Il gladiatorismo gaglioffo di Gentile e la Repubblica democratica di Maramaldo
14 Giugno 2016
«Non prego per il mondo»
16 Giugno 2016
Il gladiatorismo gaglioffo di Gentile e la Repubblica democratica di Maramaldo
14 Giugno 2016
«Non prego per il mondo»
16 Giugno 2016
Mostra tutto

Ma l’Italia è sempre il centro del mondo

L’Italia è un Paese semplicemente meraviglioso: quelli della vecchia generazione lo sanno, per averlo sentito dire dalle maestre e per averlo letti sui libri di scuola delle elementari, anche se poi lo hanno visto imbruttire sotto i loro occhi, un anno dopo l’altro, sotto i colpi della cementificazione selvaggia e della speculazione edilizia; quelli delle generazioni più giovani non lo sanno, perché nessuno lo ha insegnato loro e perché, sempre più spesso, non hanno più occhi per vedere, ma solo per guardare, cioè occhi che si fermano alla superficie delle cose.

Pochissimi Paesi al mondo, e nessuno in egual misura, possiedono una tale varietà di climi, di paesaggi, di vegetazione; praticamente, nessuno può vantare il cipresso accanto alla betulla, come sui laghi prealpini, o la palma accanto all’abete, e la magnolia accanto al mirto, come avviene in mille giardini della Penisola, con una tale frequenza ed una tale abbondanza, che lo sguardo smette di stupirsi e considera come cosa del tutto abituale quello che è, in effetti, un rarissimo privilegio ed un autentico prodigio della natura.

L’Italia è il paradiso del botanico, del paesaggista, del pittore, del fotografo, e, naturalmente, del naturalista; anche se non possiede spettacoli naturali della vastità o dell’imponenza del Grand Canyon del Colorado, o delle Cascate Vittoria in Africa, né foreste di sequoie gigantesche, come la Sierra Nevada della California, nondimeno possiede una immensa varietà di ambienti e di fenomeni della natura, dai ghiacciai alle isole vulcaniche, dai boschi alpini alle lagune e alle dune sabbiose, dalle montagne più imponenti d’Europa ai vulcani più alti e maestosi, alcuni tuttora attivi.

E tutto questo è ancora nulla in confronto alla vastità ancor più impressionante delle memorie storiche e delle testimonianze artistiche, le quali fanno dell’Italia un gigantesco museo a cielo aperto, nel quale ci s’imbatte ad ogni passo in un castello medievale o in una necropoli pre-romana, in una cattedrale gotica o in un anfiteatro romano, in un teatro barocco o in una villa settecentesca, per non parlare del numero e della ricchezza delle abbazie e dei monasteri, dei musei, delle pinacoteche, delle gipsoteche, dei giardini botanici, delle biblioteche, alcune delle quali antichissime, risalenti ad un’epoca in cui non esisteva alcunché di simile in alcun altro luogo del Vecchio continente, e neppure nel resto del mondo.

Le sue università sono le più antiche d’Europa, come pure le sue collezioni scientifiche, le sue specole astronomiche, i suoi codici miniati, i suoi trattati di matematica, di navigazione, di teologia, di filosofia; i suoi artisti, i suoi scienziati, i suoi poeti, i suoi filologi, i suoi eruditi, i suoi viaggiatori e navigatori, i suoi santi e le sue mistiche, erano conosciuti ovunque, quando a stento si sarebbe riusciti a racimolare una quantità paragonabile di geni e di grandi uomini e donne, che abbiano dato un contributo altrettanto decisivo allo sviluppo del pensiero e del progresso umano, rastrellandola in tutti gli altri Paesi d’Europa messi insieme.

Ovunque, sia in senso geografico, sia in senso intellettuale, gli Italiani hanno spalancato all’umanità nuove prospettive nell’arte, nella speculazione filosofica, nella ricerca scientifica; per primi hanno trasformato il lavoro in capitale e lo hanno investito in fiorenti attività commerciali; hanno importato ed esportato enormi quantità di merci, quando la maggior parte degli altri popoli viveva ancora di una stentata economia di sussistenza, e la stragrande maggioranza dei loro membri non si era mai allontanata dal proprio villaggio e dal proprio campanile, tranne — forse – per qualche pellegrinaggio religioso; i suoi mercanti, i suoi banchieri, i suoi professori universitari, i suoi scienziati, i suoi pittori, scultori, architetti, musicisti, poeti, viaggiavano ovunque, erano richiesti e apprezzati in ogni dove, e fin nei più remoti angoli d’Europa e del mondo hanno realizzato le loro opere, eretto i loro palazzi, riempito i teatri con le loro commedie e con i loro concerti, le chiese con i loro predicatori, e illustrato le virtù dei loro condottieri presso tutti gli eserciti.

In beve, l’Italia è l’Europa, l’Italia è il mondo: è una nazione infinitamente più grande di quel che i suoi confini fisici e politici lascerebbero supporre; la sua influenza in fatto di cultura, di moda, di cucina, di abbigliamento, di tecnologia, è di portata incalcolabile; per secoli e secoli, tutto il resto del mondo l’ha guardata con ammirazione e invidia, l’ha presa a modello, ha cercato di imitare i prodotti del suo genio, è andata a scuola dai suoi sommi maestri, si è riscaldata al fuoco inestinguibile del suo sapere, del suo senso del bello, della sua millenaria civiltà.

Questo immenso, incalcolabile patrimonio spirituale, che è la nostra vera ricchezza e il nostro profondo motivo di orgoglio, non è andato affatto disperso, a dispetto della nostra cattiva fama in altri ambiti della vita civile, dell’amministrazione pubblica e della politica, e a dispetto degli stessi difetti del nostro carattere nazionale, che non sono pochi, né lievi; più di quanto noi stessi tuttora immaginiamo, l’Italia, nel mondo, è considerata una grande nazione, probabilmente la più rappresentativa di tutta la civiltà occidentale, l’unica di cui l’Europa (non in senso politico ed economico) non potrebbe neppure immaginare di essere privata, perché, se ciò dovesse mai accadere, l’Europa non sarebbe più se stessa.

Ma torniamo alle bellezze naturali del nostro Paese, le quali sono sempre state celebrate in tutto il mondo, al punto che parlare di un paesaggio italiano, o di un’isola italiana, o di un lago italiano, o di un giardino italiano, è, di primo acchito, senza alcun’altra specificazione, un qualcosa che evoca immediatamente immagini superbe di bellezza e di fascino impagabile, immagini di armonia e di splendore che destano il desiderio e accendono la fantasia d’ogni altro popolo, d’ogni altra nazione, tanto che, da secoli, qualsiasi europeo colto, e, più recentemente, qualsiasi cittadino del mondo, non ritiene completo il suo bagaglio culturale e spirituale se non è stato coronato, almeno una volta, da un viaggio in Italia, per godere ed ammirare direttamente i tesori inestimabili della sua natura, della sua arte e della sua storia antichissima e gloriosa.

Riportiamo, a solo titolo di esempio, fra i mille che avremmo potuto scegliere, una fresca e vivace pagina del famoso trattato in forma dialogica Il Bel Paese (1876) dell’abate Antonio Stoppani, pioniere e fondatore della geologia e della paleontologia italiane, nonché appassionato alpinista (A. Stoppani, La Frua, cioè la cascata della Toce, in: Giuseppe Nangeroni Alla scoperta della Terra, Torino, Loescher-Chiantore, 1957, vol. 2, pp. 118-119):

La scena ha qualche cosa di solenne. Un immenso anfiteatro di rupi nere si spiega davanti all’attonito sguardo. Le pareti ignude di granito nero ond’è formato, sparse di vaste chiazze di gialliccio e di bianco, sono sormontate a destra e a sinistra da due montagne nude e ugualmente nere, ma ritte, irte, dentate. L’arena di quell’anfiteatro, coperta d’un gran tappeto vede, è sparsa di migliaia di massi, di rupi a spigoli vivi, strappati dai secoli alle montagne d’intorno e buttati a giacere alla rinfusa. Il circo di fronte presenta, in coincidenza colla cascata, quasi una specie di grande scollatura, per cui l’occhio s’inoltra liberamente verso lo sfondo della valle.

Ove quello sfondo si apre, una serie di rupi tondeggianti come dorsi di montone s’avanza per gradi sulla destra della valle, a modo di scena, e s’arresta a breve distanza dalla sinistra. Qui un’altra rupe, ugualmente arrotondata, le fa riscontro. Al sui piede sorge l’Albero, edificato sull’abisso. Un vano, un’intaccatura, quasi un canale aperto da umano scalpello in seno a quella barriera di rupi, apre l’unica via alla Toce che, giunta d’un tratto nell’abisso, vi si precipita senza freno, orribilmente muggendo, con un salto di 130 metri [in effetti, di 143 metri, a quota 1.675 sul livello del mare], formando una corrente della larghezza di 26 metri, e chi sa quanto larga nelle piene maggiori.

La rupe da cui precipita il torrente, non è propriamente a picco, ma forma una parete un po’ inclinata e ripartita in molti scaglioni, quasi ciclopica scalea sui fianchi della quale cresce qualche scarso filare di abeti.

Il torrente, già diviso in più cascate dove il salto incomincia, si suddivide, scendendo, in mille svagatissime cascatelle. Questa batte la rupe in forma di bianco fiocco e rimbalza, divisa in un nembo di spruzzi; quella si sparpaglia, disegnando una rete a maglie d’argento o cento tessuti diversi che di continuo si scompongono e si rifanno; quest’altra si lascia sdrucciolare, giù giù, lieve lieve, sulla roccia levigata, come un filo di bambagia. Grado grado scendendo, spinte ora a destra ora a sinistra, s’incontrano, si azzuffano, si accapigliano. Ma la cascata è una; e a vederla svolgersi e rimutarsi sul fondo nero o bigio di quella fantastica scalea, non si potrebbe paragonarla che a una gran chioma bianca, disciolta e agitata dal vento. Una nebbia leggera, a guisa di aureola perenne, si leva sull’abisso; e quando il sole dardeggia, lì’iride vi si posa tranquilla, immobile, vero simbolo di pace in tanta guerra.

Naturalmente dai tempi del buon abate Stoppani molte cose sono cambiate, in Va d’Ossola, in Piemonte e nell’Italia tutta; pure, il patrocinio naturalistico, archeologico, storico e artistico del nostro Paese è così immenso, pressoché inesauribile, che siamo ben lungi dall’averlo intaccato in maniera irreparabile, anche se abbiamo fatto del nostro meglio per rovinarlo, inquinarlo, lasciarlo andare in rovina con l’incuria e la cattiva amministrazione. È un patrimonio, pertanto, che dovremmo deciderci a valorizzare assai meglio: esso è il nostro petrolio, il nostro carbone e il nostro ferro, e non è ammissibile (a costo di tenere aperti i musei anche la notte) che sottoponiamo i turisti, venuti a visitarlo, a delle estenuanti file di ore ed ore per poter visitare la Basilica di San Marco a Venezia, o le Gallerie degli Uffizi a Firenze, o il Colosseo a Roma; e tanto meno che, dopo ore di attesa, si sbatta loro davanti un cartello con la scritta: Biglietteria chiusa per assemblea sindacale del personale, come talvolta accade; per non parlare della puntualità e dell’efficienza delle ferrovie, delle autostrade, dei traghetti, o della misera furberia di certi albergatori, o proprietari di ristoranti, o tassisti, i quali mirano a spennare senza pietà il turista sprovveduto, piuttosto che invogliarlo a ritornare nel nostro Paese con la buona qualità dei servizi offerti e con la ragionevolezza dei prezzi, che sono le migliori credenziali.

Ad ogni modo, se impareremo a fare un miglior uso del nostro Paese, prima di tutto per noi stessi, e poi anche per offrirne una degna immagine a quei milioni di stranieri che lo visitano ogni anno, potremo compiere realmente quel salto di qualità, a livello mondiale, di cui tutti i governi parlano, ma che nessuno di essi, finora, ha saputo compiere. Va da sé che, per offrire agli Italiani e agli straneri il meglio dell’Italia, bisogna che noi impariamo a rispettare noi stessi, ad essere noi stessi, a conoscere ed amare le nostre tradizioni, a tutelare il nostro patrimonio, a custodire gelosamente la nostra identità e la nostra specificità, a tutti i livelli, dal paesaggio alla cucina, dalla lingua al cinema, dalla scuola allo sport. E, pertanto, va da sé che dobbiamo porre assolutamente un argine alla continua invasione del nostro territorio da parte di masse d’immigrati della più varia provenienza, le quali pretendono d’insediarsi nel nostro territorio senza rispettarne le regole, senza volontà di integrarsi nei nostri usi e nelle nostre tradizioni, senza il leale proponimento di rispettare, amare, servire l’Italia come si rispetta, si ama e si serve la propria patria adottiva.

Ora, della nostra specifica identità fa parte il cristianesimo, che la cosa piaccia o non piaccia agli esponenti della cultura laicista e a tutti coloro i quali nutrono sentimenti accesamente anticattolici ed antireligiosi. Coloro i quali sognano un’Italia in cui non vi sia più alcuna significativa presenza della religione cattolica nella società, non si rendono conto di desiderare il suicidio della nostra stessa civiltà: perché, senza quell’elemento, tutto diverrebbe incomprensibile, non solo la Divina Commedia di Dante, o la pittura di Giotto, o il Duomo di Milano, o i Promessi Sposi di Manzoni, ma anche la più piccola borgata di provincia, il più umile edificio religioso, la più modesta tradizione rurale, e perfino moltissimi aspetti della odierna vita quotidiana, per non parlare dei valori morali sui quali si basa il nostro stesso vivere civile. Perciò, con buona pace di tutti i radical-chic e di tutti gl’intellettuali progressisti e neoilluministi, ai quali dà terribilmente fastidio il fatto che l’Italia sia, da duemila anni, la sede della Chiesa cattolica, pure bisogna riconoscere che, indipendentemente dai convincimenti religiosi di ciascuno, chi ama l’Italia non potrebbe neppure immaginarla staccata dalle sue antiche radici cristiane e cattoliche.

Solo se è se stesso, un Paese può offrire qualcosa di prezioso, che arricchisca i suoi abitanti e anche quanti vengono a visitarlo. E l’Italia, che è una sintesi e un compendio della intera civiltà mondiale, ha una missione speciale da svolgere nel consesso delle nazioni: quella di difendere l’umanità contro ogni forma di omologazione, impoverimento e diminuzione di ciò che è realmente umano…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Christian Lue su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
Hai notato degli errori in questo articolo?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.