
Si vuole distruggere il cattolicesimo per instaurare il culto luciferino dell’Uomo
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5 Febbraio 2016Il buonismo è il contrario della bontà, e il moralismo è il contrario della morale: la cosa è talmente evidente che ci sembra inutile e perfino imbarazzante tentare di spiegarla. Chi la vuol vedere, la vede, e chi la vuol capire, la capisce; eppure molti, oggi, non la vedono, né la capiscono. E non la vedono, in apparenza, o piuttosto non la vogliono vedere, specialmente i governi e le istituzioni, anche quelle di natura spirituale, fra le quali una buona parte della Chiesa cattolica.
Se un malintenzionato – un rapinatore, uno stupratore, un potenziale assassino – penetra in casa nostra; e noi, per difendere i nostri cari, gli spariamo addosso, siamo noi che verremo processati e, forse, condannati; inoltre, se lo avremo ucciso, saremo condannati, oltre che alla prigione, a versare un cospicuo risarcimento alla sua famiglia. Quella famiglia camperà di rendita a nostre spese e potrà ritenersi moralmente danneggiata da noi, dunque potrà ostentare verso di noi il massimo disprezzo. Starà ad essa perdonarci, oppure no. Il fatto che il suo congiunto fosse penetrato in casa nostra con le peggiori intenzioni non significherà nulla. I cattivi saremo stati noi e la legge condannerà la nostra azione difensiva, sostenendo, nel caso per noi più fortunato, che questa è stata eccessiva. Già: probabilmente avremmo dovuto chiedere al malintenzionato, con tutto il garbo possibile, cosa fosse venuto a fare; e se si sarebbe accontentato di portar via il denaro e i gioielli di famiglia, promettendo, in cambio, di non fare del male alle donne e ai bambini.
Oppure, se negheremo un posto di lavoro, potendo scegliere fra più candidati, a una persona omosessuale, dovremo stare bene attenti a una sua possibile azione legale contro di noi, con le accuse infamanti di "discriminazione" e "omofobia"; e dovremo sudare del bello e del buono per persuadere il giudice che non avevamo affatto una simile intenzione e che non abbiamo mai nutrito così vili e bassi sentimenti, o così meschini e abietti pregiudizi; ma che, semplicemente, abbiamo ritenuto un altro candidato più degno della nostra fiducia e quindi più adatto al posto di lavoro per offrire il quale avevamo pubblicato un’inserzione sul giornale. Probabilmente dovremo produrre benemerenze e attestati di simpatia nei confronti degli omosessuali; e bisognerà che essi siano molto convincenti, se vorremo sfuggire a una condanna.
Se, poi, passando dalla sfera individuale a quella collettiva, esprimeremo una opinione contraria alla accoglienza indiscriminata di milioni e milioni di "profughi" e "rifugiati" (così qualificati prima d’essere riconosciuti tali, e moltissimi dei quali certamente tali non sono); se oseremo dire che una simile accoglienza equivale, in realtà, ad autorizzare una invasione, dalla quale il nostro continente uscirà totalmente islamizzato e soggiogato, sia culturalmente che politicamente; se ci permetteremo di far presente che queste persone e questi popoli dovrebbero essere aiutati, sì, ma a casa loro, sotto forma di piani di sostegno internazionale, e non spalancando le porte di casa nostra, considerato anche l’altissimo numero di cittadini indigenti che vivono nei nostri Stati, e per i quali le nostre istituzioni fanno poco o nulla, ebbene il minimo che ci possa capitare è di venire tacciati di egoismo, insensibilità e durezza di cuore, se non addirittura di razzismo, di etnocentrismo e di pregiudizio etnico, religioso e culturale. Il Papa in persona ci accuserà, affiancato da decine di vescovi e migliaia di sacerdoti, di non essere neppure dei buoni cristiani e di non aver capito nulla del Vangelo. Eppure, da decenni, la cultura politically correct sta tentando d’inculcarci l’idea che non si può vivere senza avere dei valori "forti"; che non si può guardare solo al proprio giardinetto ed al proprio angolino; che è stata appunto l’assenza di valori a provocare la nostra crisi attuale.
Che cosa dobbiamo dedurre da tutto ciò? Che contano solo il buonismo e il moralismo dei "valori" sbandierati, mentre la bontà e la morale non contano affatto? Che basta osservare l’esteriorità della legge, come i farisei, per essere a posto sia con i propri simili, sia con la propria coscienza? E che i valori sono sempre e solo quelli propagandati, con martellante insistenza, dalla cultura egemone, che è sempre stata, e oggi è più che mai (dopo che il marxismo è ufficialmente morto!) quella catto-marxista? Curiosa situazione: il marxismo è caduto ingloriosamente, si è dissolto, evaporato; ma i marxisti son rimasti vivi e vegeti, hanno soltanto cambiato nome e traslocato, trovando ottima accoglienza in casa di quei cattolici, progressisti e modernisti, il cui cuore da sempre batte a sinistra, e che aspettavano solo il momento buono — oh, lo aspettavano da un pezzo!; almeno dal 1907, allorché Pio X li aveva scomunicati e buttati fuori a pedate nel sedere – per prendersi la rivincita e tentare il colpo gobbo: impossessarsi della direzione della cultura cattolica nel suo insieme, specialmente della teologia, della stampa e dell’azione pastorale, e infine della Chiesa stessa.
Aveva visto giusto, e scritto molto bene, oltre vent’anni fa, lo psichiatra e saggista Alessandro Meluzzi, nel suo libro «Ulisse e il monaco Zen. Manuale di viaggio verso il terzo millennio» (Bergamo, Edizioni Larus, 1994, pp. 35-38):
«… Ma buoni e portatori di giusti valori si nasce o si diventa? Chi come Rousseau ha pensato che la Civiltà corrompesse un uomo selvaggio, nato fondamentalmente buono e successivamente corrotto dalle idee (naturalmente da quelle diverse dalle sue) ha generato dal 1789 in avanti società dispotiche e totalitarie. Marx e Lenin sono certamente figli naturali del pensatore ginevrino, che i valori morali della solidarietà preferiva di certo predicarli piuttosto che praticarli, avendo rinchiuso i propri figli in un brefotrofio, per scrivere tranquillamente l’"Emile", sublime trattato di pedagogia progressista. In molti hanno tentato di obbligare gli uomini alla solidarietà coatta fino a tempi recenti, e sempre con risultati scarsissimi. Anche perché come nel gioco di Orwell ("La fattoria degli animali"), c’è sempre qualche giusto più solidale degli altri, che approfitta della passività dei più, per costruire i privilegi della nomenclatura di turno. Privilegi costruiti peraltro non tanto non tanto sull’agonismo e la lotta in campo aperto, come nelle vituperate civiltà feudali e borghesi, ma nell’anestesia delle coscienze. Già, perché gli uomini lasciati a se stessi non sono fondamentalmente buoni e solidali, ma aggressivi e competitivi, e non sempre sportivamente o nobilmente.
Hobbes ha riassunto questo concetto nel suo"Homo homini lupus", al quale da sempre la vulgata pseudo progressista (marxista e non) ha attribuito la palma del cinismo morale. Ma constatarlo freddamente non per esaltarlo. Prendendo atto che la cultura e la civiltà sono il vero correttivo sul piano dei valori, ad una natura ad una natura umana che ha le sue radici nella lotta per la sopravvivenza tra scimmioni nella terza glaciazione del Pleistocene. Ma se la libertà (che è dunque anche intuitivamente il più umano e fondamentale dei valori) può scontrarsi, anzi deve scontrarsi, cin l’amore e la solidarietà, c’è una speranza al di fuori delle predicazioni degli sciocchi, in un pianeta abitato da dieci miliardi di uomini? Un pianeta in cui peraltro il lusso di pensare (anche ai valori) riguarda solo quel dieci per cento di uomini che consuma il novanta per cento delle risorse? Temo che anche qui le idee rimandino alle parole e le parole alle idee in un rimpiattino disperato.
Wojtyla può esibire una "Veritatis splendor" (enciclica sociale) perché le sue verità eterne (dentro e fuori la storia) occhieggiano a tavole bronzee alloggiate nel cielo stellato. Cielo che Kant metteva a sovrastare una legge morale, annidata tra il cuore e il cervello dell’uomo. Ma che fare per chi non ha telescopi così potenti nella coscienza? Quali saranno i suoi valori? I giovani, che sono facili ad apprendere ma anche a dimenticare perché hanno un cervello più fluido e più umido, divorano e defecano i valori con la velocità delle mode. L’ambiente e l’ecologia che sembravano gli ultimi "idola fori" solo qualche minuto fa, paiono oggi già parole un po’ bolse. Prevalgono semmai messaggi più minimali tipici di un "puer aeternus" adolescente fino a 35 anni, che preferisce rimanere con la mamma fino alla canizie e calvizie, e non solo per poter fare (sul piano dei consumi) del proprio stipendio un "argent de poche" da ragazzino. Non è solo la mancanza di denaro, di lavoro e di cose che lascia bambini fino quasi al prepensionamento (non ce ne sono mai stati tanti nella storia dell’umanità), è la mancanza di futuro. Tra tutti i valori, la cui forza spesso si carbonizza nell’atto stesso di essere scritti o pronunciati (le parole infatti possono annichilire qualsiasi cosa), ce n’è uno che non viene quasi mai ospitato nel Pantheon dove siedono "L’amore e la solidarietà, la libertà e l’eguaglianza, la laboriosità e la giustizia, la tenerezza e la dignità".
È la sfida giocosa verso la vita, quella tensione irriducibile verso un’azione, anche dagli incerti vantaggi, che popola il gioco infantile e i sogni adulti (notturni e non). È forse la parte più libera della libertà, perché ne è l’aspetto meno serioso. È il pensiero che precede ogni altro perché quando s’intraprende un’azione qualsiasi, per pensare o scrivere alcunché si deve piantare un piolo in una nuvola di vapore. Infatti tutte le verità umane anche le più certe si fondano su assiomi indimostrabili. Ognuno l’ha sperimentato, chi più chi meno, ma forse artisti, imprenditori o scienziati (soprattutto i primi due) capiscono meglio che cosa voglio dire. Non che contabili, burocrati o archivisti non agiscano la virtù di questo valore, forse ne hanno solo meno occasioni. Se non temessi di scimmiottare Bergson la chiamerei "Azione Creatrice" o "Slancio Vitale" ed è un valore molto spesso più imbavagliato che favorito dagli altri valori veri o millantati.
I bigotti della cultura progressista egemoni della carta stampata e non solo, hanno fatto di tutto perché questa dimensione della vita come gioco e sfida fosse percepita dalle giovani generazioni come qualcosa di demoniaco.
E i giovani, spesso i più sensibili, hanno finito per seguire all’anestesia delle parole e delle idee, anche quella chimica, delle droghe o quella non meno distruttiva dei comportamenti ebeti. La sfida è aperta e qualche segnale di riscossa si affaccia. Se dieci anni fa fosse uscito un saggio come il bellissimo "I pericoli della solidarietà" di Sergio Ricossa, l’autore sarebbe stato fucilato (non solo metaforicamente) in piazza. Oggi il catto-marxismo che ha forgiato le pallottole degli anni di piombo è passato al piombo delle rotative e dei giornali (anche di quelli del padrone antagonista di classe). Odiato padrone che ha peraltro messo a libero paga i più brillanti sessantottini post-rivoluzionari. E dalla cittadella dell’antico nemico silenziosamente conquistata, questi nuovi e vecchi "maitre à penser" pieni di buoni sentimenti e di ottimi valori, distribuiscono patenti su chi fa il bene o il male dell’umanità. Questa visione moralistica, ma non morale, della realtà, più da "Samarcanda" di Santoro che da "Capitale" di Marx, è l’ultima ricattatoria versione di un pensiero presunto "progressista " che ha otturato la possibilità di ragionare su che cosa sia un valore. Finendo col dare un valore (ma solo ne senso commerciale di cui si diceva all’inizio) a poltiglie andate a male come i libri di tanti santoni del senso comune.»
È sbagliato, quindi, contrapporre la solidarietà alla libertà, come se il primo valore dovesse prevalere sul secondo; ed è sbagliato contrapporre la misericordia alla giustizia. Perché la verità è che non può esservi autentica accoglienza, se chi accoglie si vede espropriato della propria libertà (a cominciare dalla libertà di decidere chi, quando e come accogliere): in quel caso, non di accoglienza si dovrebbe parlare, ma di invasione e di sottomissione. Allo stesso modo, non può esservi misericordia senza giustizia: perché la misericordia non consiste nel lasciare impuniti i delitti, o addirittura incoraggiarli con leggi assurde, demagogiche e contrarie al buon senso e alla morale comune, ma nell’essere clementi, nella misura del possibile, con chi ha sbagliato, dopo averlo messo nella condizione di non poter fare dell’altro male ai suoi simili, e dopo aver offerto alle vittime delle sue azioni malvagie tutto il sostegno e tutto il conforto che si meritano, da parte di una società che non ha saputo difenderle, purtroppo, quando ne avevano bisogno.
Buonismo e moralismo sono i figli degenerati di una cultura progressista che, dall’Illuminismo in poi, continua ad inseguire funeste utopie, a dispetto del fatto che tutti i suoi tentativi di tradurle in sistemi politici e sociali si sono risolti in sanguinosi disastri. Imperterriti, quei signori continuano a farsi carico della salvezza del mondo: vogliono, niente di meno, instaurare il regno della bontà e, appunto, dei valori, ma sempre i loro, perché quelli degli altri non li vogliono neanche sentir nominare: vedi il disegno di legge Cirinnà e la cultura omosessualista che vuole imporre, per legge, l’equiparazione delle unioni gay al matrimonio fra uomo e donna, adozione dei bambini compresa. Sanno che una bella fetta del Paese non ci sta; ma che importa? Loro sono buoni e ricchi di valori…
Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Christian Lue su Unsplash