
Cristo Re: una sfida aperta a tutte le idee-cardine della modernità
15 Aprile 2016
Perdere Dio, perdere la carità
17 Aprile 2016Si discute, furiosamente ormai, sulle foto di Doina Matei, la ragazza romena che, il 26 aprile 2007, nella metropolitana di Roma, si scagliò contro una ragazza di 23 anni, al culmine d’una lite banale, che non si saprà mai come e perché fosse iniziata, trafiggendole l’occhio con la punta dell’ombrello, e recidendole un’arteria cerebrale. Trasportata in ospedale, Vanessa morì il giorno dopo, senza aver ripreso conoscenza. Doina, che all’epoca, di anni ne aveva 21, ed era già stata madre due volte, rispettivamente a 14 e a 17, tentò di fuggire e lasciò Roma, ma venne identificata grazie alle immagini delle videocamere e arrestata a Tolentino, nelle Marche; al processo, venne condannata a 16 anni di carcere per omicidio preterintenzionale, aggravato dai futili motivi. Dopo aver scontato metà della pena, come previsto dalla legge, avendo tenuto in carcere una buona condotta, ha incominciato a usufruire del regime di semilibertà: di giorno andava a lavorare, e la sera tornava a dormire presso il carcere femminile della Giudecca, a Venezia. Inoltre, sempre in base ai benefici previsti per legge nei confronti di chi possiede i requisiti (buona condotta e metà della pena già scontata), passava anche alcune notti in libertà.
Tutto questo è finito nella seconda settimana di aprile 2016, quando il giudice del tribunale di sorveglianza, Vincenzo Semeraro, ha saputo che, sul suo profilo Facebook, Doina aveva postato alcune foto nelle quali si mostra gioiosa, sorridente, in atteggiamenti di esultanza per la libertà ritrovata; in una è ritratta in bikini, al mare, come una qualsiasi bagnante che si gode una gita o una vacanza; foto che sono state "scoperte" dai giornali e subito pubblicate sulla stampa, scatenando un autentico polverone mediatico e suscitando l’indignazione dei familiari di Vanessa Russo. Il giudice ha pertanto deciso di sospendere immediatamente i benefici della semilibertà e di far tornare senz’altro Doina in carcere. Ma gli avvocati difensori non ci stanno: dicono che il divieto di postare le proprie foto su Facebook, nella sentenza, non c’era; e che pertanto di tratta d’un abuso evidente, cui verrà posto rimedio quanto prima. Il padre di Vanessa, invece, si è lasciato andare a un amaro sfogo: tutta la comprensione delle istituzioni è andata all’assassina, non alla vittima; lui, dopo la tragedia, ha perso il lavoro, mentre sua moglie ha tentato il suicidio; a lei, Doina, un lavoro l’hanno trovato subito, prima ancora che avesse scontato la sua pena.
Come sempre, gli intellettuali engagées si sono divisi equamente (o quasi equamente) nei due soliti e scontatissimi schieramenti, difensivo e offensivo. Per gli uni, quelli della rive gauche, quelle foto erano innocenti e non contenevano alcuna allusione offensiva; e Doina è solo una povera ragazza che si sta ricostruendo una vita, dopo aver duramente pagato il suo errore, mentre l’Italia becera, razzista, sessista, si è scatenata contro di lei, con l’istinto belluino d’una belva assetata di sangue. Per gli altri, quelli della rive droite, la ragazza romena ha voluto irridere il dolore dei familiari della sua vittima, e ha mostrato di non aver capito nulla della gravità del suo delitto, di non aver maturato alcun vero pentimento, di essere indegna di qualunque comprensione. È persino superfluo fare i nomi dei giornali e dei giornalisti pro e contro (ma almeno uno lo vogliamo fare: quello di Luigi Manconi, senatore Pd e storico paladino dei diritti civili: immaginate da che parte s’è schierato); in Italia, davanti a un fatto del genere, si ricostituiscono immediatamente i due partiti, dei buonisti e dei colpevolisti, che sono, sì, in parte, partiti trasversali, ma nei quali, comunque, si può ancora riconoscere ciò che, in quasi ogni altro ambito, e — paradossalmente – proprio in quello politico, non si riconosce più: una identità ideologica, una chiara matrice di sinistra o di destra.
Perché destra e sinistra sono pressoché scomparse quando si parla dei "vecchi" temi, il lavoro, le tasse, le opere pubbliche, le riforme istituzionali, la scuola, i servizi, la politica internazionale; sovente si scambiamo i ruoli, in un gioco caleidoscopico di aggregazione e scomposizione, qualcosa che ha del fantastico, del surreale: ma quando si parla dei temi etici, dei diritti umani e della giustizia, ecco che le passioni si scaldano nelle vene ormai quasi fredde dei vecchi e dei giovani leoni dell’arena mediatica; le polemiche a distanza fra giornalisti arrivano al calor bianco, i politici rimontano in sella ai loro ronzini, fingendo che siamo dei nobili destrieri, e, calato il cimiero sulla fronte, partono a lancia in resta, come negli antichi tornei, per affermare o per negare – in nome dei valori e del senso di giustizia del popolo sovrano – il diritto d’una ragazza, come Doina Matei, a postare la sua foto, sorridente e in bikini, sulla riva del Lido di Venezia.
È imbarazzante dir la nostra in questa zuffa scomposta e indecorosa, dove ciascuno tenta di cavalcare dei (nobili) sentimenti, delle emozioni, degli indici di gradimento, per portare avanti la sua battaglia, che è poi la conquista di voti o di consensi; la diffusione del proprio giornale come vindice bandiera di questo o quel paradigma etico e culturale; il raggiungimento di una appagante visibilità mediatica, speculando su una doppia tragedia: quella della vittima (e dei suoi familiari) e quella del carnefice, che, comunque, sta ancora scontando la pena, e pagando il suo debito alla società. È imbarazzante entrare nella rissa e aggiungere un’altra opinione a quelle già ampiamente sbandierate, dall’uno e dall’altro schieramento, in quel tristo sport nazionale che consiste nello sparare a freddo sui sentimenti vivi della gente, nel riaprire le ferite mediante i salotti televisivi, nel mostrare la saggezza di Solone e la prudenza di re Salomone quando si tratta, in realtà, di strappare un po’ di audience, sfruttando le piaghe ancora sanguinanti di chi ha sofferto e di chi soffre, di rigirare il coltello nella piaga, di versar lacrime di coccodrillo o di stracciarsi le vesti, come fece Caifa nel Sinedrio, davanti allo spettacolo dell’altrui malvagità o scostumatezza.
Nondimeno, proprio la volgarità e la pretestuosità con la quale molti, troppi, hanno sfruttato il caso, lanciandosi in discorsi infuocati, viscerali, sovente impregnati di cinica demagogia (col Manifesto che non sa rinunciare, neppure questa volta, ai suoi vecchi e stravecchi giochi di parole, fin dai titoli di testa), ci spingono a tentare qualche riflessione che prescinda, se possibile, da pregiudizi ideologici e da partiti precostituiti, ma basata unicamente sul sentire umano, sul ragionare umano, e sull’umano buon senso. Non perché crediamo di avere, noi soli, la verità in tasca; ma per tracciare uno schema di come sarebbe opportuno procedere, allorché si tratta di riflettere su un fatto come quello delle foto che Doina ha postato su Facebook, non limitandosi ad assolvere o condannare, visceralmente, il fatto in sé e per sé, ma inserendolo in un’ottica più vasta, entro un orizzonte di senso (o di non senso) a trecentosessanta gradi, cioè collocandolo nel suo valore esemplare e universale: qualcosa che parla anche a noi, che ammonisce noi tutti, che riguarda, eccome, ciascun essere umano, indipendentemente dalle sue opinioni astratte sugli immigrati, sulla giustizia, sulla pena, sull’espiazione, sulla giusta condotta da tenere di fronte alla società.
La prima cosa che ci sembra evidente è l’assoluta, rocciosa, incorreggibile inconsapevolezza di cui Doina ha dato prova. In una società normale, non dovrebbe esserci alcun bisogno di spiegarle in che cosa abbia mancato, postando quelle foto. Pare che il suo primo commento, davanti alla revoca della semilibertà, sia stato: «Mi dispiace moltissimo, non credevo di far nulla di male». Il problema è proprio questo: che non credeva di far nulla di male; cioè, appunto, la totale inconsapevolezza. Aggiungiamo subito che questo problema, la perdita della prospettiva etica dei propri atti, anche di quelli apparentemente più banali, non riguarda certo lei sola, ma una intera generazione di giovani, cresciuta nell’era dei social network imperanti e spadroneggianti ovunque; e, se vogliamo essere onesti, non dei giovani soltanto, ma anche di moltissimi adulti, o che dovrebbero esser tali in base all’anagrafe. È storia d’ogni giorno: ragazzini, ma anche persone mature, postano su Facebook fotografie inopportune, volgari, minacciose, irridenti, impudiche, ricattatorie, a volte aventi una rilevanza penale: il tutto con la massima irresponsabilità e la più disarmante incoscienza. Non si ha più la sensazione del bene e del male, del bello e del brutto, del giusto e dell’ingiusto, nell’uso dei social network. La nostra è una generazione di analfabeti informatici, che pure stanno tutto il giorno sul computer o sullo smartphone. Dunque, oltre che analfabeti, sono anche dei cretini.
La seconda cosa da osservare è che Doina non è una qualunque, in questo esercito di analfabeti e di cretini telematici: è un’assassina, che ha ucciso per futili motivi e con somma crudeltà, una sua coetanea, spezzando la sua vita nel fiore degli anni. Certo, anche la vita di Doina era nel fiore dell’età, all’epoca dell’omicidio; ed era già una vita allo sbando, con due gravidanza precocissime, fatte chissà con chi, e con tanta rabbia in corpo, pronta a erompere alla prima occasione. E, qui, i buonisti alla Manconi hanno versato fiumi di lacrime per sottolineare l’infanzia e l’adolescenza difficili di questa donna, il suo sbandamento, la sua mancanza di modelli di riferimento postivi: tutto vero, ma a senso unico, perché l’infanzia difficile non attenua la gravità del fatto. Ci sono milioni di persone che hanno avuto una vita difficile, anche più di lei, e non hanno infilato la punta di un ombrello nell’occhio del prossimo: questo è l’elemento centrale, dal quale non si può prescindere. Chi compie un gesto così, e sia pure nel calore di una concitata discussione, è socialmente pericolosissimo: ci chiediamo se sedici anni di prigione siano una pena adeguata. E ci domandiamo anche se sia normale che la legge preveda, automaticamente, che chi tiene una "buona condotta" in carcere (ma che cosa vuol dire? che non tenta la fuga, che non spaccia droga, che non minaccia gli altri detenuti col coltello?), possa usufruire della semilibertà dopo aver scontato metà della sua pena. Ci domandiamo anche se sia normale che a quella ragazza abbiano trovato subito un lavoro per reinserirla, per riabilitarla, per darle un’altra chance (tutte cose, in sé, bellissime, intendiamoci); ma che altrettanta sollecitudine si veda ben di rado allorché si tratta delle vittime, o dei loro familiari, come, appunto, nel caso specifico; o ancora, più semplicemente, quando si tratta di bravi cittadini – non importa se italiani o di origine straniera — i quali non hanno mai minacciato o offeso alcuno, non hanno mai dato problemi alla giustizia, non hanno mai danneggiato il patrimonio. Per le brave persone non si vede tanta compassione e tanto ardore di aiutarle, se si trovano in difficoltà, quanti se ne vedono per le persone cattive, che hanno fatto del male. Sarà perché la nuova religione degli Italiani, ufficialmente riconosciuta dallo Stato e benedetta dalla Chiesa stessa, è diventata il buonismo? Ma queste considerazioni non riguardano né Doina, né quelli come lei, che si sono macchiati le mani di sangue, per giunta per motivi banalissimi: riguardano il senso della giustizia come istituzione, e anche come codice morale collettivo.
La terza cosa è che l’incoscienza, il narcisismo, l’esibizionismo, diffusi dai social network, e specialmente da Facebook, la smania di apparire, di essere visti, di essere ammirati, magari di andare in televisione a fare un provino per un reality show, stanno dilagando con la rapidità e la diffusione capillare di una vera e propria pestilenza. Siamo ormai, quasi tutti, degli appestati: ci portiamo addosso il bacillo di un male oscuro, irragionevole, brutto a vedersi, anzi, orrido, ma ciascuno di noi lo percepisce come bello. Non passerà molto, e vedremo il Tizio o il Caio di turno postare su Facebook i propri escrementi (gli organi sessuali, lo fanno già). Il rimbecillimento informatico è tale che nessuno percepisce più la laidezza, la volgarità, la desolazione estetica e morale di questo continuo mostrarsi e voler apparire, anche in situazioni meno drammatiche di quelle che accompagnavano la vita di Doina. Mamme incinte che esibiscono il pancione scoperto, fidanzati che esibiscono le loro effusioni, omosessuali che ostentano le loro preferenze, vigliacchetti i quali, forti dell’anonimato, trinciano sentenze, sparano offese, distribuiscono insulti, pernacchie, cattiverie a destra e a manca. Che trista umanità: che umanità di pigmei. Al tempo stesso, il narcisismo e l’esibizionismo si accompagnano alla scomparsa del senso del peccato, del male, della colpa: subito dopo aver compiuto atti moralmente gravissimi, molte persone si lavano le mani, si cambiano il vestito e vanno al bar, dagli amici, o dalla fidanzata, a far l’amore. Sono scomparsi, o stanno sparendo, la percezione del delitto e la necessità dell’espiazione. Quando vengono arrestati e ammanettati, sempre più spesso, spacciatori, ladri, malversatori, mafiosi, assassini, si stupiscono e manca poco che si offendano: ma come si permette, la giustizia, di metter loro le mani addosso? Un ragazzino, sull’autobus, prende a pugni un uomo che potrebbe essere suo nonno, lo manda all’ospedale; poi se ne va tranquillo, torna a casa come niente fosse. Rintracciato, arrestato, si meraviglia: «Ma che ho fatto di così grave?». E i familiari, questa è la tragedia, non di rado lo difendono: «Ma sì, poverino, che ha fatto di male? È solo un ragazzo, un bravo ragazzo: non avete di meglio da fare, che pigliarvela con uno come lui? Non ci sono i veri delinquenti, da arrestare?…».
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