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Il ricatto ideologico della sinistra continua a pesare su generazioni d’intellettuali

Paolo Rumiz, triestino, classe 1947, giornalista e scrittore, è bravo. Ha percorso l’Italia e l’Europa in lungo e in largo, a piedi, in barca, in bicicletta, in treno, scegliendo sempre itinerari un po’ remoti, un po’ strani, molto originali, ma proprio per questo tanto più significativi per la comprensione dell’anima dei luoghi. I suoi libri, inoltre, sono scritti bene: sono agili, scattanti, vivaci, e l’interesse del lettore è catturato dalla prima all’ultima pagina. Raccontano, e fanno scoprire al lettore, la natura, la storia, la geografia, il passato e il presente delle città, dei paesi, delle coste, delle montagne, dei fiumi, dei popoli, delle fabbriche abbandonate, delle valli alpine, delle spiagge inquinate, dei quartieri difficili, dei crocevia delle frontiere. Libri come «È oriente» (Feltrinelli, 2003) o «La leggenda dei monti naviganti» (Feltrinelli, 2007) sono dei piccoli gioielli del genere "letteratura di viaggio": per certi aspetti, superiori a quelli del tanto decantato Bruce Chatwin. Perché Bruce Chatwin deve andarsene all’altra estremità del mondo, per trovare e per offrire il senso della lontananza; al Nostro, basta girare l’angolo di casa, ed ecco che fa scoprire al lettore le cose più impensate, gli scorci più inattesi.

Ora che ne abbiamo detto tutto il bene possibile, veniamo alla nota dolente. Che sia un intellettuale di sinistra, è affar suo; del resto, non ci vuol molto per rendersene conto: basta vedere la casa editrice con cui pubblica i suoi libri, o le persone con le quali ama accompagnarsi nei suoi viaggi. Nessun problema; ci mancherebbe. Ciascuno ha il diritto di schierarsi da che parte gli sembra giusto; l’importante, per un intellettuale, è cercare di non essere mai fazioso. Ma poi andiamo a leggere la sua biografia su Wikipedia, e troviamo questa frase, probabilmente da lui approvata, altrimenti pensiamo che avrebbe chiesto di rimuoverla: «nel 2012 compie un viaggio completo sul Po evitando, volutamente, di iniziarlo dalle sorgenti sul Monviso per non omaggiare i tristi e vuoti rituali "nordisti" della Lega Nord», eccetera. E qui casca l’asino: grande è stata la delusione, diremmo la tristezza, nel leggere quella frase.

Vorremmo precisare subito, a scanso di equivoci, che non siamo mai stati leghisti e che non abbiamo mai provato una particolare simpatia né per Umberto Bossi, né, meno ancora, per certe sue trovate "celtiche", o pseudo tali, pur non essendo mai stati antileghisti per ragioni aprioristiche; e ne fa fede quanto abbiamo scritto a suo tempo, all’acme del fenomeno Lega (cfr., ad esempio, il nostro articolo: «La Lega Nord spiegata agli altri Italiani», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 26/04/2011). Il punto, comunque, non è questo: il punto non è – né potrebbe esserlo – il fatto di provare simpatia o di dissentire da questo o quel movimento o partito politico, da questa o quella ideologia; il punto è, ancora e sempre, la ragione per cui ci si pone in un certo modo rispetto alle cose, la motivazione che si dà, e, soprattutto, il rispetto dovuto a quel valore sempre più evanescente nella nostra società relativista, che una volta si chiamava "verità", o, almeno, "sforzo verso la verità". Vale per gli intellettuali, a fortiori, quel che vale per qualunque altro essere umano: ossia che le sue convinzioni ideologiche vengono dopo la sua onestà intellettuale; ad una persona intellettualmente onesta, infatti, non ha senso chiedere il passaporto ideologico.

Ora, una persona intellettualmente onesta non ha paura di fare una certa cosa perché essa è già stata fatta da qualcun altro, che la pensava in maniera completamente diversa da lui e che l’ha fatta con intenzioni diverse dalle sue. Non subisce ricatti, morali o intellettuali, di alcun tipo; quel che ritiene giusto, lo fa; e quel che ritiene sbagliato, non lo fa. Ora, il fiume Po nasce dal Monviso: questo è un fatto; questa si chiama geografia. Se si vuole raccontare ai lettori il fiume Po, e se si vuol raccontarla per mezzo del resoconto di un viaggio lungo di esso, non si può saltare il Monviso, come se il Po nascesse dallo Spirito santo e non da una montagna, come tutti gli altri fumi del mondo, soltanto perché la Lega lo ha scelto quale luogo simbolico nel contesto della sua mitologia "celtica". Sarebbe come raccontare il Veneto senza essere andati a vedere Venezia, solo perché a Venezia Umberto Bossi tenne una famosa adunata dei suoi seguaci, nel corso della quale, fra l’altro, invitò una signora, che aveva esposto la bandiera tricolore alla finestra di casa sua, a prendere la bandiera e a "gettarla nel cesso". Le parole di Bossi furono di una volgarità infinita; ma saltare Venezia, se si vuol raccontare il Veneto, sarebbe assurdo; e ancora più assurda sarebbe una tale motivazione, cioè evitare di "contaminarsi" col mettere piede nello stesso luogo dove avvenne il fattaccio. Non si rinuncia a visitare le Gallerie dell’Accademia, o la Basilica di San Marco, solo perché un piccione ha fatto la cacca davanti alla porta. Non sarebbe un gesto intelligente; e non sarebbe neppure un gesto intellettualmente onesto. Sarebbe furore ideologico, per giunta di vecchio, vecchissimo stampo. La cacca del piccione non è "fascista"; è cacca, semplicemente. Se si entra nella logica di catalogare ideologicamente ogni cosa, e di subire il ricatto permanente del politically correct, si va verso la schizofrenia, verso il delirio.

Ebbene, questa è la situazione italiana odierna: la maggioranza dei cosiddetti intellettuali sono schizofrenici, perché continuano a subire in pieno il ricatto ideologico della sinistra. Intendiamoci: chiunque non sia sufficientemente libero nelle proprie scelte è la vittima consenziente di un ricatto, sia esso di destra o di sinistra. Ma sta di fatto che la sinistra ha avuto l’egemonia culturale, in Italia, dal 1945 a oggi: dunque, il politically correct è sempre stato quello della sinistra, non della destra. Che poi fosse un politically correct estremamente variabile, questo si sa: nel 1956 voleva dire approvare la repressione sovietica di Budapest, come infatti fece il nostro ex presidente Giorgio Napolitano; nel 2011, voleva dire approvare, benedire e sostenere l’attacco americano e anglo-francese contro il regime di Gheddafi in Libia: come, di nuovo, fece il nostro ex presidente Napolitano. E la stessa cosa hanno sempre fatto tutti gli altri. Sappiamo cosa predicava Adriano Sofri negli anni roventi di Lotta Continua, e cosa pensava degli Stati Uniti d’America; ma ecco che, quando scoppia la guerra in Bosnia e in Kosovo e si parla di "genocidio" (che non è mai stato dimostrato), diventa interventista e approva la guerra della NATO contro il "criminale" Slobodan Milsoveic. In nome dei diritti umani, si capisce. Anche Gheddafi andava eliminato perché non rispettava i diritti umani: Napolitano, nel 2011, diede la stessa motivazione che D’Alema aveva dato nel 1999 per giustificare l’attacco contro la Serbia e il selvaggio bombardamento di Belgrado. Eh, già: in quel caso, si trattava di salvare gli Albanesi del Kosovo dalla pulizia etnica dei Serbi. Peccato che, poi, la pulizia etnica l’abbiano fatta gli albanesi a danno dei serbi, con le armi e la supervisione della NATO.

Sia come sia, non vogliamo addentrarci nel merito dei giudizi politici su questa o quella pagina di storia recente. Vogliamo solo far notare che la cultura di sinistra, da sempre, si è auto-proclamata la sola legittima custode e depositaria della moralità interna e internazionale; ed ha bollato, da sempre, gli uomini della destra (e le loro idee) come "fascisti", "spazzatura", "topi di fogna". Quest’ultima espressione fu simpaticamente adoperata dal sindaco di Roma, Ignazio Marino, uomo — allora — del Partito democratico, e non nel calor bianco della campagna elettorale, ma proprio da sindaco della capitale, cioè, in teoria, da sindaco di tutti i suoi concittadini: quelli che l’avevano votato e quelli che non lo avevano votato; perché la democrazia, qualcuno dovrebbe spiegarlo ai signori pidiellini, funziona così, anche se a loro non piace. E non piace per una ragione semplicissima: che essi si considerano i depositari del Bene, del Giusto e del Vero, retaggio della cultura illuminista e giacobina, secondo la quale i "reazionari" e i "nemici del popolo" vanno sterminati: come fecero, appunto, i Giacobini con gli abitanti della Vandea, nel 1793-94.

E ora torniamo a Paolo Rumiz, al Po e al Monviso. Un uomo veramente libero non subisce ricatti intellettuali: si misura con la realtà, la guarda in faccia, e poi se ne va per la sua strada. Nessuno gli avrebbe chiesto di raccogliere l’acqua del dio Po in una boccetta, come fecero i leghisti in quella ridicola manifestazione del 2011. Ma gli intellettuali di sinistra hanno i riflessi condizionati come il cane di Pavlov, che, appena sente suonare il campanello, pensa al cibo e comincia a produrre saliva. Conosciamo personalmente intellettuali di sinistra, i quali, semi-clandestinamente, leggono autori come René Guénon, Julius Evola e Alain de Benoist: ma, per carità, che non lo si sappia in giro! E li apprezzano, anche; ne discutono fra loro, soddisfatti, da intenditori, si fa con gli scrittori di culto: però non lo ammetterebbero mai in pubblico. Piuttosto, si farebbero ammazzare. Hanno una reputazione da difendere, loro; vuoi mettere. Si auto-censurano per preservare la loro purezza ideologica. Sono gente di sinistra, perdio!, e dunque gente seria: e non potrebbero mai ammettere di aver trovato qualcosa di buono in un autore di destra — se non a bassa voce, fra pochi intimi; perché un autore di destra non può essere altro che un cialtrone, per definizione e per destino.

Una cultura di destra, lo sanno tutti, non esiste; e la politica di destra è "fascismo", puramente e semplicemente: pertanto, un qualcosa che è stato condannato dal tribunale della storia, irrevocabilmente e implacabilmente, una volta per tutte (perfino da ex leader di destra: come quel Gianfranco Fini che, durante una visita ufficiale in Israele, qualificò il fascismo come parte del Male Assoluto!; che altro dire?). Costoro somigliano tanto a quei "borghesi" frustrati e ipocriti, i quali, da sempre, ma specialmente dal 1968, sono stati il bersaglio preferito e irresistibile dei loro strali, dei loro motteggi, dei loro film, dei loro articoli, dei loro slogan e della loro sferzante ironia: di giorno bravi padri di famiglia e professionisti integerrimi; la notte, via a raccogliere prostitute sui bordi della statale. E così loro: di giorno leggono e discutono Marx, l’intramontabile, e poi Gramsci, e naturalmente Che Guevara; la notte, a lume abbassato, si abbandonano alle letture proibite, innominabili, perverse: Evola e de Benoist

Dunque, se Bossi va sul Monviso, loro non ci vanno. Per dispetto. Per ripicca: come dei bambini viziati e testardi, che mostrano la lingua a colui che vogliono offendere. E se, per caso, dicono qualcosa che potrebbe essere condiviso da qualcuno che, ideologicamente, sta a destra, subito se ne vergognano, e sentono il dovere di giustificarsi, di spiegare, di distinguere. Sì, hanno detto quella tale cosa, ma mica per le abiette ragioni per cui la dicono quegli altri, quei miserabili, quegli avanzi di galera. Loro sono l’intellighenzia: hanno la Verità in tasca. Loro non sbagliano, né potrebbero sbagliare, perché marciano col Progresso; gli altri hanno torto, perché si oppongono al Progresso, e, dunque, alla Civiltà. La legge Cirinnà è la legge che farà dell’Italia, finalmente, un Paese civile; e chi non vuole i matrimoni omosessuali o le adozioni omosessuali, non è soltanto un reazionario, è anche una persona incivile. L’Italia "giusta", come diceva il buon Pier Luigi Bersani, è quella progressista e di sinistra; si vede che tutti gli altri Italiani sono "sbagliati". Ora, quelli "giusti" hanno sempre avuto ragione, sempre, fin tempi di Adamo ed Eva, dei Gracchi e di Fra Dolcino. Avevano ragione pure nel 1934, coi Fronti popolari, e nel 1939, col patto Molotov-Ribbentrop: hanno sempre ragione, loro. Contro Hitler o con Hitler; contro il capitalismo yankee o al seguito di esso. Loro non sbagliano, non hanno mai torto. Perciò non fanno mai mea culpa; del resto, perché dovrebbero? Anche se il Muro di Berlino è caduto in testa a loro, mica agli altri. Ma si vede che questo è un dettaglio irrilevante.

Ora, poi, vogliamo dire da qualche anno a questa parte, le cose si son fatte ancor più chiare, per la delizia dell’opinione pubblica che legge e ascolta devotamente le sentenze degli intellettuali politically correct: perché la sinistra italiana, oggi, non ha ereditato solamente gli orfanelli di Marx, di Lenin e del compagno Stalin, nonché del "Migliore", di quel Palmiro Togliatti che plaudiva all’assassinio di Giovanni Gentile, alla prigionia dei nostri alpini in Russia e che voleva regalare Trieste, o almeno Gorizia, al caro compagno Tito; ha ereditato anche gli orfanelli della sinistra democristiana, i cattolici progressisti, i preti che s’ispirano più al «Capitale» o al «Libretto Rosso» del compagno Mao, che al misero Vangelo di un certo Gesù Cristo, testo palesemente ormai vecchiotto e notoriamente bisognoso di revisioni e di restauri in senso modernista e progressista. E quella è gente che non scherza, che ha doppiamente ragione: primo, perché ha umanamente ragione; secondo, perché ha Dio dalla sua parte, che la ispira e la sostiene, e dunque è matematicamente infallibile, di qualunque cosa parli, dall’aborto (ma sempre meno, in verità; nel senso che proprio non ne parla più) e dall’eutanasia, fino ai diritti degli omosessuali e a quelli dei "migranti". E c’è qualcuno che vorrebbe contraddirli, adesso che non hanno solo Togliatti dalla loro, ma anche Iddio?

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Christian Lue su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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