fuori dal tunnel della depressione e di avviarle in un mondo paradisiaco, fatto di assoluta sicurezza in se stessi, esigendo, però, una cieca sottomissine degna di schiavi, non di uomini liberi.

E allora, vediamo un po’ meglio, un po’ più da vicino, quali siano i veri termini della questione. È difficile credere, oggi? Forse; può darsi. Ma non si ha il diritto di dirlo, né, tanto meno, di farsene una giustificazione, se si è coltivata una tale difficoltà con ogni mezzo, con ogni studio. La condizione privilegiata per credere è abbandonare il proprio Ego, staccarsi dagli idoli del potere, del piacere, del (falso) sapere, e mettersi sulla strada della vita buona. Se non si prova a fare questo, non ha senso, poi, parlare della difficoltà di credere: sarebbe come parlare della difficoltà di ottenere buoni risultati in una determinata pratica sportiva, se non si è capaci di smettere di fumare e di frequentare amici che sono fumatori accaniti. D’altra parte, la fede non viene su nostro comando: noi non possiamo darcela da soli. Dobbiamo domandarla, perché è un dono: un dono, ha specificato Gesù Cristo, riservato alle anime umili e semplici, e negato agli orgogliosi e ai superbi, i quali si credono tanto intelligenti e tanto superiori a quegli altri, ai "piccoli". Dio, però, ama appunto i piccoli; come afferma il Vangelo: Se non diverrete come questi fanciulli, non entrerete nel Regno dei Cieli. Vorrà pur dire qualcosa. Ecco, dunque, che l’uomo moderno dovrebbe fare esattamente quel che facevano i suoi nonni e bisnonni: deporre la superbia intellettuale e farsi piccolo come un fanciullo. Molti ne sono incapaci, specialmente fra coloro i quali hanno studiato: giornalisti, professori, intellettuali, scienziati, artisti: proprio coloro dai quali dipende l’orientamento complessivo della società. Questo dimostra fino a che punto la ragione, concepita come staccata dalla fede e inconciliabile con essa, sia diventata la palla al piede dell’uomo moderno: ciò che gli impedisce di volare in alto, verso la libertà.

La vera libertà, infatti, non è quella di cui parlano e straparlano in tanti, in troppi, ossia una libertà negativa, contro qualcosa o contro qualcuno: non è affatto quella, ma un’altra: è la libertà di mettere in accordo se stessi con la propria parte migliore, con gli altri e con Dio. Non è vera libertà quella che implica un danno, una sopraffazione, una ingiusta sofferenza riservati agli altri, o anche alla propria parte migliore. La parte migliore di ciascuno di noi è quella che anela al bene, al vero, al giusto, al bello; la parte peggiore, quella che vorrebbe soddisfare tutti i suoi istinti e appetiti, calpestando la verità e la giustizia, ingannando e tradendo l’amore, deformando orribilmente la bellezza. Prendiamo quest’ultimo caso: la bellezza. Il vero artista è colui che la sa ritrarre con occhio sempre limpido, benevolo e spirituale: il che è possibile anche nella rappresentazione del nudo, come alcune famose opere di grandi artisti testimoniano. L’artista mediocre, fasullo, mercenario, che tradisce la propria vocazione per piacere al pubblico con i mezzi più facili, è colui che degrada la bellezza del corpo e la intorbida con allettamenti sessuali, i quali divengono pornografici, perché staccano la parte dal tutto, il corpo dall’anima, e trasformano il corpo umano in un mero oggetto, da desiderare in maniera brutale.

Resta fedele alla propria vocazione colui che resta ancorato alla verità. La verità ultima è Dio. Se il cinema, la televisione, la letteratura, l’arte, la scienza, la filosofia, la stessa teologia (come purtroppo si è visto nell’ultimo secolo) si allontanano da questa via, esse tradiscono se stesse e diventano incapaci di fare un discorso di verità. La stessa cosa vale per la psicologia, la sociologia e tutte le cosiddette scienze umane. Una antropologia che ignori il bisogno di Dio, o che lo consideri con sufficienza e con disprezzo, come qualcosa che si dovrebbe eliminare affinché l’uomo possa infine diventare "adulto", non potranno che restituirci una immagine deformata e distorta di ciò che l’uomo effettivamente è. Lo abbasseranno al rango di un animale stupido e ingordo, bramoso di sempre nuovi piaceri, instancabile nel vizio, nella prepotenza, nell’egoismo, vile davanti alle prove, alle difficoltà della vita, esperto nella maldicenza, nella calunnia, nella disonestà, nella patologica, compulsiva affermazione di sé. Le persone che si affidano, per i loro disturbi e per le loro difficoltà, a siffatti psicologi e psichiatri, e gli studenti che vengono guidati al sapere da siffatti maestri, impareranno, forse, molte cose, ma non la cosa essenziale, l’unica che conti veramente: come giungere alla Verità e come trovare, in essa e in essa soltanto, la pace del cuore.

La Verità è Dio; la pace sta in Lui. La cultura moderna, gonfia di superbia, ha negato questa saggezza, antica di secoli e millenni, per sostituirla con la sua "saggezza", tutta mondana e immanente. Ma non ha trovato quel che cercava, e, in compenso, ha visto crescere sempre di più il fardello della propria infelicità. L’uomo moderno è infelice perché si è allontanato da Dio. Per vincere la sua infelicità e per tornare a Dio, è necessario che si sbarazzi della radice di tutti i suoi mali: la superbia intellettuale. Deve tornare a riconoscersi piccolo e fragile, e avere abbastanza umiltà da chiedere a Dio la Grazia di quella fede, senza la quale non starà mai bene, né con gli altri, né con se stesso. Talvolta, negli squarci di lucidità, egli lo intuisce e vorrebbe quasi fare il gran salto della fede: ma è sempre la superbia a trattenerlo. Eppure Dio continua a cercarlo, a chiamarlo a Sé…

Fonte dell'immagine in evidenza: RAI

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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