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I libri di Pietro Castelli sono oggi pressoché dimenticasti, essendo espressione di quell’amore alla famiglia, al matrimonio, all’educazione responsabile e, soprattutto, di quella sana e coerente visione della vita cristiana che oggi sembrano valori obsoleti e, quando non siano caduti nell’oblio, sono divenuti oggetto di perplessità, critiche, perfino derisione, e ciò non solo da parte della cultura laicista e secolarizzata oggi imperante, ma di larghi settori della stessa cultura che si definisce cristiana, ma senza esserlo realmente, e cattolica, quando è, invece, un inestricabile guazzabuglio di modernismo, protestantesimo liberale, teologia negativa, relativismo etico e culturale, e perfino di elementi confusamente ripresi dalla cultura New Age.
Eppure sono libri scritti con esemplare chiarezza di idee e con singolare onestà intellettuale, che oggi, nella deriva relativista e nel marasma spirituale di cui non s’intravede la fine – perché ormai ogni anno, ogni mese e, quasi, ogni giorno, portano alla discesa di un nuovo gradino verso la totale confusione morale e la perdita di valori autorevoli e condivisi -, andrebbero riletti con profitto e potrebbero dare un contributo non indifferente ad una chiarificazione e ad un recupero di certezze indispensabili al buon vivere, tanto nella sfera individuale che in quella sociale; perché è certo che con il relativismo non si va lontano, e che con la cultura permissiva, edonista e materialista, non si fa altro che preparare il terreno per il crollo finale della civiltà che i nostri avi hanno costruito con tanta disponibilità al sacrificio e con tanta saggezza, dedizione, umiltà e laboriosità.
Pensiamo, ad esempio, a I diritti e i doveri della famiglia di fronte al problema scolastico; Lo spiritismo; L’occultismo (tutti editi dalle Edizioni Paoline negli ani ’50 del Novecento); La famiglia (in collaborazione con altri autori; Edizioni Giac, Roma); Il ballo moderno (in Studi cattolici, Agosto 1958; Il flirt (sempre in Studi cattolici, Febbraio 1959) e Il fidanzamento, pubblicato nel 1955, poi di nuovo nel 1959, dall’Istituto "La casa" di Milano, con prefazione di don Paolo Liggeri, il fondatore di tale opera di assistenza sociale, fondata nel capoluogo lombardo fin dal 1943, in origine per sostenere gli sfollati dopo i tragici bombardamento aerei, poi per supportare la famiglia cristiana, l’educazione, l’infanzia e l’adolescenza, davanti alle sfide della civiltà moderna e della cultura laicista e secolarizzata.
Stiamo parlando di un’area del cattolicesimo lombardo che non si limitava alle enunciazioni di principio, ma non esitava a sporcarsi le mani con l’impegno sociale diretto e, a volte, non scevro di pericolo. Don Paolo Liggeri, ad esempio, per aver nascosto nella sua "casa" molti perseguitati politici e razziali e per aver inoltrato, via radio, notizie destinate a rassicurare i famigliari dei militari dispersi o internati, venne arrestato dalle autorità naziste e spedito in campo di concentramento, in Germania, donde, a guerra finita, tornò a Milano (era nato a Siracusa nel 1911, ma era stato ordinato sacerdote nella città ambrosiana nel 1935), per riprendere la direzione dell’Istituto "La casa", a favore della famiglia cristiana, che fungeva anche da consultorio familiare, ottenendo, tramite il prefetto, il riconoscimento da parte delle autorità sanitarie pubbliche e assumendo poi la direzione dell’Opera Cardinal Ferrari, che avrebbe conservato fino alla morte, avvenuta nel 1996 (si legga la sua biografia, scritta da Adriana Pelucchi, Un prete per la famiglia, pubblicata dalle Edizioni Paoline nel 1998).
Ora, tornando ai libri di Pietro castelli, autore versatile, documentato, pieno di buon senso e con le idee chiare circa le questioni dell’educazione alla vita familiare, ci sembra che sia di particolare attualità l’ultimo dei suoi libri che abbiamo ricordato, ossia Il fidanzamento, che ebbe una seconda edizione, ampliata, nel giro di quattro ani e che ancora oggi colpisce per la limpidezza concettuale e, in un ceto senso, la vocazione profetica: nel senso che la trascuratezza, l’oblio e il disprezzo di quei valori e di quei principi, entrati poi rapidamente nel bagaglio intellettuale e pratico di tanta parte della nostra società, trova una serie di risposte esemplari in quest’opera scritta sessant’anni or sono, e rispetto alla quale si può misurare quanto la decadenza morale della stessa componente cristiana della società abbia contribuito allo sbandamento attuale, spacciato per "apertura", per "progresso", per "dialogo", a partire dalla infausta stagione post-conciliare, quando, con il pretesto di "dare attuazione" a un non meglio precisato "spirito del Concilio", esponenti di spicco della Chiesa stessa, teologi (o sedicenti tali), vescovi, cardinali, e una quantità di sacerdoti, cominciarono a tollerare, approvare e perfino insegnare teorie e nome pratiche di vita che nulla avevano, o hanno, di cristiano, tranne, al massimo, una tenute vernice che ha il solo scopo di trarre in inganno le anime candide e fiduciose, mentre la loro essenza è decisamente non cristiana, quando non esplicitamente anti-cristiana.
Oggi la famiglia è in crisi; la famiglia è disgregata; la famiglia sta cessando di esistere. I matrimoni sono in calo verticale (tranne quelli omosessuali, guarda caso: una aberrante parodia del vero matrimonio fra uomo e donna, ma ormai riconosciuta per legge in moltissime legislazioni); la natalità è in calo ancor più vertiginoso; divorzi e separazioni imperversano; i figli sono sballottati e contesi tra la famiglia di origine e i nuovi legami degli ex coniugi, non di rado diventano oggetto di contesa, di ripicche, di dispetti; non si parla più di educazione sessuale nelle famiglie, ma la si delega alle scuole, sempre più spesso nell’ottica prescritta dall’U.N.E.S.C.O., quella della ideologia gender, omosessualista, relativista, edonista; la Chiesa stessa si mostra incerta, possibilista, talvolta apertamente favorevole — per iniziativa di singoli pastori – alle "famiglie di fatto", alle "nuove unioni", alle "famiglie arcobaleno", e via dicendo. E tutto questo vien fatto spacciando la dignità della persona e il rispetto ad essa dovuto, che nessuno ha mai posto in dubbio, per una automatica legittimazione, persino preventiva, di qualunque comportamento e di qualunque scelta morale, fosse pure la più discutibile, balorda, e profondamente sbagliata.
Ed ecco il ricatto morale: credi nella dignità della persona? Certo devi crederci, perché essa è proclamata dal Vangelo; e allora devi anche accettare le situazioni di fatto, comunque esistenti, per quanto lontane ed opposte rispetto alla morale cristiana e alla stessa legge morale naturale. Infatti, giova ricordarlo e ribadirlo, qualunque disordine sessuale, ma soprattutto l’inversione, vanno contro la legge naturale, e come tale sono sempre stati considerati nella stragrande maggioranza delle società umane, sia quelle evolute, sia quelle a livello etnologico, ossia "primitive"; tranne che nelle epoche di particolare decadenza, ma, anche in quel caso, come nella Grecia classica, entro un quadro ben definito che ne fissava i limiti e condannava qualunque eccesso. In nessuna società umana è mai esistito qualcosa di simile al matrimonio omosessuale e alla famiglia omosessuale: e questo vorrà pur dire qualcosa, a meno di dedurre che tutte le società umane, comprese quelle in cui vissero Platone, Aristotele, San Paolo, Sant’Agostino, Gregorio Magno, San Tommaso d’Aquino, Dante Alighieri, Erasmo da Rotterdam, Pascal, Leibniz, Locke, Kant, Rousseau, Hegel, Kierkegaard, Manzoni, Schopenhauer (personaggi, come si vede, assai diversi fra loro; alcuni cristiani, altri decisamente no), erano barbare, oscurantiste, ignoranti e intolleranti.
Tornando al malessere odierno nei rapporti familiari, crediamo che, alla base di esso, insieme a moltissimi altri fattori, ve ne sia almeno uno che non dipende dalla "società", dai condizionamenti esterni, dalle dinamiche incontrollabili del mondo moderno, ma dipende in gran parte da noi: ossia un venir meno della progettualità, della scelta oculata del compagno o della compagna di vita, da un cieco abbandono all’amore passionale, che hanno preso il posto della lenta e rispettosa conoscenza reciproca fra il giovane uomo e la giovane donna, e solo mediante la quale è stato possibile, ai nostri genitori e ai nostri nonni, costruire delle unioni stabili, capaci di sfidare le difficoltà dell’esistenza e di educare i figli attraverso un codice di valori a sua volta durevole; delle unioni che non sempre erano felici e "ideali", ma che erano robuste, e nelle quali, in linea di massima, ciascuno si assumeva la propria parte di responsabilità — il marito, la moglie ed i figli — per affrontare il viaggio chiamato "vita", nessuno si tirava indietro adducendo i propri "diritti" egoistici, o, se qualcuno lo faceva, veniva solennemente disapprovato, non certo ammirato e invidiato, semmai compatito, come un individuo immaturo e infantile, indegno di fiducia e di credibilità, una mina vagante dalla quale era bene stare dalla larga, un opportunista che pretendeva di ricevere dalla vita e dagli altri più di quanto fosse mai disposto ad offrire.
Fino a un paio di generazioni fa esisteva il fidanzamento affinché i due giovani, futuri sposi, potessero conoscersi; conoscenza che raramente implicava anche l’intimità dei rapporti sessuali e che mai prevedeva la convivenza prematrimoniale vera e propria; ma che era basata sul mutuo rispetto e sulla paziente attesa di capire se i due fossero compatibili per unire i loro destini e creare una nuova famiglia. Crediamo che l’abbandono dell’istituto del fidanzamento, così inteso, sia stato di gravissimo danno alla nostra società; quello che oggi si chiama "fidanzamento" è un’altra cosa, in cui, di norma, non vi sono responsabilità precise, ma il legame è aleatorio, precario, quasi evanescente, e ciascuno si riserva la propria sfera di libertà, o è pronto a rescindere l’impegno verso l’altro, non appena gliene sorga il capriccio. Inoltre, il cosiddetto fidanzamento odierno è, spesso, sinonimo di convivenza; ma una convivenza in cui i due giovani non cessano di appoggiarsi, fin troppo, sulle famiglie di origine, riversando su di esse gran parte della "fatica" (lavanderia, preparazione dei pasti) e godendosi il più possibile la parte facile e piacevole della vita in comune, molto spesso rinviando a data indeterminata il progetto della maternità e della paternità. Si adduce sovente, per giustificare simili scelte, la precarietà e l’incertezza della situazione economica odierna; tuttavia, siamo sinceri: è davvero così? Forse che i nostri nonni, all’indomani della catastrofe della Seconda guerra mondiale, avevano di fronte a sé delle prospettive economiche molto migliori, allorché si fidanzavano e si sposavano, comprando a rate perfino i mobili – i mobili essenziali, naturalmente, cioè la cucina e la camera da letto, perché a tutto il resto avrebbero pensato poi? Eppure, essi hanno scommesso sul loro amore e sulla sua stabilità, nella buona e nella cattiva sorte; hanno creduto nel futuro; hanno fatto dei figli.
Nel libro di Pietro Castelli, per esempio, si ricorda che le doti dei due giovani devono essere complementari, specie per quanto riguarda le virtù morali, che è bene che il loro livello sociale, culturale, economico, morale, sia sostanzialmente simile, onde evitare future incomprensioni; che si deve dare la preferenza alle doti morali e non a quelle materiali; che la persona prescelta deve avere un minimo di salute e di possibilità finanziarie; che i due giovani non devono avere fretta di unirsi, solo per sottrarsi alla tutela dei genitori o per godere delle gioie della vita matrimoniale, perché quest’ultima è fatta anche, e soprattutto, di doveri; che le ragazze non devono sposarsi per amore della "libertà"o per paura di restare zitelle, o per compiere un atto di carità verso un ragazzo orfano, o malato, o invalido, perché la compassione non è la stessa cosa dell’amore, e sulla compassione non si può costruire un vero matrimonio. Tutte cose di puro buon senso: ma dove è andato a finire il buon senso, oggi? Quanti giovani si precipitano in una relazione di coppia senza tener conto delle più elementari norme di prudenza, e poi, amaramente scottati, dichiarano che l’amore non esiste, oppure passano a nuove relazioni, ma con la riserva mentale di scioglierle al profilarsi della prima difficoltà? Come è possibile sottovalutare le incomprensioni che fatalmente sorgeranno fra due persone che partono con idee e valori troppo diversi, con culture diverse, con fedi diverse, solo perché si sentono fisicamente attratti? Ed è chiaro che, se nascono dei figli, in tale unioni precarie essi saranno i primi a soffrire delle incomprensioni fra i genitori; diverranno campo di battaglia fra essi, al momento della separazione; anche con strascichi legali e, nel caso di appartenenti a religioni diverse, con pesanti complicazioni internazionali, come quando il genitore islamico rapisce i figli e li porta con sé nel proprio Paese, per educarli nella propria religione.
E allora ripetiamolo: unire le proprie vite in un progetto a lungo termine che non abbia solide basi è peggio di una imprudenza; è una follia, che verrà pagata a carissimo prezzo. E ripetiamo che l’amore-passione non basta per superare le difficoltà della vita, quando le situazioni di partenza sono già irreparabilmente compromesse. Unire la propria vita a quella di un tossicodipendente, ad esempio, equivale ad andare incontro al proprio inferno, senza poter aiutare l’altro: perché vi sono mali che neppure l’amore può guarire; senza dire che matrimonio e amore non sono la stessa cosa…
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Mike Chai from Pexels