
La vita è vocazione: cioè scegliere di essere quel che si è chiamati ad essere
2 Giugno 2016
Vogliono cambiare anche il Padre nostro perché vorrebbero cambiare il Vangelo
3 Giugno 2016Ci si lamenta del fatto che la nostra società si sta sfilacciando, si sta disgregando, si sta autodistruggendo; che gli adulti non sono più capaci di offrire ai bambini e ai giovani un modello di vita credibile, che hanno perso prestigio e autorevolezza; che ciascuno insegue i propri desideri e i propri comodi, o come oggi si usa dire, "i propri sogni", nella più totale indifferenza nei confronti di quel che gli altri pensano, sentono, credono, di quel che sperano, di ciò che legittimamente si aspetterebbero da lui; ma non si ha il fegato, o piuttosto la coerenza, di farsi un serio esame di coscienza ed una severa, ma giusta, autocritica.
Si dà la colpa del degrado sociale all’economia, alla finanza, alla politica, alla scuola, al terrorismo, alla cattiva informazione, alla droga, ai preti, alla criminalità diffusa, al cambiamento climatico, e Dio sa a quali altre cause; ma non si vuol vedere che tutto ha origine dalla guerra spietata che poteri nascosti e terribili, servendosi della imbecillità o della perversione dei cosiddetti intellettuali, sta conducendo ormai da tempo contro il fondamento stesso della società: la famiglia; la società essenziale, primaria, indispensabile, senza la quale nessun’altra società esisterebbe, nessun’altra società sarebbe possibile, credibile, desiderabile.
La famiglia — la famiglia naturale: formata da un uomo, una donna e dei bambini — è sotto attacco; e le recenti decisioni legislative dei principali Paesi occidentali, in fatto di equiparazione alla famiglia delle cosiddette unioni omosessuali, con la possibilità di adottare dei bambini, o di ottenerli mediante pratiche quali la fecondazione eterologa o l’utero in affitto, non sono che l’ultimo colpo, il colpo grazia, di una guerra che parte da lontano, che è stata accuratamente pianificata, e che non è stata riconosciuta per tempo da chi avrebbe dovuto capire quel che stava succedendo, correre ai ripari, mobilitare la parte sana della cultura e della società.
Tutto è cominciato con l’introduzione del matrimonio civile e, successivamente, con l’approvazione della legge sul divorzio. Il matrimonio civile riduce il matrimonio a un contratto come qualsiasi altro, basato sull’interesse e sulla convenienza; era perfettamente logico che, una volta sottratto il matrimonio alla sfera del sacro, una volta eliminata la presenza del divino, si introducesse la reversibilità di un tale contratto: qualora vengano meno le condizioni iniziali, perché non si dovrebbe poterlo rescindere, come qualunque altro? Una volta che venga a cadere l’ida che ci si sposa in tre: l’uomo, la donna e Dio, e la si sostituisce con la prassi di una unione a due, uomo e donna, senza alcuna giustizia superiore, senza alcun principio soprannaturale, senza la Grazia che infonde negli sposi la forza e la costanza per continuare ad amarsi e a rispettarsi in mezzo a qualsiasi difficoltà, è logico e inevitabile che si guardi al matrimonio come a una operazione puramente umana, limitata, contingente, il cui consenso può venire ritirato in qualsiasi momento. I casi sono due: o il matrimonio è un impegno che si prende, per la vita, davanti a Dio, oppure è un normalissimo contratto che si firma davanti al sindaco; nel primo caso ha un carattere sacro e indissolubile, come lo sono tutti gli altri sacramenti; nel secondo, è un atto profano, che non impegna per sempre, né sino in fondo. Impegna fino a dove arriva la buona volontà di ciascuno dei due contraenti; e, dove questa finisce, finisce anche il contratto.
Il cosiddetto matrimonio omosessuale non è che il logico coronamento di questa prospettiva. Una volta che il matrimonio sia degradato a contratto civile, effettivamente non si vede perché ciascuno non possa ritenersi libero di sposare chiunque: fosse pure il proprio cane, come ha fatto un ragazzo australiano di vent’anni, tale Joseph Guiso. I figli, poi; altro che benedizione: diventano un peso e un fastidio per le coppie che non ne vogliono avere; viceversa, un diritto da esigere e da riscuotere ad ogni costo, per quelle che assolutamente li vogliono. Anche a costo di ricorrere alla fecondazione eterologa o alla pratica dell’utero in affitto. L’aborto legalizzato rientra logicamente in questo quadro. Se tutte le relazioni umane sono basate sui diritti della persona, allora è chiaro che esiste non solo il diritto ad avere un figlio, ma anche quello di non averlo: vale a dire, di sopprimere l’embrione nell’utero materno. La stessa società che legalizza l’aborto, e che pratica migliaia e milioni di aborti, stabilisce che nessuno ha il diritto di negare ad alcuno il diritto d’essere genitore: né a una donna di sessant’anni, né a una persona con gravi disturbi psichici o con problemi di tossicodipendenza, né a una coppia omosessuale. Non fa una grinza: c’è una logica, eccome; la contraddizione è solo apparente, è solo per chi non condivide la premessa, l’assoluta priorità dei diritti rispetto ai doveri, agli impegni e alle responsabilità: cioè solo per chi rimane penosamente aggrappato a una concezione della vita ormai sorpassata e anacronistica.
La cosa più triste è vedere come una parte considerevole dei cosiddetti cattolici, e perfino del clero, non trovino in tutto questo nulla di particolarmente strano, nulla di moralmente riprovevole; eppure, si era capito da molto tempo che la tendenza era questa, non solo nella società profana, ma anche nella comunità cristiana. In Italia, l’approvazione della legge 898 sul divorzio, detta legge Fortuna-Baslini, da parte del parlamento, il 1° dicembre 1970, e la sua successiva conferma in seguito all’esito del referendum abrogativo del 12 maggio 1974, ha dimostrato come la pensavano non solo i laici, ma anche moltissimi cattolici. Non si spiega diversamente quel 59,3% di "no" contro il 40,7% di "sì", se non ammettendo che molti cattolici votarono come gli elettori dei partiti laici. Ancora più significativa è stata l’approvazione della legge 194 sull’interruzione volontaria della gravidanza, in Parlamento, il 22 maggio 1978, confermata dalla consultazione referendaria del 17 maggio 1981. In quel caso, i voti favorevoli all’abrogazione della legge furono appena il 14,88%, contro uno schiacciante 85,12% di "no".
Un osservatore un po’ distratto avrebbe potuto rimanere sorpreso, se non dal risultato, dalle percentuali: sarebbe stato più "logico", almeno in teoria, che, su una questione come quella dell’aborto, i cattolici si sentissero più vincolati dall’insegnamento della Chiesa, e soprattutto dalla loro stessa cultura e sensibilità, di quanto non avessero dimostrato all’epoca del referendum sul divorzio: perché interrompere volontariamente una gravidanza indesiderata, senza alcuna particolare motivazione di ordine medico, è certamente, da un punto di vista etico, una decisione più grave che non quella di rompere l’unione matrimoniale; qui non c’è in ballo solo un principio e uno stile di vita, ma la sopravvivenza del nascituro. Invece l’esito del referendum sull’aborto fu addirittura plebiscitario, mentre quello sul divorzio era stato tutt’altro che scontato, e la vittoria dei "no" era stata contenuta entro neppure una decina di punti percentuali di scarto. Questo avrebbe dovuto far riflettere; ma, a ben guardare, non si era trattato di un esito totalmente imprevedibile. Una volta che la diga sia stata incrinata, è anzi logico che il cedimento strutturale coinvolga sempre più la tenuta complessiva di essa; si tratta di rompere un tabù, di infrangere una regola, di smentire un magistero, quello della Chiesa — e ciò mentre le correnti cattoliche progressiste e moderniste seguitavano a parlare di sempre nuove mete da raggiungere, di sempre nuovi orizzonti da aprire, nello "spirito" del Concilio Vaticano II. Diciamo la verità: siamo certi che tutti i preti e i vescovi si siano impegnati a fondo, all’epoca del referendum abrogativo del 1974? O non hanno forse subito, molti di essi, la pressione della "base", che disapprovava la "rigidità" del Magistero (a dispetto della Humanae vitae di Paolo VI, del 1968), e il ricatto psicologico e culturale di poter essere giudicati retrogradi e oscurantisti, impregnati di clericalismo, non abbastanza emancipati e "laici", al punto da voler mettere i bastoni fra le ruote della volontà del popolo sovrano? Ebbene, il referendum sul divorzio fu la premessa di quello sull’aborto: fu la breccia che incrina la solidità della diga e ne prepara il crollo totale. Tutto quel che è accaduto in seguito, e che sta accadendo ora, sotto i nostri occhi, non è che l’ulteriore svolgimento logico di quelle premesse. E lo è anche l’approvazione delle unioni di fatto equiparate al matrimonio; anche la legalizzazione delle unioni omosessuali; anche — in un domani ormai non lontano — la liberalizzazione della fecondazione eterologa per le coppie lesbiche e dell’utero in affitto a vantaggio delle coppie di omosessuali maschi, oltre che per le coppie eterosessuali che non possono aver figli, ma non intendono avviare le pratiche per ottenere l’adozione, poiché vogliono un figlio che sia proprio tutto "loro", come un bel giocattolo privato.
Divorzio e aborto sono stati due colpi mortali inferti alla famiglia: il primo ha ufficializzato l’idea che il matrimonio è solo un contratto di tipo commerciale, basato sulla convenienza e destinato a durare fin che se ne abbia voglia, e non un giorno di più; il secondo, ha ufficializzato l’idea che i figli non sono un dono che qualcuno fa ai genitori (Dio, per il credente; la natura, per gli altri), ma un diritto, che si può accettare o rifiutare: nel secondo caso, scatta automaticamente il diritto a sopprimere il nascituro, purché ciò avvenga entro un termine di tempo stabilito per legge. È lo Stato che decide fino a quante settimane il feto è solo una "cosa" inerte e priva di diritti, a cominciare dal più fondamentale di tutti, il diritto alla vita; e dopo quante settimane, invece, quella "cosa" diventa un "individuo", a sua volta tutelato dalla legge. È lo Stato che stabilisce la differenza fra una normale pratica "sanitaria" e un assassinio: e lo fa guardando il calendario e contando il numero dei giorni da che l’embrione si è formato.
Il fatto che i cattolici non parlino nemmeno più della cosa; che i politici cattolici non sollevino mai la questione, né in Parlamento, né fuori; che gli intellettuali cattolici lo ricordino assai di rado, e sempre con i toni bassi e timidi di chi teme di scocciare e infastidire il prossimo, e non si sente troppo sicuro del suo buon diritto ad alzare la voce: tutto questo la dice lunga su fino a che punto essi abbiano subito il condizionamento della cultura laicista, materialista, edonista e radicale. Non osano più dire apertamente come la pensano, non osano esprimere il loro dissenso; e non è lontano il momento in cui il Parlamento voterà una legge per sanzionare i medici e le infermiere che ricorrono all’istituto giuridico dell’obiezione di coscienza, per "interruzione di servizio pubblico", con grave danno della salute del paziente. Rischieranno una multa, o una ritorsione professionale; rischieranno di perdere il posto di lavoro. Ma i cattolici, in politica e fuori della politica, hanno altro a cui pensare. Si preoccupano di mille cose: dei diritti dei "profughi" (pur sapendo benissimo che neanche il 10% degli immigrati clandestini sono tali), delle donne prete, della comunione ai divorziati e ai risposati, delle coppie omosessuali, del loro desiderio di maternità e paternità tramite le adozioni; si commuovono per il degrado dell’ambiente, per i progressi dell’inquinamento, per i diritti degli animali (tutte cose importanti, beninteso, queste ultime; ma, forse, non altrettanto importanti), e tacciono ormai del tutto sull’aborto. Anche se le cifre delle donne che vi fanno ricorso sono sempre altissime, a dispetto delle previsioni e delle promesse degli abortisti, i quali, negli anni Settanta del secolo scorso, preconizzavano una rapida scomparsa del fenomeno, una volta che fosse stata eliminata la piaga degli aborti clandestini.
Ma tutto, ripetiamo, è cominciato col divorzio. Gesù, interrogato su questo punto – e interrogato in mala fede, dai soliti rabbini e farisei che speravano di coglierlo in fallo, come già avevano fatto chiedendogli di esprimersi a proposito del tributo a Cesare — aveva risposto: l’uomo non separi ciò che Dio ha unito. E aveva scontentato tutti: sia quelli che, in base alla legge mosaica, speravano di rendere il divorzio più facile, sia quelli che speravano di restringerne la pratica. Ma Gesù si espresse contro il divorzio, sempre e in qualsiasi caso: l’uomo e la donna, una volta uniti in matrimonio, diventano una carne sola. Questo precetto può piacere o non piacere, ma, per un vero cattolico, è logico e assolutamente vincolante; non ammette deroghe, né furberie da quattro soldi, come l’appellarsi al tribunale della Sacra Rota per far annullare un matrimonio che era stato, in moltissimi casi, perfettamente valido sotto ogni punto di vista. Certo, sappiamo bene che l’indissolubilità del matrimonio suscita una certa soggezione, un certo timore, anche fra i credenti; così come sappiamo che vi sono sposi messi duramente alla prova dalle vicende del loro matrimonio. Essi, però, si sono giurati reciproca fedeltà e unione per tutta la vita, e l’hanno fatto davanti a Dio: e un cristiano serio non tenta di prendere in giro Dio. Non lo sfiora nemmeno il pensiero. A Dio, non la si fa.
D’altra parte, una volta che la legge abbia equiparato una unione di fatto all’unione matrimoniale sacra e indissolubile, è evidente che molti giovani si domandano perché mai dovrebbero prendersi, a parità di diritti, anche un dovere così oneroso, come quello dell’indissolubilità. Però, se si fanno questa domanda, significa che hanno già subito il contagio del mondo: e che non sono più cristiani…
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