
Semplicemente moglie: figura basilare per la famiglia e la società
19 Maggio 2016
La Chiesa deve dialogare con il mondo moderno?
21 Maggio 2016Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te. Non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi servi. Come il figlio prodigo, anche l’uomo contemporaneo, quando si sarà stancato di mangiare ghiande come i porci, una buona volta deciderà di rimettersi in cammino e tornare da suo Padre, che lo aspetta con il cuore trepidante, e presso il quale troverà tutto quello di cui ha bisogno per vivere una vita felice. Oppure seguiterà a mangiare le ghiande, rubandole ai porci di cui si è fatto custode, e finirà per morire di fame, perché i padroni del branco non gli danno neppure quelle, né si commuovono se la fame gli strazia i visceri.
C’è tuttavia una cosa che lo trattiene, che gli impedisce di rinsavire, anche se, nei rari momenti di lucidità, egli intuisce lo squallore della condizione in cui è precipitato, e rimpiange il tempo in cui viveva nella casa paterna, provvisto di tutto il necessario e circondato dall’affetto del genitore. Lo trattiene la cultura degli ultimi tre secoli, la quale, come un diabolico crescendo, non ha fatto altro che esprimere una ribellione sempre più acre, sempre più astiosa, sempre più violenta, contro la figura del padre, descritta come quella di un oppressore, di un nemico, di un tiranno disumano; e, più ancora, il fatto che la cultura moderna ha costruito se stessa, pezzo dopo pezzo, esaltando illimitatamente l’individualismo, il far da sé, il rifiuto delle radici, e la bellezza dell’andare avanti senza curarsi di nessuno e senza riconoscere o contrarre debiti nei confronti di alcuno. Tale è, per definizione, la cultura progressista: il Progresso non fa sconti, non si volge mai indietro, non rispetta la tradizione, non sa che farsene dei vecchi (pardon, quale mancanza di delicatezza; volevamo dire: degli anziani) e della loro saggezza; esso punta tutte le sue carte sulla gioventù, sul domani, sul futuro, quali che siano, dando per acquisito che il futuro è, per definizione, cosa migliore del passato, che il nuovo è sempre e comunque preferibile al vecchio, e che i giovani non hanno niente da imparare dai vecchi, anzi, tutto da dimenticare.
Da Freud in poi, del resto, la rivolta contro il padre è entrata di diritto nella sedicente scienza psicanalitica; così come, pochi decenni innanzi, la morte di Dio era entrata, grazie al pensiero di Nietzsche, nel quadro complessivo e imprescindibile della filosofia moderna, come uno di quei dati di fatto che possono piacere o non piacere, ma rispetto ai quali non è possibile, nemmeno volendolo, tornare indietro. Niente più Dio: ed ecco stuoli di volonterosi "teologi" a smantellare, un mattone alla volta, l’intero edificio della teologia; via i miracoli, ridotti a simboli; via il soprannaturale, ridotto a mito; via il bene e il male, ridotti a valori contingenti e storicamente mutevoli; via la Resurrezione, ridotta a semplice ipotesi, peraltro azzardata; via il culto mariano, ridotto a superstizione; via la stessa divinità di Gesù, ridotta a metafora; e via, per finire, Dio in se stesso, perché l’uomo deve fare come se Lui non ci fosse ed è proprio Lui, in ultima analisi, che vuole così, per vedere se siamo cresciuti abbastanza e se siamo diventati adulti. E, allo stesso modo, niente più padre: ed ecco stuoli di "psicologi" spiegarci che dobbiamo oltrepassare il complesso di Edipo, che dobbiamo, appunto, dimostrare di esser cresciuti, di saper camminare con le nostre gambe, di non aver bisogno di attaccarci ai pantaloni del babbo (o alle gonne della mamma); insomma, che non siamo più dei bambocci viziati e tremebondi, ma esseri capaci di prendere in mano il proprio destino e di vivere la propria vita, così come noi stessi vogliamo determinarla, in piena libertà e senza farci ricattare dai vecchi e superati discorsi sul dovere, sul sacrificio, sul peccato, che ci sono stati rifilati al preciso scopo di perpetuare la nostra sottomissione.
Scriveva il teologo Giacomo Panteghini nel saggio Il ritorno ai Padri in una società "senza padre" (nella rivista teologica Credere oggi, Padova, Edizioni del Messaggero, n. 3 del 1984, pp. 96-98):
Che cosa può significare il ritorno ai Padri [della Chiesa] in una società che vede in crisi la figura del padre? […] Il senso della domanda a prima vista può apparire retorico. La risposta che sembra suggerire è che si tratta di una reazione al processo di dissolvimento in atto nella società occidentale, di un ricupero della figura paterna e di tutto ciò che vi è connesso (autorità, tradizione, saggezza, ordine, disciplina, ecc.). La risposta che una più attenta considerazione del fenomeno invece ci porterà a dare è di ben altro genere. Il ritorno ai padri nella storia della chiesa ha normalmente caratterizzato le epoche non della conservazione ma del rinnovamento. Non si tratta quindi di un sintomo di "riflusso", ma del ricupero dello slancio giovanile che ha caratterizzato l’era dei Padri. […] Ai nostri giorni non è possibile comprendere il significato profondo di questo ritorno senza tener presente il contesto socio-culturale che sembra dare l’ostracismo alla figura del padre. Stiamo veramente avviandoci verso una società senza padre, come un’abbondante letteratura degli ultimi vent’anni sostiene, oppure non si è trattato che di una breve parentesi "anarchica" già conclusa, come un certo "revival" autoritario e conservatore sembra dimostrare. Probabilmente quello che è morto non è il padre ma una sua immagine, che è antistorico voler a tutti i costi restaurare. In questione oggi non è tanto la paternità biologica o psicologica (come situazione affettiva), ma la paternità simbolica, cioè l’immagine che la società e la cultura del passatoi hanno elaborato della paternità come simbolo e strumento di conservazione di un certo ordine, basato sul potere, in una struttura patriarcale. Si è osservato che, mentre la maternità è un dato di ordine prevalentemente naturale, la paternità si configura come un fatto prevalentemente culturale. E proprio perché definita "simbolicamente" dalla cultura e dalla società, la paternità è soggetta alle trasformazioni stesse della società e della cultura. Questo spiega come mai oggi essa sia contestata come sintomo di un assetto sociale in via di dissolvimento, di una cultura permeata di maschilismo (da qui la contestazione femminista), di sessismo, di autoritarismo, con sbocchi razzisti, militaristi, colonialisti. La figura paterna avrebbe avuto una sua utile funzione nella costruzione della società di ieri ma sarebbe oggi superata dall’evoluzione stessa della società, avviata verso un nuovo assetto che on poggia più sulla proprietà schiavista o borghese ma sulla capacità del singolo o dei gruppi di progettare il futuro servendosi delle nuove tecnologie (Adorno). Il tramonto della società basata sul padre, sull’impresa familiare e privata fa sì che l’autorità del padre come trasmettitore di ricchezza, di potere, di esperienza, sia sempre minore. Il padre avrà sempre meno da offrire (già oggi il figlio "istruito" supera facilmente le conoscenze del padre) e quindi anche da proibire (Fromm).
Le democrazie moderne aspirano ad un modello di società in cui il rapporto con l’altro è vissuto attraverso il simbolo della fraternità e non attraverso quello della paternità. In questo convergono le opposte ideologie borghese e marxista che hanno in comune l’utopia di una società fraterna.
La contestazione del padre, anche se solo ai nostri giorni ha raggiunto le masse, fermenta da oltre due millenni la cultura occidentale. Il mito del figlio ribelle che detronizza il padre tiranno non un’invenzione di Freud ("Totem e Tabù"): si pensi al mito di Prometeo che sottrae agli dei gelosi il fuoco (potere), eroe di una letteratura che da Esiodo a Platone, da Eschilo a Calderon de la Barca, da Goethe a Gide esalta in lui l’uomo stesso anelante alla propria autonomia. È poi a tutti noto il bisogno dell’adolescente di contestare l’autorità di cui il padre è simbolo. Si sa — anche se non se ne traggono le debite conclusioni — che a questa età si tende a perdere una fede religiosa troppo legata a modelli autoritari-paternalistici; fatto che spesso purtroppo fa della cresima — che dovrebbe essere il sacramento d’investitura della maturità cristiana — la cerimonia di commiato dalla pratica religiosa. Queste constatazioni inducono a pensare che in crisi non sia il padre in se stesso ma una sua immagine culturale "disumanizzante", il padre cioè che impedisce al figlio di maturare, di progredire, di crescere, in altre parole il padre-padrone. Questa immagine del padre è destinata a scomparire con la società di cui era simbolo e strumento di conservazione (Horkheimer).
Questo è un esempio quasi perfetto di quella teologia postconciliare progressista, modernista, buonista, sinistrorsa, demagogica, che infesta le facoltà teologiche e, attraverso di esse, la pastorale e la cultura cattolica nel suo complesso, con i suoi luoghi comuni spacciati per profonde verità, con le sue banalizzazioni di problemi complessi spacciate per ottimismo cristiano. Il cristiano non ha il dovere dell’ottimismo, quanto alle cose del mondo: il suo ottimismo è di tipo escatologico, non riguarda questa vita, ma l’altra; non questo mondo, ma il Regno di Dio, del quale, nella dimensione terrena, è possibile vedere solo una pallida anticipazione.
Dopo essersi premurato di chiarire che il "ritorno" ai Padri non deve essere inteso come un "riflusso" (neologismo creato dagli intellettuali progressisti negli anni ’70 per designare il volto becero della reazione), e dopo aver deprecato (ulteriore giaculatoria progressista) un certo qual "revival" autoritario e conservatore, egli dice di non rimpiangere la scomparsa di una certa figura di padre, autoritaria e patriarcale, adatta per altre epoche storiche, quella schiavista e quella borghese (accostamento tipico degli intellettuali marxisti), ma oggi superata e non più proponibile: la figura del padre che ostacola la crescita dei figli, che non vuole lasciarli diventare autonomi, insomma il padre-padrone. Che scompaia una tale figura paterna, è non solamente logico, dato il cambiamento della struttura socio-culturale (dove i padri non hanno più niente da dare ai figli; ma, ci permettiamo di chiedere, è proprio vero?), ma auspicabile e benefico. E via citando Freud e poi Adorno, Horkheimer, Fromm e tutta la compagnia bella della Scuola francofortese; ma non citando, guarda caso, nemmeno uno dei Padri della cui autorità si stava parlando: né Cipriano, né Ambrogio, né Atanasio, né Agostino, né Girolamo: nessuno. E allora lasciamo questi teologi cattolici progressisti nel loro brodo semi-marxista, che non hanno neanche la franchezza di riconoscere; lasciamoli, anche ai nostri giorni, rimestare fra le ceneri di un gigantesco abbaglio storico, del quale non hanno mai fatto ammenda e per il quale non hanno mai domandato scusa. Lasciamoli contrabbandare la svendita della vera teologia cattolica con una zuccherosa "apertura" verso" il mondo moderno, e seguitare a seminar confusione e turbamento fra le anime dei credenti, loro che, in teoria, dovrebbero aiutare il credente a credere sempre di più. Lasciamo gli Enzo Bianchi blaterare a sproposito sul "vero" spirito del Vangelo; lasciamo i Federico Lombardi tessere l’ammirato e compunto elogio funebre del nobile Marco Pannella, la cui massima benemerenza è quella d’essere stato un grande ammiratore di papa Bergoglio (e tacendo il trascurabile dettaglio che egli è stato il capofila dell’esercito diabolico che ha fatto passare in Parlamento, e, quel che è peggio, nella sensibilità morale degli Italiani, il divorzio, l’aborto, la droga, l’eutanasia e le nozze omosessuali).
Quanto a noi, abbiamo visto e toccato con mano che la rivolta della cultura moderna contro il padre non è affatto, come vorrebbero codesti teologi buonisti, la rivolta contro la figura paterna autoritaria e repressiva: perché, da che mondo è mondo, è il figlio che deve dimostrare a suo padre, con i fatti, d’essere divenuto adulto e di saper camminare da sé. Non è il padre che non lo lascia crescere, è il figlio che si rifiuta di crescere e che si costruisce l’alibi della durezza e dell’autoritarismo paterni, con Freud che gli ha fabbricato persino una sorta di attenuante per legittima difesa nelle sue velleità parricide: il "complesso di castrazione". E quale corte di tribunale oserebbe condannare un figlio che ha ucciso suo padre, perché questi voleva castrarlo? Dostoevskij, che aveva capito cento cose più di tutti i Freud, i Fromm e gli Adorno messi insieme, ha dedicato al parricidio il suo capolavoro, I fratelli Karamazov: un libro nel quale si trovano più verità sulla condizione dell’uomo moderno e sul "dramma" dei figli complessati e ribelli, che in diecimila trattati di (sedicente) psicologia.
Nossignori: non è il padre-padrone che l’uomo moderno vuole ammazzare (e dove si troverebbe, ormai, un siffatto padre-padrone? Se quei tali signori progressisti hanno appena finito di spiegarci che il padre, oggi, non ha più nulla da offrire ai figli!), ma proprio il padre in quanto tale: per invidia, per rancore, per odio irragionevole. Lo vorrebbe disonorare, flagellare, crocifiggere, così come i Giudei fecero con Cristo. Lo vorrebbe seppellire (e fare la guardia al sepolcro, per esser certi che non ne esca mai più), cancellare, dimenticare. Un figlio sano si costruisce la sua vita, va per la sua strada: non sente il bisogno d’affermarsi con l’assassinio di suo padre. Ma l’uomo moderno è malato, ed è causa della sua stessa malattia. Ecco perché non si salverà, se non tornando al Padre…
Fonte dell'immagine in evidenza: RAI