
Quella ferita immedicabile che ha spinto tante anime fuori dalla Chiesa
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14 Aprile 2016È merito del saggista Roberto Manfredini, che già si era occupato, in modo non convenzionale, della spiritualità "oscura" di Hetty Hillesum, se si torna a parlare di un filosofo ebreo del Novecento che ha seminato molta confusione e che ha prodotto un certo danno all’interno del cristianesimo, offrendo una interpretazione originale del pensiero paolino, ma radicalmente distorta e affetta dalla malattia tipica dei sociologi, il relativismo: Jacob Taubes (nato a Vienna il 25 febbraio 1923 e morto a Berlino il 21 marzo 1987), che ha sfruttato, per diffondere le sue improbabili teorie, le migliori cattedre universitarie sparse per il mondo — o, almeno, le più affollate e prestigiose.
Taubes ha avuto modo di spendere (male) la sua fama internazionale di pensatore, sociologo, rabbino e studioso delle religioni, attraverso le aule della Università Ebraica di Gerusalemme, dell’Università Libera di Berlino, della Maison des Sciences de l’Homme di Parigi, nonché delle università statunitensi di Harvard, Princeton e Columbia; non sono molti gli intellettuali del XX secolo che hanno avuto a disposizione i microfoni di così tanti pulpiti, e che hanno avuto la possibilità di influenzare il pensiero di un così vasto pubblico di studenti, in tre diversi continenti. Ma non portava fortuna a coloro che gli stavano vicino: la sua prima moglie si suicidò e lui stesso fu afflitto da gravi problemi psichici di tipo maniaco-depressivo.
La sua vita si è incrociata con quella di molti personaggi famosi del suo tempo. Aveva frequentato le lezioni di Hans Urs von Balthasar e Karl Barth; ascoltato quelle di Leo Strauss; conosciito Hannah Arendt e Paul Tillich; era stato amico di Gersholm Scholem e di Herbert Marcuse; e aveva avuto a che fare, indirettamente, con Ernst Jünger e Martin Heidegger, in quanto amico di Armin Mohler, segretario del primo, e marito (in seconde nozze) d’una allieva del secondo, Margherita von Brentano. Per finire, aveva avuto una relazione con la poetessa e scrittrice austriaca Ingeborg Bachmann (1926-1973), una delle icone della cultura femminista nei Paesi di lingua tedesca. Insomma lo si incontra dappertutto, si va a inciampare nel suo nome quasi ad ogni incrocio, ad ogni svolta del secolo trascorso: la sua presenza è ovunque, ora esplicita, ora elusiva (ed allusiva), quasi inafferrabile, come un vizio del quale non si può fare a meno.
Sì: è difficile provare simpatia per un simile intellettuale, che ha interpretato pienamente il ruolo di demolitore delle altrui certezze, invero sin troppo facile nell’epoca del relativismo imperante e dello scetticismo eretto a nuovo criterio di realtà; che ha mietuto consensi a buon mercato non per aver delineato un orizzonte di senso nello sviluppo della cultura europea, ma per aver, semplicemente, capovolto la teologia cristiana, anzi, negato una identità cristiana: compito che può essere valido in chi abbia anche una pars costruens da indicare al pubblico, ma che finisce per essere sterile in chi non ha nulla da offrire, oltre al piacere della negazione. Perché di intellettuali così ne abbiamo avuti già sin troppi, nel corso del XX secolo, i quali hanno proliferato, in un certo senso, come piante parassite, dilettandosi e compiacendosi di astrusi teoremi che non hanno dato alcun contributo a chiarire i grandi problemi della vita: unico compito degno della vera filosofia.
Sono figure che l’hanno fatta da padrone nella prima metà del secolo, ma che, dopo la tragedia della Seconda guerra mondiale, ultimo atto del suicidio della civiltà europea, si sperava avessero imparato qualcosa, avessero maturato una attitudine un po’ meno vacua e corrosiva; così non è stato, ma, al contrario, si sono letteralmente scatenati nel mare magnum dello scetticismo e del relativismo, pavoneggiandosi in un anticonformismo di maniera, sempre politically correct.
Così riassume la sua più nota teoria filosofica, quella di un cristianesimo paolino tutto "rivoluzionario" e tanto gradito alla cultura di sinistra, a cominciare da una parte di quella cattolica, il giornalista Robeto Manfredini, sulla eccellente rivista mensile Il Timone (cui perdoniamo l’errore di avere inserito una foto che non è quella di Taubes; Milano, Febbraio 2016, pp. 58-60):
Secondo Taubes, Paolo non sarebbe che il rappresentante di una classica eresia ebraica, il messianismo antinomico: da tale prospettiva la crocifissione di Cristo segna la fine della Legge e il rivolgimento interiore della fede; l’adesione al sacrificio del messia comporta la distruzione di ogni prescrizione ritualistica e l’instaurazione di un nuovo tempo storico in cui ogni atto vale per se stesso: la Legge coincide con la fede, in un atteggiamento spirituale e psicologico radicalmente contrario a ogni potere e istituzione.
Ciò che predica Taubes attraverso San Paolo non è semplicemente l’apocalisse, ovvero al fine del tempo, ma il tempo della fine, vale a dire la disseminazione del messianesimo all’interno della storia, affinché esso esaurisca il mondo e lo annienti per propiziare l’entrata dell’umanità nel "Regno". Alla negazione paolina delle identità greche e giudee in Cristo, Taubes aggiunge la negazione dell’identità cristiana stessa: non possono esistere né chiese né stati cristiani perché ogni legge è di per sé un tradimento della vera e nuova Legge, che in sostanza è una forma di anomia esteriore giustificata dalla consapevolezza in interiore di vivere negli ultimi tempi.
Quando il pensatore elaborava queste idee, era in pieno sviluppo quella che agli occhi di molti sembrava l’ultima rivoluzione possibile, quella del Sessantotto. Anni prima Taubes aveva intuito il peso che le suggestioni messianiche avrebbero avuto in un mondo dove il piano teologico e quello politico stavano amalgamandosi: in "Escatologia occidentale" (1947) egli individuò il messianismo ebraico come fenomeno carsico in tutta la storia della filosofia occidentale. In tal senso Taubes aveva già offerto una interpretazione sacralizzante di ogni possibile rivolta. Fu tuttavia solo alla fine della sua carriera che teorizzò — anche se in modo frammentario — la sua dottrina rivoluzionaria prendendo a pretesto le lettere dell’Apostolo. Nella sua "Teologia politica" egli afferma che nessuna autentica ribellione può realizzarsi senza una apertura alla trascendenza che permetta di superare le istanze delle strutture su cui si fonda l’imperium, sia esso romano, ellenistico, ebraico o cristiano.
Parimenti Taubes illustra una singolare concezione dell’eresia di Marcione di Sinope (85-160) — che considerava il Dio amore del Nuovo testamento come antitetico a quello della Legge dell’Antico testamento — ammettendo una sua continuità con il pensiero paolino ma allo stesso tempo "esorcizzando" ogni tentativo di fare di Paolo uno gnostico tout-court. L’Apostolo è un rivoluzionario che impone i suoi valori, anzi,il valore supremo dell’Amore, affinché un nuovo Israele permetta alle genti di oltrepassare le porte del Regno in cui non varranno più i legami di sangue, di legge e di fede — intesa come normatività necessaria — ma solo lo spirito, l’amore appunto, e la permessa di una nuova umanità. Il punto più controverso di tale lettura è la contrapposizione che Taubes instaura tra il doppio precetto di Gesù — Amerai il Signore e il prossimo tuo — e l’unicità dell’Amore paolino — che secondo Taubes affermerebbe solo la necessità dell’amore per il prossimo -, il quale non diventa la base per una nuova comunità di fedeli unita dall’agape — tale lettura per Taubes sarebbe troppo umanistica -, ma la forza dissolutrice di qualsiasi ordine politico nel segno della prossimità della fine.
Da qui consegue che la teologia politica attribuita a Paolo è integralmente negativa, ovvero sancisce l’impossibilità d qualsiasi legittimità del cristianesimo in ambito politico e, alla fine, anche in quello religioso, dato che l’azione dell’Apostolo resta, seppur in forma di eresia, cristallizzata nella storia dell’ebraismo.
Insomma: dopo Marx e Lenin, dopo Mao e Fidel Castro, ecco San Paolo quale nuovo nume tutelare del Sessantotto e, in genere, della rivoluzione: di quell’ultima rivoluzione che dovrà soppiantare e rendere inutili tutte le altre (così come le due guerre mondiali avrebbero dovuto porre fine a tutte le guerre), instaurando la perfetta emancipazione sulla terra e distruggendo per sempre il cattivo seme della violenza e della sopraffazione dell’uomo sull’uomo. Va da sé che questa interpretazione della teologia paolina — che, fra parentesi, viene di fatto "staccata" dal messaggio di Gesù: teoria vecchia e stravecchia – piacque molto a tutti gl’intellettuali e ai giovani marxisti, che cercavano una sponda amica sul versante del cristianesimo; e moltissimo a quegli stessi cattolici "progressisti" i quali, afflitti da inestinguibile complesso d’inferiorità nei confronti dei loro più disinvolti ed emancipati "compagni" non credenti, atei e materialisti, per giunta "scientifici" nel loro comunismo, in quanto seguaci di Marx (che, a sua volta, aveva garantito la scientificità del proprio pensiero), scalpitavano nell’impazienza di far vedere a chiunque, e innanzitutto a se stessi, di che cosa erano capaci quanto a slancio rivoluzionario, a sete di giustizia politico-sociale, e a odio e disprezzo nei confronti della becera e parassitaria classe borghese, nonché di qualunque poter costituito, dai vigili urbani in su.
Sicché, per Taubes, le Lettere di San Paolo sarebbero il manuale del perfetto rivoluzionario, nemico implacabile di qualsiasi Legge, e, dunque, di qualunque istituzione; un precursore di Bakunin, più che di Marx, o forse di Proudhon. Ma via! Basta leggere, anche superficialmente, le Lettere di San Paolo, per vedere come la sua dottrina della superiorità della fede e della grazia sulla Legge mosaica non si possa in alcun modo conciliare con una concezione di tipo politico, tanti meno di segno rivoluzionario. Non ha forse detto, San Paolo, che omnis potestas a Deo, ogni autorità viene da Dio, direttamente o indirettamente, nel senso che Dio la vuole, oppure che la permette?
Il concetto — ribadito anche in altri passi delle sue Lettere — è formulato nella maniera più chiara e inequivocabile nel suo capolavoro teologico, l’Epistola ai Romani (13, 1-7):
Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio. E quelli che si oppongono si attireranno addosso la condanna. I governanti infatti non sono da temere quando si fa il bene, ma quando si fa il male. Vuoi non aver da temere l’autorità? Fa’ il bene e ne avrai lode, poiché essa è al servizio di Dio per il tuo bene. Ma se fai il male, allora temi, perché non invano essa porta la spada; è infatti al servizio di Dio per la giusta condanna di chi opera il male. Perciò è necessario stare sottomessi, non solo per timore della punizione, ma anche per ragioni di coscienza. Per questo dunque dovete pagare i tributi, perché quelli che sono dediti a questo compito sono funzionari di Dio. Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi il tributo, il tributo; a chi le tasse le tasse; a chi il timore il timore; a chi il rispetto il rispetto.
Quanto alla interpretazione del paolinismo come eresia finale del giudaismo, che dire?, essa è perfino imbarazzante nella sua totale inverosimiglianza; e il minimo che si possa dire in proposito è che l’ubriacatura marxista e sessantottina doveva essere davvero potente se una simile tesi è stata presa sul serio da qualcuno, anche solo per un breve momento: il che dice tutto sul conformismo e sull’appiattimento intellettuale di certe "stagioni" culturali che vengono contrabbandate — o, per meglio dire, che si auto-contrabbandano – per originali, innovative e, appunto, rivoluzionarie. Che San Paolo considerasse imminente la Parusia, questo è certo: lo dice lui stesso, non occorre essere dei mostri di filologia neotestamentaria, o d’intuizione sociologica, per rendersene conto. Ma che a ciò corrisponda una sorta di anarchismo auto-demolitore della società intera, e che il rifiuto della legge mosaica comporti anche il rifiuto di qualunque autorità costituita, a cominciare da quella politica, è cosa che Taubes si è sognato in perfetta solitudine concettuale, senza portare a sostegno alcun argomento minimamente convincente, o anche solo probabile. Ma tant’è: la sua teoria circa il paolinismo come esito finale del nichilismo apocalittico giudaico e, anzi, come esempio della perenne tentazione del nichilismo profetico, si prestava magnificamente a smontare, da un lato, tutto il cristianesimo, riducendolo a un epifenomeno del tardo giudaismo pervaso dalla bramosia suicida del cupio dissolvi; dall’altro, a farne una inedita base concettuale per gli empiti rivoluzionari di quei marxisti immaginari che, allora, sognavano la palingenesi mondiale grazie al Capitale di Marx, interpretato attraverso il Talmud, al quale non volevano rinunciare, ci mancherebbe!; ma non riuscivano a fare a meno neppure di Freud, di Walter Benjamin e — horribile dictu, e infatti non lo dicevano, o lo dicevano a bassissima voce, solo fra pochi intimi — di Nietzsche e di Carl Schmitt…
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