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La verità è vedere noi stessi come Dio ci vede

Uno degli aspetti più caratterizzanti della civiltà moderna è il suo atteggiamento nei confronti della verità: che è passato, nel corso del tempo, da un senso di euforia, e quasi d’onnipotenza, tipico della fase iniziale (dalla rivoluzione scientifica all’illuminismo) ad una condizione di dubbio sempre più forte, a un crescente scetticismo, poi alla negazione e al rifiuto; per giungere, da ultimo, a una specie di odio contro la verità, un odio che si esprime rabbiosamente, o con ironia, o con derisione, o con disprezzo, ogni qual volta ci si trova in vicinanza di essa, per esempio quando si vede qualcuno che la antepone ad ogni altra cosa e che, per essa, appare pronto a qualunque sacrificio, compreso quello della vita.

In simili casi, l’atteggiamento complessivo della nostra società, a cominciare dai cosiddetti intellettuali, ondeggia fra l’incredulità, il sarcasmo e il compatimento, come se ci trovasse alle prese con un povero demente, o con un ingenuo presuntuoso, oppure con un fanatico, potenzialmente assai pericoloso. Ciascuno si fa queste domande: Come osa, costui, affermare che la verità esiste e che essa è conoscibile dall’uomo? Chi si crede di essere? Pensa, forse, di essere migliore di tutti gli altri, dal momento che la verità – è cosa nota – o non esiste, oppure, se anche esistesse, sarebbe molto al di là della nostra portata?

Infatti, i seguaci e i fautori del soggettivismo esasperato e del relativismo radicale, i due macigni che ostruiscono il nostro cammino verso la verità, ci hanno quasi persuasi che le cose stanno come affermano loro: che non esiste una verità assoluta, ma che ciascuno ha il diritto di coltivare la sua piccola verità personale, e che non esistono certezze o valori forti, perché tutto è relativo, tutto dipende da come lo si guarda e da come lo si interpreta.

Questa, ovviamente, è una filosofia che può adattarsi solamente a dei folli, ma dei folli che siano anche disperati: perché solo un folle disperato può pensare davvero di vivere in un mondo siffatto, dove non esistano né la verità, né la certezza di poterla trovare: folle, perché vivere in una simile maniera diventa, alla lettera, impossibile; disperato, perché equivale alla perdita totale della speranza.

Se fossero coerenti, quei signori la smetterebbero di intronarci gli orecchi con le loro litanie e cambierebbero mestiere; rinuncerebbero spontaneamente alle loro comode poltrone e alle loro prestigiose cattedre universitarie; la smetterebbero di scrivere articoli e libri, di partecipare a talk-show televisivi, di prestarsi a rilasciare interviste, a tenere conferenze, a presentare l’ultimo parto editoriale dell’amico, o dell’amico degli amici; se fossero coerenti, si ritirerebbero in campagna, a coltivare fagioli e pomodori, e le loro considerazioni le loro perle di saggezza le regalerebbero, tutt’al più, a pochissimi intimi, oralmente e quasi di nascosto, con un senso i pudore, se non proprio di vergogna.

Quale saggezza, infatti, sarà mai possibile, in un mondo totalmente abbandonato dalla speranza, ove non esistono né la verità, né la certezza di poterla trovare? No: se si vuole esser coerenti, dopo aver proclamato che il mondo è una nave dei folli, bisogna mettersi in capo il berretto coi campanelli ed unirsi, volonterosamente e con la massima convinzione, alla follia generale; bisogna fare come i dadaisti o i surrealisti, e scrivere commedie dell’assurdo, o dipingere quadri senza senso, o costruire strade che non portano da nessuna parte, o gettare ponti fra due isole deserte, o varare navi con un pescaggio maggiore del bacino di collaudo, o costruire aerei con le ali di piombo, o tenere conferenze ai cani e ai gatti, o candidare al Nobel per la pace il più grande criminale della storia. Queste son le cose da fare (e alcune, in effetti, sono state fatte, o almeno tentate) se davvero si vuol essere coerenti;e abbandonarsi a pazzie tali che l’Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam, al confronto, appaia come uno scherzo da bambini.

Lo ripetiamo: la civiltà attuale non si limita a negare la verità e a dichiarare impossibili, o fasulle, tutte le certezze; si è spinta molto più avanti: essa ha dichiarato guerra contro la verità, l’ha presa in odio, la combatte con accanimento ovunque se ne offra l’occasione. Strano comportamento: se la verità non esiste, se fosse fatta — per usare un’immagine di Shakespeare — della stessa sostanza dei sogni, dovrebbe essere sufficiente ignorarla, anzi, non parlarne e non pensarci neppure, perché già il solo fatto di parlarne e di pensarci, sia pure per dichiararla inesistente, le conferirebbe una qualche forma di esistenza, e sia pure fantastica e soggettiva. In un certo senso, l’atteggiamento della cultura e della società attuali nei confronti della verità è analogo a quello che esse dimostrano nei confronti di Dio: non ci credono, però lo considerano un nemico pericoloso; lo negano, però non desistono dal combatterlo accanitamente, o dal combatterne la credenza; ridono di Lui e di tutti coloro che ci credono, però scattano in piedi, pronti a menare fendenti a destra e a manca, non appena sembra loro di udire dei passi nella stanza che ha lasciato vuota e deserta, come se, in fondo al cuore, temessero di vederne uscire un fantasma, e quel pensiero trasmettesse loro una paura tremenda che, per dispetto, per non darla vinta al Dio defunto, camuffano in furore.

Ma che cos’è la verità? La verità — non possiamo procedere senza darne una definizione, e ci sembra che quella classica sia sempre valida — è l’accordo del giudizio con la cosa. Se il giudizio è in accordo con la cosa, siamo nella verità; se è in disaccordo con essa, siamo nell’errore. Tuttavia, vi è differenza fra dire che cosa è la verità e come la si posa definire; nel secondo caso, stiamo già ragionando non sulla verità, ma su quel che la verità appare a noi, o su quella parte di verità che è a noi accessibile. Ecco, dunque, che le parole acquistano un peso determinante: dare una definizione della verità non equivale forse ad ammettere che altro è la cosa in sé, altro ciò che della cosa noi possiamo dire? Probabilmente sì; però questo accade a proposito di qualunque enunciato, anche se il carattere paradossale di ciò emerge con più forza quando si parla della verità, perché la verità, per definizione (appunto), fornisce il criterio di discriminazione necessario a qualsiasi discorso, su qualsiasi argomento. Se non si definisce cosa sia la verità, non si può parlare né di geometria, né di chimica, né di giurisprudenza, né di finanza; nondimeno, definire la verità significa anche un po’ tradirla, perché la definizione fissa dei paletti, traccia dei confini, mentre la verità, come e più di qualunque altra cosa, non sopporta di essere limitata a priori, la sua vera dimensione eccede sempre le nostre categorie, i nostri concetti e le nostre parole.

Cercheremo di essere ancora più chiari. La verità ultima, la Verità che regge tutte le altre verità, o tutto quel che ci appare come vero, è una sola: Dio. Dio solo è vero per se stesso; Dio solo garantisce la verità delle cose che noi constatiamo essere vere; Dio solo vede ogni cosa con verità (cioè con amore e con giustizia), per cui, se noi pure vogliamo rendere limpido il nostro sguardo, e cercare la verità delle cose, dobbiamo adeguare la nostra vista a quella di Dio. Questo, umanamente parlando, è impossibile: ed è proprio qui che inizia il cammino della fede. La fede diviene possibile e necessaria laddove la ragione ha condotto a termine il suo percorso: essa non è una negazione della ragione, ma una prosecuzione del cammino da quella intrapreso. La fede non nega la ragione, ma le dà la possibilità di portare a compimento quel che essa aveva incominciato, ma non è, né sarà mai capace di concludere.

La ragione umana cerca la verità; non questa o quella piccola verità, ma la Verità assoluta; quindi, anche se non lo sa, essa cerca Dio. Trovare Dio è la stessa cosa che trovare la Verità; non trovarlo, o non cercarlo, è la stessa cosa che voler travasare tutta l’acqua del mare in una piccola buca scavata nella sabbia, presso la riva. Ecco perché l’anima ha sete di Dio: perché la mente dell’uomo ha sete di verità, e non ha pace, né riposo, fino a quando non l’abbia trovata. Però non la troverà mai, se non la cerca là dove essa si trova: troverà solo delle mezze verità, delle false verità, delle ombre, o larve, o fantasmi di verità: e li scambierà ogni volta per la verità intera, si illuderà e poi resterà atrocemente delusa. Di delusione in delusione, l’anima dell’uomo moderno ha dichiarato che la verità non esiste. Però, la sete di essa non si estingue per il fatto di dichiararla inesistente; ed ecco la radice dell’odio, tutto moderno, contro la verità. L’anima moderna odia la Verità perché si sente delusa e tradita in un suo bisogno fondamentale; e, soggettivamente parlando, ha ragione di sentirsi così, delusa e tradita, e perciò anche arrabbiata. Solo che non si rende conto di essere lei stessa la causa della propria delusione e del proprio senso di tradimento e di abbandono: e continua a prendersela non con se se stessa, che è la vera responsabile della propria infelicità, ma con la verità, per la "colpa" di non esistere. Di fatto, è impossibile prendersela con qualcuno che non c’è, che nemmeno esiste: allora, inevitabilmente, un po’ alla volta, si finisce per trasferire la propria rabbia e la propria disperata ribellione contro questa o quella cosa, poi contro altre cose, e, alla fine, contro tutte.

L’anima moderna è come in preda a una possessione demoniaca, perché odia il mondo, odia la vita e, soprattutto, odia se stessa, senza rendersi conto di ciò che realmente prova, e, in ogni caso, dirigendo la sua aggressività verso il bersaglio sbagliato. Come l’idrofobo anela alla frescura dell’acqua, però, nello stesso tempo, la detesta e se ne tiene lontano, così l’anima moderna anela al possesso della verità, però non sa avvicinarsi ad essa, non lo vuole, e preferisce illudersi che le piccole verità parziali — quelle della scienza, ad esempio; o quelle che le suggeriscono l’edonismo, il relativismo e l’indifferentismo — potranno placare la sua sete. Ma rimane ogni volta delusa, e, ogni volta, afflitta da un più grave senso di frustrazione e di vuoto.

Ora, è evidente che la verità più importante, per l’uomo, è quella relativa a se stesso; e non già una verità astratta e generica, bensì la verità concreta e vitale di ciascun singolo individuo, come giustamente insegnava Kierkegaard. A che cosa mi servirebbe conoscere mille verità lontane, se ignoro la verità del mio stesso io, se sono nell’ignoranza riguardo a me stesso? Infatti, dalla conoscenza di me, potrò poi procedere alla conquista di altre verità, e, alla fine, giungere alle soglie della Verità ultima; mentre il cammino inverso risulta praticamente impossibile. Ma eccomi di nuovo preso in trappola: come giungere alla verità di me stesso, se io, come parte in causa, non posso, per definizione, innalzarmi a un punto di vista superiore, e vedermi così come sono, cioè come sono veramente, e non come appaio a me stesso, probabilmente in maniera illusoria e ingannevole? Chi o cosa mi darà la forza d’innalzarmi al di sopra di me stesso, per uscire al di fuori di me stesso, e guardarmi con sguardo veritiero, cioè con sguardo realmente oggettivo? È evidente che questa forza non me la posso dare da solo; e Nietzsche, che sosteneva esattamente questo, in realtà stava indulgendo a un sofisma, del tutto simile a quello del Barone di Münchhausen allorché, sprofondato nella palude con tutto il cavallo, se ne trasse fuori afferrandosi e tirandosi in su per i capelli. Solo da Dio mi può venire questa forza, che si chiama Grazia; ma, per poterla ricevere, devo essere disposto ad accoglierla, e, pertanto, devo riconoscermi debole e privo di quel che mi occorre. Il segreto della fede è tutto qui: essa resiste agli orgogliosi e ai superbi, proprio come ha detto Gesù, mentre Dio la dona ai semplici e agli umili di cuore. Lui solo, infatti, ci vede come siamo realmente, sino in fondo; Lui solo ci conosce in maniera veritiera, perché siamo opera Sua. Di nostro, possiamo metterci solo la possibilità di dire no a Lui, e quindi alla verità. Ma se ci facciamo umili e diciamo , abbandonandoci a Lui, allora noi saremo, anzi, noi resteremo uniti alla Verità, dalla quale abbiamo avuto origine, così come ha avuto origine tutto ciò che esiste. In fondo, la cosa è abbastanza semplice: siamo noi stessi, con i nostri vani ragionamenti, con i nostri sofismi e con le nostre fumisterie, che abbiamo reso tutto così terribilmente complicato. Essere in Dio, vuol dire essere nella verità: e chi è nella verità, non s’inganna e non costruisce nel vuoto. Non ha bisogno di fare il buffone, di mettersi il cappello con i sonagli e di costruire strade che non portano da nessuna parte. La sua vita acquista una profonda serietà, perché la verità è una cosa seria; acquista un valore e una direzione, perché fuori dalla verità non ci sono valori di sorta, né mete da raggiungere, ma solo emozioni fuggevoli, ed un vagabondare capriccioso e insensato. Questo vagabondare, è, in termini cristiani, il peccato: un oziare lontano da Dio, un voltargli le spalle.

Ha scritto padre Livio Fanzaga (in: La confessione. Dove il cuore trova pace, Milano, Sugarco, 2008, p. 71): Che cos’è la verità? Nel nostro caso è vedere noi stessi come Dio ci vede. Infatti noi siamo nella realtà non come noi pensiamo di essere, ma come Dio ci guarda e ci giudica. Quando siamo immersi nelle tenebre del peccato non vediamo la nostra vita così com’è. Siamo ciechi e non ci rendiamo conto della nostra miseria e del pericolo che incombe sulla nostra esistenza mentre siamo lontani da Dio e chiusi alla sua grazia. Che altro è il peccato, se non essere al buio, lontani dalla verità? E che altro è la verità, se non tornare a Dio, ove la sete si placa e il cuore trova la pace?

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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