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L’uomo moderno, rifiutando la Verità, si è condannato con la sua stessa intelligenza

È possibile, all’uomo — all’uomo singolo, ma anche ad una intera società, o, addirittura, all’umanità nel suo complesso — impazzire per la troppa intelligenza? Posta così, parrebbe una domanda paradossale, o retorica, o, magari, inutilmente ironica. Invece riteniamo che essa vada posta con forza e presa con la massima serietà: che non vi sia, in essa, nulla, ma proprio nulla, di paradossale, o di retorico, o — meno che mai — d’ironico.

Che cos’è intelligenza? Non appena ci si fa questa domanda, ci si rende conto della immensa complessità del problema. Avevamo dato per scontato, un po’ tutti, di sapere che cosa essa sia; dall’illuminismo in poi, ci è stato detto e ripetuto, innumerevoli volte, quasi fino all’ossessione, che è la facoltà umana per eccellenza — come se il sentimento e la volontà non lo fossero altrettanto; e che in essa risiede la sua grandezza, da essa discendono le sue responsabilità, ad essa si ascrivono i progressi che l’umanità ha realizzato, e continua a realizzare, nel corso della sua storia. Tuttavia, quanto al darne una definizione, la cultura dominante — pur essendo, o forse appunto essendo, improntata ad un rigido razionalismo — sembra che non ne sia altrettanto sollecita, altrettanto capace e altrettanto desiderosa.

In generale, oggi prevale una definizione di tipo biologico: l’intelligenza viene vista, da molti intellettuali (nel silenzio assordante dei filosofi), come la capacità di risolvere, con la massima efficacia e con il minimo consumo di risorse, problemi e situazioni nuovi. In questa definizione, ovviamente, non appare una netta distinzione — anzi, non appare affatto una distinzione — fra intelligenza umana e intelligenza animale (e, al limite, vegetale: perché anche le piante si trovano a dover affrontare problemi nuovi, ad esempio una prolungata siccità, dovendo conservare se stesse, e dovendo farlo, necessariamente, con il minor dispendio di energie e di risorse); e, nello stesso tempo, si vede bene come non appaia nemmeno una vera linea di separazione fra intelligenza naturale e intelligenza artificiale; fra quella dell’uomo e quella delle "macchine per pensare". Prendiamo buona nota di questa singolare contraddizione — la società e la cultura che più di tutte, nel corso della storia umana, hanno esaltato l’intelligenza come la facoltà specifica dell’uomo, sono proprio quelle che non sanno distinguere fra l’intelligenza dell’uomo, quella dell’animale o della pianta, e quella del computer -; e passiamo oltre.

I Greci distinguevano fra diversi tipi d’intelligenza: dalla "phronesis", che era l’intelligenza, ma anche la saggezza, e, talvolta, la prudenza; al "logos", che designava la parola, il discorso, il significato, il ragionamento, la ragione, e quindi il pensiero (ma anche, secondo Heidegger, la capacità di conservare, accogliere, ascoltare); al "nous", che indica la facoltà non solo di pensare, ma anche, e soprattutto, di comprendere, cioè di arrivare a vedere in profondità le ragioni di una cosa o di un pensiero; e così via. È curioso — seconda stranezza in cui c’imbattiamo: la nostra cultura, la più razionalista, almeno a parole, di quante ve ne siano state, è quella che, per definire l’intelligenza, adopera una parola sola: il che significa, evidentemente, che le dà, volta per volta, caso per caso, delle sfumature o delle accezioni differenti. E si può immaginare quanto ciò faccia bene alla chiarezza del pensare e alla coerenza e intelligibilità del discorso. (Ci sarebbero anche altre stranezze dello stesso tipo, per esempio il fatto di avere una parola sola per indicare "amore"; questo a proposito della povertà linguistica, che è, a monte, povertà concettuale, o, quanto meno, eccessiva tendenza alla schematizzazione e alla generalizzazione, da parte della cultura moderna, che pure va tanto fiera della propria sottigliezza speculativa e dialettica, rispetto ad altre culture e ad altre società, che l’hanno preceduta; ma questo sarebbe un altro discorso, che ci porterebbe troppo lontano dal nostro assunto).

Sia come sia, anche prendendo per buona — ma con molte riserve — la definizione di tipo biologico sopra riportata, resta il fatto che l’intelligenza, in quanto facoltà umana, non è, di per se stessa, perfetta e immune da errori, deviazioni, stravolgimenti; come tutte le cose umane, di essa si può fare un uso buono, come cattivo. Buono e cattivo, intendiamo, non solo in senso etico; ma proprio in senso "funzionale", cioè accettando l’impostazione naturalistica summenzionata. In natura, una cosa è "buona" se serve allo scopo; "cattiva", se lo ostacola. Ora, qual è lo scopo dell’intelligenza? Abbiamo detto: affrontare e risolvere con successo situazioni nuove; fronteggiare il cambiamento. Il mondo in cui viviamo, le ore della nostra giornata, registrano continui cambiamenti, ora lenti e graduali, ora bruschi e improvvisi. L’intelligenza, dunque, dovrebbe aiutarci ad affrontarli, a elaborarli, a far sì che non ci spezzino, non ci travolgano. Però, nello stesso tempo — e qui appaiono tutti i limiti della definizione naturalistica di cui sopra — possiamo definire appropriata quella forma d’intelligenza che ci consente, sì, di adattarci ai cambiamenti, restando, però, noi stessi: vogliamo dire, conservando la parte essenziale di noi stessi, vale a dire la nostra profonda umanità.

Quei signori, tuttavia – ne siamo certi – non saranno d’accordo; per loro, l’umanità non è qualcosa di dato, di assoluto, di "metafisico"; non possiede un vero statuto ontologico: è una realtà, anch’essa, in continua evoluzione, dunque in continuo assestamento e cambiamento. Prendiamo atto della loro posizione: Pirandello, che poneva un contrasto irrimediabile fra "vita", intesa come fluire incessante, e "forma", intesa come cristallizzazione della vita in una serie di ruoli sociali, o di maschere, come lui le chiamava, sarebbe pienamente soddisfatto: forse non immaginava che la cultura dominante del terzo millennio sarebbe stata pirandelliana — cioè, in ultima analisi, nichilista. Da parte nostra, che nichilisti non siamo, né vogliamo essere, preferiamo non seguirli lungo quella strada, e, a costo di "divorziare" dalla corrente principale della cultura del nostro tempo, mettendoci nell’alveo di una sparuta minoranza, constatiamo di essere giunti a un punto in cui le nostre strade si biforcano irrimediabilmente. Chi non vede la differenza sostanziale fra uomo e animale, o fra uomo e computer, prosegua pure con il flusso principale, e smetta di leggere queste righe; chi la vede, ci accompagni nel nostro presente ragionamento.

Lo spirito della modernità si compendia in un atteggiamento fondamentale: il rifiuto della Verità, la ribellione contro Dio e l’odio nei confronti di coloro i quali annunciano il Vangelo, perché tale annunzio disturba il desiderio di auto-glorificazione e di auto-divinizzazione dell’uomo stesso, reso ebbro di orgoglio dalle sue scoperte scientifiche e dalle sue realizzazioni tecnologiche, industriali, finanziarie e intellettuali. Come è giunta a questi esiti, la cultura moderna? Crediamo che vi sia giunta proprio per l’esaltazione acritica, totalizzante, e perciò "irragionevole", della ragione stessa: per un corto circuito dell’intelligenza. L’intelligenza, infatti, non può illuminarsi da sola: è il sentimento che la illumina; ed è la volontà che la dirige in una certa direzione, piuttosto che in un’altra. L’intelligenza, in altre parole, è essenzialmente uno strumento; per fare che cosa, deve deciderlo il sentimento; e per farlo come, deve deciderlo la volontà. Una intelligenza senza sentimento è, semplicemente, anti-umana: arriva a fare cose mostruose, e senza rendersene conto. Si rivolge contro l’uomo, invece di promuovere la sua conservazione. Anche una intelligenza non sorretta, né accompagnata dalla volontà, diviene sommamente pericolosa: potrebbe trascinare l’uomo verso la distruzione. Quel che l’intelligenza sa fare di buono, lo sa fare perché ha ricevuto il benefico impulso del sentimento, che sgorga dalle profondità dell’anima e che non può essere ulteriormente scandagliato, analizzato, spiegato e chiarito: non sino in fondo, almeno; non sino alla radice. Esso rimane mistero, come mistero è l’illuminazione divina, che getta un raggio di luce vivissima nelle caverne dell’anima umana. Con buona pace di Freud, della psicanalisi e di gran parte della cultura moderna, convinti che la "spiegazione" del mistero sia a portata di mano; anzi, per dir meglio, che non vi sia proprio alcun mistero. Spetta poi alla volontà il delicato compito di "traghettare" l’intelligenza verso una meta utile: che non può essere, ciecamente e ostinatamente, solo quella della propria sopravvivenza. La madre che rinuncia alla sua vita per proteggere quella del figlio, non agisce per un impulso dell’intelligenza, ma del sentimento e della volontà. È il sentimento che le fa preferire la sopravvivenza del figlio alla propria conservazione; ed è la volontà che la guida, la consiglia e la sostiene nel perseverare in tale scelta.

Ma dove conduce l’intelligenza, quando si fa signora di se stessa, cioè di una "saggezza" puramente ed esclusivamente umana, ribelle alla Verità, e — dunque – ribelle a Dio, che è la Verità stessa?

Vale la pena di rileggere, ancora una volta, senza stancarsi, e di riflettervi sopra con la massima attenzione, questo passo famoso della Lettera ai Romani di san Paolo (1, 18-32; 2, 1-10), nel quale l’Apostolo descrive la condizione dell’uomo che si allontana da Dio, che rifiuta di riconoscere la Verità e preferisce adorare gli idoli, e che, in tal modo, pronuncia da se stesso la propria condanna, venendo abbandonato in potere dei suoi istinti malvagi (versione interconfessionale del Nuovo Testamento edita dalla Elledici, Torino e dalla Alleanza Biblica Universale, Roma, 2000):

«Di fatto, l’ira di Dio si manifesta dal cielo contro tutti gli uomini, perché lo hanno rifiutato e hanno commesso ogni specie di ingiustizia soffocando la verità.

Eppure ciò che si può conoscere di Dio è visibile a tutti: Dio stesso lo ha rivelato agli uomini. Infatti, fin da quando Dio ha creato il mondo, gli uomini con la loro intelligenza possono vedere nelle cose che egli ha fatto le sue qualità invisibili, ossia la sua eterna potenza e la sua natura divina.

Perciò gli uomini non hanno alcuna scusa: hanno conosciuto Dio, poi si sono rifiutati di adorarlo e di ringraziarlo come Dio. Si sono smarriti in stupidi ragionamenti e così non hanno capito più n nulla. Essi, che pretendono di essere sapienti, sono impazziti: adorano immagini dell’uomo mortale, di uccelli, di quadrupedi e di uccelli, invece di adorare il Dio glorioso e immortale.

Per questo, Dio li ha abbandonati ai loro desideri: si sono lasciati andare a impurità di ogni genere fio al punto di comportarsi in modo vergognoso gli uni con gli altri; proprio loro che hanno messo idoli al posto del vero Dio, e hanno adorato e servito quel che Dio ha creato, anziché il Creatore. A lui solo sia la lode per sempre. Amen.

Dio li ha abbandonati lasciandoli travolgere da passioni vergognose: le loro donne hanno avuto rapporti sessuali contro natura, anziché seguire quelli naturali. Anche gli uomini, invece di avere rapporti con le donne, si sono infiammati di passione gli uni per gli altri. Uomini con uomini commettono azioni turpi, e ricevono così in loro stessi il giusto castigo per questo traviamento.

E poiché si sono allontanati da Dio nei loro pensieri, Dio li ha abbandonati, li ha lasciati soli in balia dei loro pensieri corrotti, ed essi hanno compiuto cose orribili. Sono ormai giunti al colmo di ogni specie di ingiustizia e di vergognosi desideri. Sono avidi, cattivi, invidiosi, assassini. Litigano e ingannano. Sono maligni, traditori, calunniatori, nemici di Dio, violenti, superbi, presuntuosi, inventori di mali, ribelli ai genitori. Sono disonesti e non mantengono le promesse. Sono senza pietà e incapaci di amare. Eppure sanno benissimo come Dio giudica quelli che commettono queste colpe:  sono degni di morte. Tuttavia, non solo continuano a commetterle, ma anche si rallegrano con tutti quelli che si comportano come loro

Noi sappiamo che Dio pronunzia una giusta condanna contro coloro che si comportano in questo modo. Perciò, chiunque tu sia, che giudichi gli altri, non hai nessuna scusa: mente giudichi gli altri condanni te stesso, perché fai proprio le stesse cose che condanni. O credi forse di sfuggire al giudizio di Dio, visto che condanni negli altri quello che tu stesso fai? O forse agisci così, perché disprezzi la grande bontà, la tolleranza e la pazienza di Dio? Ma non sai che Dio usa la sua bontà per spingerti a cambiar vita? Tu invece sei ostinato, e non sei disposto a cambiar vita. In tal modo attiri su di te la collera di Dio, per il giorno del castigo nel quale egli si manifesterà per pronunziare la sua giusta sentenza. Allora Dio ripagherà ciascuno secondo le proprie azioni. Darà vita eterna a quelli che cercano gloria, onore e immortalità facendo continuamente il bene; manifesterà invece la sua collera e la sua indignazione contro quelli che sono egoisti e non seguono la verità, ma ubbidiscono a tutto ciò che è ingiusto. Sofferenza e angoscia colpiranno chi fa il male, prima gli Ebrei e poi tutti gli altri. Ma Dio darà gloria, onore e pace a quanti compiono il bene, prima agli Ebrei, e poi a tutti gli altri. Dio infatti non fa differenze.»

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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